— Io non so che intendiate per "gloria", disse Alice.
Unto Dunto sorrise con aria di compatimento..
— Certo che non lo intendi... se non te lo dico. Eccoti un magnifico trionfale argomento.
— Ma "gloria" non significa un magnifico trionfale argomento, — obiettò Alice.
— Quando io uso una parola, — disse Unto Dunto in tono d'alterigia, — essa significa ciò che appunto voglio che significhi: nè più nè meno.
— Si tratta di sapere, — disse Alice, — se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
— Si tratta di sapere, — disse Unto Dunto, — chi ha da essere il padrone... Questo è tutto.
Alice era così impacciata che non disse nulla, e dopo un minuto Unto Dunto ricominciò:
— Alcune di esse sono intrattabili... specialmente i verbi sono orgogliosissimi... con gli aggettivi si può fare ciò che si vuole, ma non con i verbi... Però io so maneggiarle tutte quante. Impenetrabilità! Ecco che dico!
— Vorreste dirmi, per favore, — disse Alice, — che cosa significa questo?
— Ora parli come una bambina ragionevole, — disse Unto Dunto, con un'aria molto soddisfatta. — Intendevo con "impenetrabilità" d'averne avuto abbastanza di questo argomento e che sarebbe stato opportuno che mi avessi detto che pensavi di far dopo, perchè suppongo che tu non intenda fermarti qui vita natural durante.
— È un voler far significare troppe cose a una parola sola, — disse Alice in tono pensoso.
— Quando a una parola faccio far tanto lavoro, — disse Unto Dunto, — la pago di più.
— Oh! — disse Alice, troppo confusa per fare anche una sola osservazione.
— Ah, dovresti vederle venirmi intorno la sera del sabato, — disse Unto Dunto, gravemente scotendo la testa da un lato all'altro, — per aver la paga.
Quando Alice, in Attraverso lo specchio, incontra Humpty Dumpty, si scontra con la sua peculiare teoria del significato: "quando io uso una parola, essa significa appunto ciò che io voglio che significhi". È una visione solipsistica certamente accettata da pochi studiosi del linguaggio: il linguaggio è un'attività sociale, chi parla normalmente desidera farsi comprendere, e quindi non può avere un lessico tutto privato non condiviso da nessun altro. Il filosofo Hilary Putnam, inoltre, sostiene di non saper distinguere un olmo da un faggio, il che vuol dire che nemmeno lui sa esattamente cosa intende quando usa una delle due parole.
All'opposto di questa visione, c'è quella che vede il significato di una parola come imposto da un particolare tipo di autorità linguistica, come ad esempio un dizionario: la parola "olmo" non denota un faggio, ma denota proprio gli olmi, perché così è scritto nel vocabolario. La difficoltà insita in questa visione è che gli estensori dei dizionari normalmente non considerano se stessi come se stessero "istituendo" il significato di una parola, ma piuttosto come se lo stessero semplicemente "registrando". Qual è quindi l'autorità originaria? Chi ha deciso per primo che la parola "olmo" denota proprio gli olmi?
Molti direbbero che lo decide la comunità linguistica, ma anche questa risposta è destinata a suscitare ulteriori interrogativi. Cosa vale come comunità linguistica? Una sola persona non può costituire una comunità linguistica, perché altrimenti ricadremmo nel caso di Humpty Dumpty. Ma in virtù di quale motivo due persone, o tre, o centomila, avrebbero l'autorità che manca a una sola persona? E in che modo una comunità "decide" il significato delle parole? In quali occasioni? Attraverso quali procedure? Come difende la propria autorità? Di certo non attraverso il voto democratico.
Ma soprattutto, qual è la comunità cui far riferimento per comprendere il significato di una parola italiana? Ovviamente è quella dei parlanti italiano, solo che per decidere che uno sta parlando italiano dobbiamo prima conoscere i significati corrispondenti alle parole che usa, e quindi torniamo al punto di partenza: avevamo stabilito che sono gli italofoni a decidere cos'è l'italiano corretto, ma per identificare gli italofoni dobbiamo prima avere un criterio che ci permetta di capire se parlano effettivamente un italiano corretto.
Prendiamo un caso leggermente diverso da quello di Humpty Dumpty: Valeria Marini (nella versione di Sabina Guzzanti).
"Questo è un attentato terronistico", "chi mi conosce sa che ho una grande unanimità interiore", "gli intellettuali sono troppo cervicali", "sono veramente scremata", "mai una voce fuori dal colon". Che lingua è? È italiano oppure no?
In un certo senso lo è, perché tutti coloro che parlano italiano la capiscono benissimo, e si rendono conto che per "cervicali" Valeria Marini intende "cerebrali" e che per "colon" intende "coro". Eppure non è italiano, perché nella nostra lingua quelle parole hanno altri significati. Ciò che differenzia Valeria Marini da Humpty Dumpty è che lei non usa, consapevolmente, un linguaggio privato, ma si sforza proprio di parlare un italiano corretto, e in virtù di questo fatto le sue parole non significano ciò che lei vorrebbe fargli significare.
Ma prima di liquidare quella di Valeria Marini come semplice ignoranza, sarebbe opportuno ricordare che ci troviamo tutti, chi più chi meno, nella stessa posizione. Nessuno conosce davvero tutti i vocaboli della lingua italiana, e probabilmente tutti ogni tanto usiamo un vocabolo nella maniera sbagliata (come Putnam ha sinceramente ammesso a proposito degli olmi e dei faggi). Quindi forse nessuno di noi parla italiano, nel senso in cui non lo parla Valeria Marini.
Il che equivale a dire che, in un certo senso, la lingua italiana non esiste, se davvero essa si identifica a partire da una comunità di parlanti. Ma se la lingua italiana non esiste, è sbagliato anche dire che qualcuno la parla in modo scorretto. Tutti gli usi sono leciti, il che sembra farci ritornare di nuovo ad Humpty Dumpty.
Un modo per uscire da questa impasse potrebbe essere quello di segnalare il fatto che il linguaggio di Valeria Marini, pur essendo nella pratica scorretto, a differenza di quello di Humpty Dumpty contiene un implicito rimando a un "canone", a un'autorità linguistica. Come si diceva, il punto non è se Valeria Marini parli effettivamente italiano, ma che abbia intenzione di farlo.
In questo modo però, rimaniamo con la difficoltà di stabilire la fonte di tale autorità, e in più abbiamo un altro problema. Volevamo infatti eliminare gli elementi di completa soggettività e arbitrio personale presenti nel linguaggio di Humpty Dumpty, ma a questa soggettività facciamo nuovamente ricorso nel momento in cui stabiliamo che sono le intenzioni di Valeria Marini che decidono la questione.
Prendiamo un caso ancora diverso:
S'era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cincinarri
suffuggiavan longe stetto.
Si tratta, di nuovo, di un passo tratto da Attraverso lo specchio, di Lewis Carroll, ovvero la prima strofa del poema sul Jabberwocky. Neppure questa è lingua italiana, anche se vi somiglia. Però non c'è dubbio che la strofa è pensata per essere letta da chi parla italiano, anche perché altrimenti non si capirebbe la necessità di tradurla dall'originale inglese (che a sua volta non è proprio inglese).
Per il significato delle parole, potremmo rivolgerci di nuovo ad Humpty Dumpty, che afferma di poter "spiegare tutte le poesie che sono state scritte... e molte altre che non sono state scritte ancora". Ad esempio "cocce significa le dieci della mattina, l'ora in cui si comincia a cuocere i cibi per la colazione" e "girtrellare vuol dire rotare come un giroscopio e far buchi come un trapano", mentre il pischetto è "la zolla d'erba intorno alla meridiana. È detta pischetto perchè si espande un po' innanzi e un po' dietro la meridiana...". Ma in realtà non abbiamo motivo di fidarci di lui, non essendo nemmeno l'autore della poesia.
Un caso simile è quello di James Joyce:
The fall (bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonn-thunntrovarrhounawnskawntoohoohoordenenthurnuk!) of a once wallstrait oldparr is retaled early in bed and later on life down through all christian minstrelsy. The great fall of the offwall entailed at such short notice the pftjschute of Finnegan, erse solid man, that the humptyhillhead of humself prumptly sends an unquiring one well to the west in quest of his tumptytumtoes: and their upturnpikepointandplace is at the knock out in the park where oranges have been laid to rust upon the green since devlinsfirst loved livvy.
Si potrebbe sostenere che qui abbiamo una volontaria deviazione dal canone, e che quindi il linguaggio esaminato, pur non essendo inglese, è parassitario della lingua inglese. Bisogna conoscere l'inglese, e nel caso di Joyce anche molto bene, per poterlo comprendere (si notino, fra l'altro, i velati riferimenti alla triste storia di Humpty Dumpty nel passo sopra riportato). Ma, ancora una volta, dov'è il canone?
Umberto Eco, analizzando il linguaggio dei Puffi (nel saggio Schtroumpf und Drang contenuto in Sette anni di desiderio) sostiene che il canone non è costituito tanto dalla competenza lessicale dei parlanti o dei lettori, ma da una certa conoscenza contestuale o "enciclopedica" ("Dizionario vs. Enciclopedia") del mondo del parlante. Si prenda questo discorso, tratto da un albo a fumetti di Peyo:
Domani, pufferete alle urne per puffare colui che sarà il vostro puffo. E a chi pufferete il vostro voto? A un puffo qualsiasi che non puffa al di là della punta del proprio puffo? No! Vi serve un puffo forte sul quale possiate puffare! E io sono quel puffo! Alcuni – che qui non pufferò – pufferanno forse che io puffo solo la gloria... questo non è affatto puffo! È il puffo comune che io voglio e mi pufferò fine allo stremo delle puffe se occorre affinché la puffa torni a regnare nei nostri puffi. E quel che adesso puffo, lo pufferò, ecco la mia promessa! Ecco perché domani tutti insieme, la puffa nella puffa, voterete per me! Viva Puffilandia!
La possibilità di capire questo discorso deriva dal fatto che esso è altamente stereotipato, e fa uso di locuzioni che richiamano altri modi di dire presenti nella nostra lingua, e spesso usati in contesti di tipo elettorale. Qualcosa del genere vale anche per Joyce, ma in modo un po' diverso, in quanto per comprenderlo è necessaria non solo la conoscenza quasi perfetta della lingua inglese, ma anche la storia e la letteratura universale.
Umberto Eco con la sua teoria dell'interpretazione letteraria (contenuta ad esempio in Lector in fabula) sostiene che ogni testo, a prescindere dalle intenzioni soggettive dell'autore empirico, postula un Lettore Modello (distinto dal lettore empirico), che deve ricostruire i significati inseriti nel testo dall'Autore Modello, a partire dalle conoscenze enciclopediche implicite, anche se non espressamente formulate, nel testo.
Ad esempio per capire Dante e il sonetto "tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quando ella altrui saluta", occorre tener presente non tanto le intenzioni di Dante nello scrivere il sonetto, ma il fatto che quasi nessuno dei termini presenti in questo celebre incipit ha oggi esattamente lo stesso significato che aveva ai tempi di Dante ("gentile", "onesta", "pare", "donna"). Non occorre infilarsi nella testa di Dante, ma occorre infilarsi nei panni di un ipotetico uomo tipico fiorentino e colto del tredicesimo secolo.
Sarà, però a me che sono discepolo di Guglielmo da Occam questa proliferazione di enti (Autore Modello, Lettore Modello, etc.), non piace molto. Inoltre Eco sacrifica una teoria quasi certamente falsa, ma dotata di una certa semplicità, solo per approdare a una teoria irrimediabilmente vaga e fumosa. Se è praticamente certo infatti che non esiste un canone linguistico di tipo Dizionario che ancori alle parole significati univoci e fissati una volta per tutte, e valido per ogni interlocutore (dati i confini mobili della nostra lingua), ancora più difficile risulta compilare un'Enciclopedia che ci permetta di comprendere un testo.
No, per me che sono un po' terra terra, a contare davvero sono solo l'autore empirico e il lettore empirico. Il che significa concedere ad Humpty Dumpty che, alla fine dei conti, potrebbe non avere tutti i torti. Dopo tutto dire che occorre conoscere il contesto culturale nel quale la conversazione ha luogo per comprenderla, è solo un modo complicato per dire che occorre conoscere il complesso di credenze di chi parla, avere un'idea di quel che c'è nella sua testa, e non in un altrove che non è codificato da nessuna parte.
Ma allora dove sbaglia Humpty Dumpty? Forse solo in una cosa. Egli non può essere "il padrone", neanche pagando le parole il doppio, perché c'è almeno un'altra persona che ha diritto di avere voce in capitolo: Alice, colei alla quale Humpty Dumpty si sta rivolgendo. Egli non può vendere ad Alice le sue parole con i significati imposti da lui, in quanto Alice ha diritto di rifiutarli (ma è anche libera di accettarli).
La situazione ha un suo parallelo nell'attività economica. Un panettiere ha il diritto di fissare il prezzo che vuole per le sue pagnotte? Certo che ce l'ha, ma poi non si deve lamentare se nessuno compra il suo pane perché ha fissato un prezzo troppo alto. Qual è il giusto prezzo per un dato bene? È semplicemente quello deciso dal libero mercato, non esiste nessuna autorità che può imporlo (se non a danno della comunità). Può esistere un listino di prezzi compilato da enti come l'Istat, che può anche aiutarci a capire se qualcuno cerca di venderci qualcosa a un prezzo troppo elevato, ma tali enti in realtà non decidono niente, quella è solo la registrazione di una prassi già consolidata.
Il significato di una parola, quindi, è qualcosa che si ottiene attraverso la "contrattazione" fra parlante e interlocutore. Non è un qualcosa che esista prima della comunicazione, così come non esiste un prezzo del pane prima della compravendita. Il pane prodotto per uso esclusivamente personale ha un costo, il quale è certamente connesso col suo prezzo, ma non si identifica con esso. La contrattazione che stabilisce il prezzo, comunque, non avviene fra chi parla e un'intera comunità. Il prezzo del pane è piuttosto il risultato di innumerevoli contrattazioni individuali, alcune delle quali sfuggono alla nostra sfera d'influenza, ma dalle quali nessuno è escluso.
Trovo che la filosofia del linguaggio, oltre ad essere interessante in sé, offra molti spunti di riflessione per quanto riguarda altre discipline, come l'economia o addirittura la politica. Ci si potrebbe anche chiedere, ad esempio, se le leggi scritte nei nostri codici vengono create ex novo dal legislatore, o se il suo compito dovrebbe essere piuttosto quello di scoprirle, e dalla risposta a questa domanda dipenderebbero molte cose. Ma questa è un'altra storia.
P.S. Excusatio: se qualcuno trova che i miei post stiano diventando sempre più lunghi e pesanti, io ho le stesse perplessità.
no,no,no:i tuoi post sono sempre interessanti,sprazzi di luce che illuminano la mia profondissima ignoranza.continua cosi'.
RispondiEliminaSì ha ragione Apollon Zamp!
RispondiEliminaVolevo da parte mia far notare certe anomalie, al di la delle regolamentazioni ufficiali delle lingue: i francesi usano "euros", i ticinesi usano parole svizzeresi, i giornali tedeschi peggio che mai. Poi ci sono le variazioni locali dell'inglese che uno se ne accorge passando un po' di tempo in Australia, ad esempio, o a Milano.
Nel mio piccolo io continuo ad usare la "d" eufonica.
Naturalmente il post non parla solo di questo, non è troppo lungo, anzi uno ci resta male quando lo finisce. Forse è troppo lungo il mio commento, fuori tema (OT), come al solito.
Unto Dunto? Non avevo mai sentito questa versione italiana del personaggio caroliano... eh sì che credo di essere uno dei pochi che si ricordi di Lollo Rompicollo o di Pinco Pallino.
RispondiEliminaPerò anche nei puffi non c'era omogeneità: vedi l'episodio "la guerra dei puffi", che nasce perché una metà del paese dice "cavapuffi" e l'altra "puffatappi".
Rado, la tua cultura sui fumetti è davvero impressionante.
RispondiEliminaA me comunque "euri" piace, lo trovo più logico perché tutte le altre monete sono declinabili.
RispondiEliminaPer le congiunzioni eufoniche, quando correggo un testo di solito cerco di eliminarle (sempre nel caso dell'orribile "od"), tranne che in casi speciali come "ad esempio".
"Rado, la tua cultura sui fumetti è davvero impressionante."
RispondiEliminada piccolo volevo fare il fumettista. per cui divoravo fumetti su fumetti per apprenderne le tecniche.
Lollo Rompicollo...
RispondiEliminaWow!!!
Era rintanato nei (pochi) neuroni, sepellito da tonellate di polvere (sarà crollata la tana?).
Coscentemente mi spingevo fino a Nembo Kid.
mc
A proposito di Alice, nel cartone animato in versione italiana viene posto l'indovinello "lo sai che i tramonti son pupazzi da legare?"
RispondiEliminaA parte il gioco di parole "pupazzi da legare", questa frase ha sempre turbato i miei sogni infantili...
Mastrociliega: e prima di Nembo Kid era Ciclone.
RispondiEliminaE se ti dico "Sigfrido" quale fumetto ti viene in mente?
:-)
e prima di Nembo Kid era Ciclone.
RispondiEliminaNo. Questa non la sapevo.
E se ti dico "Sigfrido" quale fumetto ti viene in mente?
Neanche costui mi dice qualcosa, ma per entrambi (soprattutto il secondo) ho il forte sospetto che siano personaggi del ventennio.
"Sigfrido" ha poi subito un rename?
Io non sono un fumettologo.
Nembo kid lo conosco per averlo letto. Di Lollo Rompicollo forse guardavo le figure.
Unto Dunto (forse d'Unto) mi fa risuonare qualcosa in memoria, ma non ricordo cosa.
mc
Excusatio: se qualcuno trova che i miei post stiano diventando sempre più lunghi e pesanti, io ho le stesse perplessità.
RispondiEliminaProbabilmente sei stato contagiato dal sottoscritto, che come la nobildonna citata da Sciascia nella chiosa finale de "Il giorno della civetta", non ha il tempo di far più brevi i suoi post (o commenti, o email che siano).
L'argomento è sterminato, mentre il tempo - dannazione ! - scarseggia. Mi limiterò a giustapporre qualche flash, in maniera fin troppo ermetica.
Durante la lettura mi è immediatamente venuta in mente la sghignazzevole "teoria matematica dell'umorismo" di J. A. Paulos, che goliardicamente (ma con più di un pizzico di ragione) mette in campo addirittura la teoria delle catastrofi di Réné Thom per illustrare alcuni meccanismi della comicità basati sull'anfibolia semantica, sulla polisemia e dintorni.
D'altro canto, anche il sor reverendo professor Charles Dodgson, in arte Lewis Carroll, era un matematico...
Inoltre non si può fare a meno di pensare a quel raccontino (un ricordo delle scuole medie, forse era di Buzzati ?) nel quale grazie ad una polverina magica le mille espressioni figurate (e spesso insensate più che iperboliche) della nostra lingua divengono reali: e così all'amico cui "sanguina il cuore" spunta davvero una macchia rossa sulla camicia immacolata, la moglie grassa come una botte e la figlia magra come un'acciuga si trasformano istantaneamente negli oggetti menzionati, e via di questo passo... vale la pena di ricordare che molti ottusi privi di sense of humour, e qualche sfortunato con la sindrome di Asperger et similia, non sono in grado di adire a certi livelli di significato figurativi, limitandosi alla lettera.
D'altro canto si dice anche di Wittgenstein che, visitando in ospedale un'amica che si lamentava di sentirsi come un cane investito da un'auto, la rimbrottasse severamente dicendo che lei giammai avrebbe potuto sapere realmente come poteva sentirsi il povero animale in tale frangente.
Probabilmente l'episodio è nel dettaglio falso, ma del tutto credibile nello spirito, dato il personaggio.
Tuttavia non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo cedere al relativismo semantico fai-da-te. Deve esistere un minimo di normatività: il parere della maggioranza non può essere che l'espressione dell'incompetenza, diceva il colossale Réné Guénon.
Quella normatività autorevole che impedisca ad esempio scempi come "attimino", o "teorema" abusato dagli imbrattacarte delle cronache giudiziarie per significare l'esatto contrario di un teorema, oppure ancora quei cervellini fritti che credono di poter sostituire "questo, o piuttosto quello" con "A piuttosto che B".
Inoltre non si può fare a meno di pensare a quel raccontino (un ricordo delle scuole medie, forse era di Buzzati ?) nel quale grazie ad una polverina magica le mille espressioni figurate (e spesso insensate più che iperboliche) della nostra lingua divengono reali: e così all'amico cui "sanguina il cuore" spunta davvero una macchia rossa sulla camicia immacolata, la moglie grassa come una botte e la figlia magra come un'acciuga si trasformano istantaneamente negli oggetti menzionati, e via di questo passo...
RispondiEliminaSanto cielo, mi pare di ricordare qualcosa del genere, ma non credo fosse Buzzati. Mi sembra fosse un racconto americano (c'entrava il desiderio di un bambino).
In compenso mi ricordo di un racconto di Fredric Brown dove al protagonista capitavano le cose più assurde perché, si scopre alla fine, in cielo si è rotta la macchina da scrivre che sta narrando la sua storia, con refusi che diventano reali (del tipo che invece di fissare un angolo della parete, il protagonista si ritrova a fissare un angelo).
Chiudo l'OT fumettistico rispondendo a mastrociliegia:
RispondiEliminaCiclone era Superman ribattezzato nel Ventennio: niente nomi stranieri.
Sempre nel Ventennio Tarzan divenne Sigfrido, inventandosi origini teutoniche sottolineate nel colorargli di biondo la zazzera.
liebniz: ma qualcosa del genere non era anche in più di un racconto di Gianni Rodari?
RispondiEliminaIl racconto che dicevo io (probabilmente è un altro di quello ricordato da Leibniz) si chiamava "Una giornata meravigliosa" (The wonderful day) di Robert Arthur, ed era contenuto in questa storica antologia.
RispondiEliminaBeh, credo che abbiamo ragione un po' tutti, anche se a distanza di oltre trent'anni non sono certo della paternità del raccontino, che mi pare finisca con un personaggio portato via svolazzando da un dolce zefiro ("Qual buon vento ti porta ?").
RispondiEliminaComunque l'ipostatizzazione (reificazione, bah...) delle iperboli e dei modi di dire icastici è un tema parecchio sfruttato nel Novecento, e non solo. Serve a ben evidenziare l'assurdità di certi modi di dire idiomatici, che peraltro sono incomprensibili e spesso perfino intraducibili per gli allofoni.
^_^ mai fatto morfologia a livello universitario? no? bene, allora sei alle operazioni + - * : dell'analisi matematica che vorresti fare.
RispondiEliminaIn moldo un po' più serio, nelle facoltà di lettere e filosofia si insegnano proprio questi concetti, utili per descrivere sia l'evoluzione della/e lingue vive/morte sia gli errori compiuti dagli utilizzatori finali ... emm coloro che parlano.
Ma non mi dire
RispondiEliminaVi propongo una visione complottistica.
RispondiElimina[ironic mode on]
Qual è il vero italiano, chiedete voi? Ve lo dico io.
Siccome quello degli accademici è un mondo piramidale, con una base di scolaretti che si restringe passando per prof di lettere su verso ricercatori fino ai soloni della Crusca, e
siccome questa piramide viene mantenuta da una continua minaccia di "guarda che io so una postilla/una regoletta più di te quindi vedi di stare al tuo posto" (e abbiamo la prova di un insegnante di lettere sanremese che cerca di usare questo metodo, in mancanza di argomenti validi da contrapporre ai sicofanti e marmaldi prezzolati, QED),
allora l'italiano "vero" non può che essere quella lingua che MASSIMIZZA gli errori del volgo, i tratti di penna rossa sui temi scolastici. Una specie di percorso di "massima energia", definito proprio da chi ha più "energia".
Altrimenti spiegatemi voi per quale motivo, se millemila persone scrivono "innoquo", la parola corretta debba essere "innocuo" (giusto per fare un esempio recente di strafalcione ritrovato su un sito di informazione).
Questa idea me la sono fatta diverse volte quando mi correggevano locuzioni e grafìe che a me (mi) sembravano assolutamente naturali. Non dimenticherò mai il mio tenero e adorato "essere daccordo", ucciso, anzi, apostrofato, da queste norme grammaticali avulse dall'ignoranza comune.
[ironic mode off]
PS tuoi post vanno bene, altrimenti non li leggerei. Solo che non li leggo durante la pausa caffé in ufficio, ma me li serbo per la riflessione serale, sai, quella dell'Ultima Sigaretta (anche se non fumo).
Sul perchè una certa parola significhi qualcosa piuttosto che qualcos'altro è insensato tirar fuori qualche ragione emotiva? "Arrabbiato" e "gioioso" son due parole dal significato molto diverso e la cosa si riflette bene nelle lettere delle parole stesse (doppie "r" e "b" nella prima, "g" e "o" nella seconda) e si ripercuote abbastanza bene anche nelle altre lingue (angry e happy, per dire). Certo, l'emotività che sta dietro le parole "sole" e "luna", "olmo" e "faggio" mi sfugge.
RispondiEliminaComunque sia, i tuoi post saranno lunghi ma son lungi dall'essere pesanti, è una delle qualità che ho apprezzato da quando ho scoperto il tuo blog. Ci provassi io, sarei il primo a sbadigliare leggendomi :D
Esiste una certa relazione fra il suono delle parole e il significato (ad esempio la tendenza ad associare la vocale "i" alle cose piccine e la vocale "o" alle cose grosse), ma insomma, in generale si può assumere che la relazione suono-significato sia in gran parte arbitraria, o perlomeno lo diventa presto con l'evolvere della lingua
RispondiElimina@markogts
RispondiEliminaMi piace un sacco la tua "ironic mode". Nel senso che gli interrogativi che sollevi sono fondamentali.
Se è vero che una lingua non appartiene a nessun singolo individuo, ma all'intera comunità degli utilizzatori, allora questa sarà anche libera di evolversi al ritmo scelto dagli stessi utilizzatori.
Il "daccordo", o il "qual è" possono essere esempi di una evoluzione stroncata sul nascere.
@tutti
Da informatico, quando leggo i post di Thomas Morton, mi chiedo come io possa formalizzare tutta questa conoscenza sui linguaggi, al fine di tradurla per la macchina. Pare che la lingua sfugga alle stringenti regole matematiche. Pare essere troppo dinamica, fluida per poter essere compresa davvero (anche da noi esseri umani).
@Thomas Morton
Personalmente mi auguro che i tuoi post diventino sempre più lunghi. Il contrario sarebbe un imperdonabile delitto. :P
Saluti.
Si sarà capito che sono per la libera evoluzione della lingua: non la considero un patrimonio culturale da difendere a suon di leggi repressive come accade in Francia (vedi legge Toubon), ma sono anche d'accordo con Leibniz che un minimo di normatività ci vuole, se non altro per questioni di etichetta: esprimersi come ci pare e piace talvolta è soprattutto maleducazione. Inoltre spesso ci sono delle ragioni logiche dietro gli apparenti arbitri dell'ortografia e delle grammatica. Ad esempio prima ho motivato la mia preferenza per "euri" con il fatto che non si capisce perché la parola euro, a differenza di tutte le altre monete, non debba essere declinabile. Altro esempio: è giusto scrivere "accelerare" invece di "accellerare" perché il verbo significa "rendere celere", e sarebbe un peccato perdere il nesso con l'origine etimologica.
RispondiEliminaVisto che è la prima volta che scrivo commenti in questo blog è prima di tutto doveroso ossequiare il padrone di casa al quale confermo anch'io il piacere di leggere i suoi articoli nelle lunghezze ch'egli ritenga di volta in volta più opportune.
RispondiEliminaPer il dilemma euro/euri io ne faccio una mera questione eufonica: a me euri "suona male".
Comunque è vero che non si può assolutamente prescindere dall'ambito storico/sociale/geografico/intellettuale dello scrivente e del lettore; come interpretereste voi la frase "Il fallo del germano assai è enorme"*? Immagino che io e voi, saturi di filmatini pornoteutonici, ci faremmo subito una crassa (e sacrosanta) risata ma Scarlatti (o meglio il librettista) intendeva solo dire che lo sbaglio del fratello (di Abele, Caino) è enorme.
Ma ora il vero motivo per cui sto scrivendo:Thomas... dì la verità... hai scritto l'articolo avendo in mente Puffolotti!!!!
:-)
* la citazione è garantita corretta almeno al 95%; vado a memoria e purtroppo in questo momento non ho occasione di poter verificare
Ringrazio tutti per l'incoraggiamento. Come direbbe il poeta Wordsworth,
RispondiEliminaA poet could not but be gay,
In such a jocund company.
No... cosa avete capito? Occorre tener presente il contesto culturale!
mi chiedo come io possa formalizzare tutta questa conoscenza sui linguaggi, al fine di tradurla per la macchina.
RispondiEliminaDa meccanico invece, mi chiedo come cavolo fa a funzionare il controllo grammaticale di Word. Passi per l'ortografia, basta un database per quello, ma quando mi corregge le declinazioni in tedesco, mi chiedo se e quanto la macchina *capisce* quello che sto scrivendo. Quando scrivevo la tesi, l'odiato correttore automatico mi cambiava "termoelastico" (inteso come tipo di analisi strutturale) in "termoplastico" (inteso come materiale). Il proverbiale fischio per fiasco.
Sugli euri: macheccefrega del plurale: se la crisi continua, il singolare basterà e avanzera ;-)
@ markogts
RispondiEliminaUn mio collega si chiamava Coreggi (o qualcosa del genere, sono passati quasi 6 anni)... devo proprio dirti cosa trovavamo scritto grazie al correttore di word nei verbali di riunione?!? :-)
PS non era "Coreggi" perchè ho provato ad inserirlo or ora in word e non avviene la puteolante correzione ma ti assicuro che l'aneddoto è reale
@Marko: hai ironicamente ragione, ma fino a un certo punto.
RispondiEliminaIl principio di autorità esiste ed è perfettamente valido in certi contesti: diventa una fallacia solo quando applicato fuori dal suo ambito. Una legge della fisica non cambia solo perché l'hanno detto Feynman o Rubbia in un'intervista, mentre invece una grammatica si può riformare e rivoltare come un calzino semplicemente mettendo insieme due dozzine di professoroni (senza andare a cercar lontano, è successo alla lingua tedesca appena alcuni anni fa).
In ambito linguistico, la "parola" (pun intended) di Dante o del Manzoni vale infinitamente più di quella di un qualsiasi parlante. Ci sono poi questioni di estetica, di pronunciabilità, di eufonia. C'è di mezzo la superiore qualità della parola scritta rispetto alla mera emissione di suoni.
E così via, giù per li rami, sono e rimangono più autorevoli Quasimodo, Calvino, Svevo, Ramusio, Frà Paolo Sarpi, Cuoco, Nievo, De Marchi, Verga, Fogazzaro, Pratolini, Prezzolini - con particolare riguardo agli scrittori toscani in genere.
Perché, piaccia o meno, quando si parla di lingua italiana noialtri giochiamo in casa e abbiamo un par di marce in più quanto a sensibilità linguistica, proprietà d'uso, ricchezza lessicale e anche amore per le parole rare e desuete (un vero moderno maestro in questo campo è senz'altro il Marchetti Arch. Giorgio, in arte Professor Ettore Borzacchini).
Sulla questione informatica, gioco doppiamente in casa con la doppia casacca di logico professionalmente in prestito all'IT e di filosofo amatorialmente interessato ai problemi del linguaggio naturale lungo l'asse Wittgenstein-Chomsky-Quine.
Ma la domanda è: stai parlando semplicemente del ruolo del linguaggio naturale entro il problema di comunicare le specifiche tra committente e sviluppatore, o appartieni al novero di coloro che sognano di far comprendere il linguaggio naturale ad un calcolatore ?
Nel primo caso ci sono delle belle soluzioni asseverate dovute proprio al lavoro applicativo di parecchi colleghi logici, chiamati in causa a fine anni Ottanta dopo un paio di disastri davvero gravi tipo Therac 25, anche se i linguaggi formali di specifica e verifica o le logiche temporali del model checking sono tanto scontati nel mondo embedded critico quanto fanno dannatamente fatica a entrare nelle zucche del mass market. Ma è un problema principalmente culturale.
Il secondo è solo un bel sogno di mezza estate. C'è ancora da pedalare parecchio nella teoria dei sistemi complessi, prima di arrivare ad elaborare i formalismi, le strutture e anche l'hardware che servono a gestire un caos del genere. Ed è tutto in salita, nonostante qualche timido progresso.
La "stupidità artificiale" tradizionale ci ha regalato, finora, ben poca roba ed è quasi tutta rubricata alla voce "engineering avanzato": annealing, tunneling, backtrace, tabu, ma anche speech processing e algoritmi genetici... solo negli ultimi anni s'iniziano timidamente a vedere degli approcci davvero innovativi, dalle ANN all'apprendimento con riforzo.
La loi Toubon, ricorre nei miei incubi di liceale (le baladeur= il walk man, l'ordinateur = il computer).
RispondiEliminaSbaglio, o la "d" eufonica andrebbe solamente nel caso in cui ci siano due vocali uguali consecutive (e essere = ed essere)?
Comunque, mio fratello dice "Eurs" o "Eurix" o "Neuri", variabili apprezzabili.
Sbaglio, o la "d" eufonica andrebbe solamente nel caso in cui ci siano due vocali uguali consecutive (e essere = ed essere)?
RispondiEliminaSì, ma sono ammesse eccezioni per certe espressioni idiomatiche: "ad esempio", "ad onor del vero", "ad essere sinceri", etc. In ogni caso non si scrive mai "od", che non esiste.
Fa sempre bene imparare/rinfrescare queste nozioni...
RispondiElimina@ Economa: un po' di "italianismo" però non farebbe male. Perché abbiamo questa repulsione a chiamarlo "topo"? Mezzo mondo lo chiama così. Ma mi sa che scivoliamo nell'OT.
L'ordinateur mi ha sempre fatto scompisciare (scelta lessicale assolutamente non casuale: ai bei tempi della goliardia, usavamo proprio dire e scrivere orinateur), assieme a tutto il baraccone del protezionismo linguistico francese.
RispondiEliminaEssendo inoltre irriducibilmente eurofobico, uso regolarmente "neuro" e "neuri" a mia volta.
Miserrima soddisfazione, si dirà: ma fino a quando sarà consentito lo sberleffo all'eurolandica nomenklatura burocratesca, è d'uopo approfittarne, ché la reiterata lettura della rivalutata Ida Magli fa radicare sempre più l'impressione che presto anche il dissenso sarà proibito o pedissequamente normato, assieme al diametro del cetriolo, alla curvatura della banana, alle quote latte e al rigonfiamento del porro.
Io sono euroentusiasta: vuoi mettere? Trovare monete in terra a Parigi che hanno lo stesso valore in Italia.
RispondiEliminaComunque, quando i traduttori automatici partoriscono "Le palle del topo microsoffice" sì che abbiamo delle soddisfazioni!
RispondiEliminaBravo Thomas, molto interessante la teoria del linguaggio come frutto di "contrattazione" tra chi parla e chi ascolta.
RispondiEliminaAnche per la pronuncia c'è un compromesso tra parlare velocemente mangiandosi le parole (il parlante risparmia tempo e fiato ma l'ascoltatore non capisce una mazza) e lo scan-di-re tut-te le pa-ro-le (l'ascoltatore capisce ma il parlante non riesce a esprimersi in modo efficiente e a tener dietro alla velocità del proprio pensiero).
una grammatica si può riformare e rivoltare come un calzino semplicemente mettendo insieme due dozzine di professoroni (senza andare a cercar lontano, è successo alla lingua tedesca appena alcuni anni fa).
RispondiEliminaAttenzione, in tedesco hanno riformato l'ortografia (come in italiano si potrebbe stabilire che si scrive "ad esempio" o "musulmano" anziché "a esempio" o "mussulmano"). Cambiare il vocabolario sarebbe stato assai più arduo.
Ad esempio :-) nessun consesso di professoroni sarebbe in grado di imporre che da oggi il mouse si chiama "topo" e il troll nel forum si chiama "provocatore" nel "centro discussioni".
Da informatico, quando leggo i post di Thomas Morton, mi chiedo come io possa formalizzare tutta questa conoscenza sui linguaggi, al fine di tradurla per la macchina. Pare che la lingua sfugga alle stringenti regole matematiche. Pare essere troppo dinamica, fluida per poter essere compresa davvero (anche da noi esseri umani).
RispondiEliminaDice Steven Pinker (sempre della scuola chomskyana) che la comprensione linguistica è memoria + decisioni. La memoria è difficile per gli umani e facile per le macchine, le decisioni sono facili per gli umani e difficili per le macchine.
E il linguaggio, essendo di origine umana, è enormemente ricco di decisioni da prendere.
Un esempio è la celebre frase inglese "Time flies like an arrow", che prendendo la decisione sbagliata potrebbe essere tradotta come "Alle mosche del tempo piace una freccia" :-)
La capacità di prendere le giuste decisioni nella comprensione e nella scelta terminologica è il motivo per cui noi traduttori umani ancora per molti anni o decenni (ma non per sempre) non potremo essere rimpiazzati dalle macchine.
Scusate il numero e la lunghezza dei commenti, ma il post e il dibattito erano troppo interessanti perché mi limitassi a poche considerazioni.
@Turz: temo di non capire l'accostamento tra la mia citazione e le considerazioni seguenti.
RispondiEliminaProprio nel paragrafo citato ho parlato esplicitamente di riforma della grammatica (con l'esempio di quella tedesca), e l'ortografia è un sottoinsieme della grammatica. Non vedo il nesso con il resto.
Comunque esiste davvero anche chi sogna di cambiare il vocabolario con atti di forza e s'affanna ad imporre nuovi vocaboli ed espressioni del "politicamente corretto", all'insegna dell'ipocrisia più sfrenata: dal ridicolo "sales person" (perché mai incaponirsi a cambiare una parola composta e asseverata come salesman, nella quale qualsiasi riferimento "sessista" è del tutto sfumato come una bottiglia di minerale stappata da giorni ?) ai poveri handicappati che diventano portatori di handicap, disabili e poi perfino "diversamente abili", agli spazzini nobilitati come "operatori ecologici"...
@economa: coi tempi che corrono, è bene fare attenzione anche a dove ci si china per raccogliere alcunché da terra, quale che sia la valuta corrente. Penso ad esempio al Benelux ed alle recenti sortite di interi partiti euro-pedo-omofili con tanto di velleità di rappresentanze brugensi, s'intende pagate da noialtri. Sarà che il declino degli Imperi, Roma docet, passa sempre per la medesima strada delle supposte, fatto sta che son dolori...
Già che ci siamo, ho ritrovato il brano di cui parlavo: è di Massimo Bontempelli. Il titolo è "Miracoli" ed è contenuto in "Opere scelte", Mondadori, 1978.
RispondiEliminaE' verissimo che quanto s'impara a quell'età diventa indimenticabile... probabilmente era inserito in un'antologia, o ce lo hanno letto in classe.
Ho trovato il tuo post molto interessante..volevo sapere se poteva consigliarmi qualche sito o libro per approfondire il tema t4rattaro..Ringrazio in anticipo
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