giovedì 30 aprile 2009

Ludwig

Io non trovo giusto che cercando “Wittgenstein” con Google e cliccando su “mi sento fortunato” uno capiti sul blog di Luca Sofri. Questa me la chiamate fortuna? Non che abbia nulla contro Luca Sofri: non so quasi niente di lui, solo che ha un padre famoso, che è sposato con Daria Bignardi, che una volta faceva da valletto a Giuliano Ferrara, che è iscritto al PD, e che ha un blog di successo inspiegabilmente chiamato Wittgenstein. Ho controllato: in quel blog non si parla di filosofia del linguaggio e della mente, ma si parla proprio di Luca Sofri.

Voglio dire, i giovani che usano Internet potrebbero pensare che il filosofo Wittgenstein era un sostenitore del Partito Democratico, il che non gioverebbe né alla comprensione del pensiero di Wittgenstein né soprattutto alla causa della sinistra. Uno dovrebbe scegliere con maggiore cura i propri numi tutelari: la destra ha da tempo puntato su Nietzsche, ed è stato un successone, perché Nietzsche piace ai giovani, e sapeva anche coniare slogan di successo come “Dio è morto”, “l’uomo dev’essere addestrato alla guerra, la donna al riposo del guerriero”, oppure “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, e anche “sono stato frainteso” (ah, no, questa non è sua).

Wittgenstein invece ha detto “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, che è l’antitesi della politica:

Onorevole, quando crede che cominceremo a notare una certa ripresa economica?
Onorevole?

I ministri dovrebbero stare zitti tutto il tempo, e i giornalisti rimarrebbero senza mestiere. Wittgenstein ha detto anche: “La forma generale della funzione di verità è: [P, ξ, N(ξ)]. Questa è la forma generale della proposizione”, e pure questo non mi sembra molto spendibile come slogan, anche se forse è meglio dei manifesti elettorali del PD.

Ma adesso, e proprio per colpa di questo post, esiste pure la possibilità che uno studente particolarmente tenace capiti qui dopo aver fatto una ricerca su “Wittgenstein” (nella mia poca esperienza, ho scoperto che uno dei passatempi preferiti dei blogger sono i referrer: in effetti è una delizia scoprire che qualcuno è capitato qui cercando “apparato genitale degli ippopotami”, oppure “foto di africani con i testicoli grossi”). E siccome dovrò pure far fruttare in qualche modo la mia laurea in filosofia, adesso mi tocca spiegare chi era Wittgenstein.

Ludwig Wittgenstein era affetto da un disturbo comportamentale chiamato “sindrome di Asperger”, che non è altro che il nome moderno dell’autismo (ma indica in particolare i malati “lievi”, ad alta funzionalità, e che talvolta possono sfuggire alla diagnosi). Questo lo portava a parlare e a comportarsi in maniera molto strana, ma siccome era di buona famiglia ed aveva un certo fascino, e siccome la sindrome all’epoca non era nota, quando lo incontravano tutti pensavano fosse un genio e ne rimanevano profondamente colpiti.

È un vero peccato che del fascino emanato dalla sua personalità non resti granché nei suoi libri (in vita ne pubblicò solo uno, mentre gli altri sono appunti di lezioni recuperati dai suoi allievi), che probabilmente sarebbero stati ignorati e dimenticati se la sua fama di grande genio non li avesse sempre preceduti, e non avesse avuto sponsor autorevoli come Bertrand Russell. Questo ha fatto sì che molti si sono sforzati di dare un senso alle sue parole. Si può dire che Wittgenstein abbia influenzato la storia della filosofia con i suoi contatti personali molto più che attraverso le sue opere. Altri invece, come il regista Derek Jarman, si sono interessati a lui solo dopo che è stata rivelata la sua omosessualità.

Fra le sue stranezze si annovera il fatto che lasciò interamente a fratelli e sorelle una enorme eredità, condannandosi all’indigenza, perché “essendo già ricchi non correvano il rischio di essere rovinati dal denaro”. Non funzionò molto perché tre di questi fratelli morirono suicidi (edit: in realtà si erano suicidati già in precedenza). Un altro era un famoso pianista con un braccio solo, per il quale Debussy Ravel scrisse un Concerto per pianoforte per la mano sinistra. Rinunciò anche a una carriera universitaria per andare a insegnare in una scuola elementare in Norvegia Austria, ma ebbe problemi con i genitori dei suoi allievi perché pare che non avesse molta pazienza e che talvolta li picchiasse. Una volta durante una discussione filosofica particolarmente accalorata minacciò Popper (evidentemente poco sensibile al suo fascino) con un attizzatoio. Era goffo, profondamente egocentrico, totalmente privo di empatia, rifuggiva dai rapporti sociali, era ossessivamente abitudinario, sistematico in tutto quel che faceva, e aveva un comportamento altamente stereotipato: questi sono tutti sintomi della sindrome di Asperger.

Il suo primo grande libro è dunque il Tractatus Logico-Philosophicus, scritto in trincea durante la prima guerra mondiale, e del quale possiamo ammirare appunto la singolare costruzione – frutto della mania per la sistematicità – che consiste in una serie di proposizioni numerate e ordinate gerarchicamente: 1, 1.1, 1.2, 1.2.1, eccetera. La prima di queste proposizioni dice: “Il mondo è tutto ciò che accade”. Nel libro si afferma una visione “corrispondentista” della verità, dove ad ogni pensiero, e quindi ad ogni enunciato dotato di senso, viene fatto corrispondere un “fatto” nel mondo. Il mondo è composto di questi fatti, e un linguaggio scientificamente preciso dovrebbe limitarsi a rispecchiarli, anche nella sua struttura interna o “forma logica”. Tutto ciò che resta al di fuori (etica, estetica, religione) è privo di senso, o meglio, ineffabile.

Wittgenstein era molto soddisfatto della sua opera ed era convinto di avere risolto tutti i problemi filosofici ai quali era possibile trovare una soluzione, finché un giorno qualcuno non gli fece il gesto dell’ombrello, spiazzandolo completamente. Qual era la forma logica di questo? L’essere stato mandato a quel paese, quindi, spinse Wittgenstein a mutare radicalmente la sua visione del linguaggio, sviluppata particolarmente nelle Ricerche filosofiche (il cosiddetto “secondo Wittgenstein”, ancora più incomprensibile ma considerato anche più fico). Il linguaggio non ha più il compito di rispecchiare il mondo e i suoi stati di cose, ma è un insieme di prassi sociali (come appunto quella di salutarsi o mandarsi a quel paese), di “giochi linguistici”.

Nella nozione di “gioco linguistico” Wittgenstein comprende tutti gli usi del linguaggio, anche quelli più apparentemente descrittivi e neutri: persino la matematica non è altro che gioco linguistico. In altre parole, se 2 + 2 fa 4 non è perché le cose stanno così, ma perché esiste una convenzione sociale per la quale alla domanda “quanto fa 2 + 2?” bisogna rispondere “4”. I giochi linguistici sono legati alla “forma di vita” caratteristica di ogni comunità, e comprensibili solo all’interno e a partire da essa (“se un leone potesse parlare, non lo capiremmo”). Ma non è relativismo assoluto, perché le convenzioni hanno un’esistenza oggettiva e condizionano pesantemente la nostra vita: se qualcuno si ostinasse a rispondere “5” alla domanda di prima non sarebbe considerato, ad esempio, un partner commerciale affidabile e sarebbe escluso dalla comunità. Uno dei motti più celebri di Wittgenstein è che “non esiste un linguaggio privato”, intendendo appunto dire che non esiste la libertà di modificare a piacimento e per usi personali le convenzioni usate dalla comunità.

“Non esiste un linguaggio privato”, però, significa anche che non c’è nulla di “interno” alla psiche che spieghi il comportamento umano, perché tutto è comportamento (gioco). Non c’è, ad esempio, una “cosa” come il dolore: esiste solo l’abitudine di urlare e contorcersi quando il dentista ti mette il trapano in bocca (una convenzione cui è difficile resistere, bisogna ammetterlo), e la nostra abitudine di reagire in modo compassionevole a simili spettacoli. Il "dolore" è una parola che non denota niente, non è un oggetto che si possa portare in giro e mostrare agli amici, ma è solo un modo di riferirsi a certe usanze antropologiche.

I discepoli di Wittgenstein (numerosi) hanno ulteriormente elaborato e arricchito questo punto: Norman Malcom ad esempio ha scritto un libro (Sul sogno) dove sostiene che i sogni non sono autentiche esperienze vissute dalla gente quando dorme, ma sono racconti che la gente fa la mattina quando si sveglia (“stanotte ho sognato che…”). Elizabeth Anscombe (Intention) invece si è concentrata sul modo in cui descriviamo le azioni, negando una concezione causale delle ragioni per agire.

Parlare di stati interni come desideri e credenze come “cause” delle nostre azioni è privo di senso: in realtà quando parliamo di certe cose non stiamo “spiegando” le nostre azioni, ma le stiamo solo ridescrivendo, specificando di quale gioco linguistico particolare fanno parte. Se ad esempio chiedo “Perché stai premendo il grilletto del fucile?”, la risposta può essere “per uccidere il Presidente” oppure “per salvare il mondo dalla tirannia”. L’azione è la stessa, e anche le cause fisiche lo sono, ma a variare è solo la descrizione in termini di gioco linguistico, l'interpretazione che diamo all'azione come facente parte di una certa forma di vita.

In pratica i wittgensteiniani interpretano la vita come se fosse un film: quando siamo al cinema e vediamo Leonardo di Caprio che bacia Kate Winslet, noi non ci chiediamo quali siano i veri sentimenti di di Caprio nei confronti di Kate Winslet, e cosa l’ha spinto a baciarla, ma interpretiamo i suoi gesti nell’economia narrativa del film: cosa vuol dire quel bacio? Nel film il bacio non è l’espressione di un sentimento autentico degli attori, ma è solo la convenzionale scena d’amore che deve precedere l’atteso disastro finale. È tutta una questione di convenzioni narrative.

Tutto questo suona assurdo (anzi, lo è) ma è quel genere di assurdità interessante che piace ai filosofi. Quel che è ancora più interessante, comunque, è che la visione di Wittgenstein potrebbe proprio essere il frutto di un disturbo mentale. Secondo Simon Baron-Cohen l’autismo è un disturbo dello sviluppo caratterizzato dall’assenza, nei soggetti malati, di una “teoria della mente”, ovvero dall’incapacità di leggere e interpretare gli stati d’animo altrui. I soggetti autistici hanno difficoltà a capire che le altre persone hanno pensieri propri, indipendenti dalla realtà, e per questo fanno fatica a comprendere il comportamento altrui.

Nel famoso test delle “Smarties” si mostra a un bambino un tubetto di Smarties e gli si chiede cosa c’è dentro. Quando il bambino risponde che dentro ci sono dei confetti di cioccolato, si apre la confezione e si mostra al bambino che dentro c’è invece una matita. Poi si richiude la confezione e si chiede: “quando mostrerò questo tubetto al prossimo bambino e gli chiederò cosa c’è dentro, secondo te cosa risponderà?”. I bambini affetti da autismo, al contrario degli altri della medesima età, non superano il test e rispondono “una matita”. Non afferrano il fatto che gli altri bambini non hanno accesso alla stessa conoscenza che hanno loro.

I soggetti autistici meno gravi riescono qualche volta a condurre delle vite quasi normali, e talvolta persino a mascherare la sindrome, ma per loro il comportamento altrui resta un enigma incomprensibile. Si adattano a rispondere con frasi di circostanza quando gli fanno notare che c’è il sole ed è una bella giornata, perché hanno imparato che ci si aspetta questo da loro, ma non riescono proprio a cogliere il motivo per cui qualcuno dovrebbe comunicare un’informazione così banale e già alla portata di tutti (come se io tutte le mattine comunicassi a mia moglie che l’acqua bagna, e mi aspettassi anche una risposta). Inoltre non afferrano i doppi sensi e le battute di spirito (e Wittgenstein era notoriamente privo di umorismo). In pratica tutto è ridotto a “gioco linguistico”.

In realtà, e sempre secondo Baron-Cohen, tutti i maschi hanno una certa tendenza all’autismo, ovvero per il pensiero sistematico e ossessivo, che si esplica ad esempio nell’imparare a memoria tutti i nomi dei giocatori di calcio di tutte le squadre di serie A, o i nomi di tutte le specie di dinosauri, e che in genere viene temperato dall’età (anche i soggetti autistici gravi spesso migliorano col sopraggiungere della maturità), mentre le femmine hanno un maggior talento per l’empatia e per la comunicazione interpersonale (concetto in fondo ribadito anche dall’autore di Gli uomini vengono da Marte, le donne vengono da Venere).

Quindi può anche darsi che Wittgenstein in fondo non avesse nulla di speciale, ma che fosse appena un po’ più autistico degli altri filosofi, e comunque è impossibile stabilire con certezza una diagnosi post-mortem. Resta il fatto però che la sua filosofia sembra proprio quella che potrebbe elaborare un individuo affetto da sindrome di Asperger. Cosa questa che a mio giudizio non toglie interesse alla sua opera (perché tutto sommato è interessante), ma la rende forse più comprensibile.

P.S. Se siete studenti universitari non andate a ripetere queste cose durante un’esame di filosofia. Vi ucciderebbero e poi darebbero il vostro cadavere in pasto ai coccodrilli.

Ringrazio Paul the wine guy per il cartello

giovedì 23 aprile 2009

l'origine del cancro


“Nessun uomo, neanche sotto tortura, può dire esattamente cos’è un tumore” (J. Ewing).

Le origini del cancro sono, si dice, complesse e multifattoriali, ovvero non possono essere ridotte ad un’unica spiegazione. Spesso gli studiosi si concentrano però su ciò che conoscono meglio. Un genetista allora tenderà ad attribuire la causa del cancro a fattori ereditari, un epidemiologo cercherà le origini della malattia nelle variabili ambientali e comportamentali (amianto, fumo o… funghi), un biologo molecolare si concentrerà sui meccanismi di replicazione della cellula e su ciò che può andare storto nel corso del processo, ecc. Chi ha ragione? Qual è la vera causa del cancro? Ovviamente hanno ragione tutti, e nessuno. Ciascuno di questi fattori contribuisce a spiegare la malattia, ma non è sufficiente. Il cancro non è una malattia semplice.

La scienza però non può accontentarsi di dire che le cose sono complicate (anche quando è vero). Tale affermazione costituisce in fondo un’ammissione di ignoranza, che può anche essere salutare, purché non ci si arrenda e si vada in cerca di un punto di vista migliore. La missione dello scienziato infatti consiste anche nel ricondurre ad unità la molteplicità dei fenomeni, inserendoli in quadro concettuale coerente che aiuti a comprenderli meglio. La confusione descritta sopra riguardo alla natura del cancro significa probabilmente che occorre uno sforzo interdisciplinare per superare la visuale limitata delle varie specializzazioni scientifiche, nel tentativo di trovare una sintesi che, anche qualora non fosse in grado di semplificare la materia, fornisse almeno una spiegazione della sua complessità.

Un tale punto di vista potrebbe essere offerto da un recente sviluppo della scienza medica, che va sotto il nome di “medicina evoluzionista” o anche “medicina darwiniana”, l’applicazione della moderna teoria dell’evoluzione alla comprensione dei concetti di salute e malattia. Il fondatore di tale approccio può essere considerato George Williams, che già negli anni Cinquanta fornì una brillante spiegazione della ragione evolutiva che sta dietro al fenomeno della senescenza, mentre il “manifesto” di questo nuovo paradigma è il libro Perché ci ammaliamo, scritto a quattro mani dallo stesso Williams insieme a Randolph Ness (uno di quei rari libri che uniscono all’interesse dell’argomento una grande piacevolezza di lettura, cosa forse paradossale visto il tema).

La medicina evolutiva può fornire il punto di vista inclusivo che cerchiamo, in quanto non studia la malattia e i suoi meccanismi in sé, troppo da vicino, e non cerca una spiegazione che vada bene solo per gli individui malati, e non per quelli sani. Cerca piuttosto una spiegazione generale del perché gli esseri umani sono vulnerabili alle malattie, e di come questo possa rientrare nello schema della teoria dell’evoluzione, con la specificazione che il perché del medico evoluzionista non è proprio lo stesso perché dell’anatomo-patologo, ma è di tipo finalistico; non cerca solo la “causa”, ma cerca la “ragione”. Si può dire che “razionalizza” la malattia, togliendole quell’alone di incomprensibile fatalità, e così facendo demistificandola.

Quello che un medico considera semplicemente un “difetto” del normale funzionamento di un corpo sano, allora, sotto gli occhi dell’evoluzionista può assumere le sembianze di una “difesa” del corpo da altri pericoli, sviluppata nel corso della sua storia evolutiva (come è il caso della febbre), oppure di un necessario “compromesso di design” (il mal di schiena deriva dalla scelta dei nostri antenati di camminare in posizione eretta, sottoponendo la colonna vertebrale alla pressione esercitata dalla forza di gravità), oppure il risultato di un meccanismo utile nel nostro passato di cacciatori-raccoglitori e diventato nocivo nel contesto della odierna civiltà industriale (come può essere il caso dell’obesità), o anche il risultato di una corsa agli armamenti nel contesto di una lotta accanita fra le nostre difese immunitarie, sempre più sofisticate, e agenti patogeni che trovano nuovi modi di aggirarle (le infezioni).

Naturalmente l’interesse dei ricercatori impegnati in questa disciplina si è rivolto subito anche alla “malattia” per eccellenza, la più elusiva e tragica fra tutte: il tumore. Una monografia sull'argomento è ad esempio stata pubblicata da Mel Greaves, col titolo Cancer. The Evolutionary Legacy (il primo capitolo è disponibile su Amazon). Che senso ha il cancro, dal punto di vista della nostra eredità biologica? Nella loro diversità, l’unica caratteristica comune a tutti i tumori consiste nell’espansione territoriale di un clone cellulare mutante. Perché avviene questo? Perché le cellule “impazziscono” e distruggono il corpo che le ospita? Una prima spiegazione risiede nella natura stessa della cellula.

Il sogno di ogni cellula – come disse François Jacob – è diventare due cellule. Infatti le cellule fanno questo normalmente: si riproducono e si propagano, colonizzando l’ambiente in cui vivono. Si può dire che è la loro stessa ragione di vita, scritta in milioni di anni di storia evolutiva: le cellule che oggi vivono sono le discendenti delle cellule che in passato hanno svolto al meglio questo compito, e proprio a questo si deve la loro sopravvivenza. Negli organismi pluricellulari, però, la loro propensione a riprodursi è in qualche modo limitata e frenata per il bene dell’organismo ospite, e indirettamente per il bene del patrimonio genetico della stessa cellula (altrimenti non si sarebbe raggiunto un tale accordo): in altre parole le nostre cellule epatiche o cerebrali delegano alle cellule dell’apparato riproduttivo (spermatozoi e ovuli) il compito di diffondere nel mondo il loro prezioso Dna, sacrificandosi in nome dell’interesse comune.

Ma si tratta pur sempre di un accordo precario fra l’ospite e le sue cellule, che può essere infranto in qualsiasi momento. Quando questo avviene, arriva il cancro. Dato lo smisurato numero di cellule di cui il nostro corpo è composto (che hanno anche il compito di differenziarsi e specializzarsi in vari tipi di organo), e data la natura della cellula che, ricordiamo ancora una volta, è quella di riprodursi, c’è da stupirsi che questo non avvenga più spesso, non che ogni tanto avvenga (e non è un caso che i tumori avvengano più spesso nei tessuti, come la pelle, a più alto ricambio cellulare). Un’eredità biologica di milioni di anni non si cancella d’un tratto.

Può valere la pena sottolineare questo fatto perché su Internet circolano ad esempio le teorie di un certo Bruce Lipton (un punto a chi indovina quale editore pubblica in Italia le sue opere), il quale si lascia andare ad affermazioni bizzarre quali:

Darwin aveva torto. La scienza di oggi ignora le teorie darwiniane basate sulle nozioni di lotta e competizione, anche se potrebbero volerci anni prima che questo fatto arrivi sui libri di testo. La cooperazione e la comunità sono in realtà i principi fondamentali dell’evoluzione, oltre che della biologia cellulare. Il corpo umano rappresenta lo sforzo cooperativo di una comunità di cinquantamila miliardi di cellule. Una comunità, per definizione, è un’organizzazione di individui impegnati a sostenere una visione comune.

Non c’è bisogno che spieghi perché questa è una cazzata, vero? Se fate fatica a concepirlo provate a pensare alle comunità di uomini, e chiedetevi se va sempre tutto bene al loro interno, e se gli interessi comuni hanno sempre la meglio sugli egoismi individuali. E una volta compreso che questa è una cazzata, e che la cooperazione e l’unità di intenti sono più l’eccezione che la norma in qualsiasi ambito, siamo anche un po’ più vicini a comprendere il cancro.

Ma cos’è, nello specifico, che può essere in grado di spezzare questa mirabile “visione comune”, e di infrangere le regole della comunità cellulare? Uno dei fattori più banali è la vecchiaia. Grazie ai progressi della scienza medica oggi la maggior parte delle persone è in grado di estendere il suo ciclo di vita ben oltre il tempo utile per riprodursi. Ebbene, proprio il successo della medicina nello sconfiggere quelle che erano una volta le cause di morte più comuni (quali le infezioni), ha decretato l’aumento spettacolare dell’incidenza del cancro negli ultimi decenni. Più persone sopravvivono alla tubercolosi, più persone avranno la possibilità di ammalarsi di cancro in futuro (quindi è vero, come spesso si dice, che la medicina è una delle cause prime della malattia, ma in un senso abbastanza diverso da quello normalmente inteso).

Dal punto di vista dell’evoluzione, per quanto sgradevole sia dirlo, un individuo sterile è un individuo inutile. Così come inutile diventa per le cellule che cooperano ai fini della sua sopravvivenza. Più invecchiamo, minori sono le nostre probabilità di riprodurci, e minore diventa la pressione evolutiva sulle nostre cellule affinché preservino la nostra salute a loro potenziale danno. E maggiori quindi diventano le probabilità che qualche cellula decida di “mettersi in proprio” e di espandersi oltre il territorio assegnatogli (non è una strategia molto saggia, visto che spesso comporta la morte dell’ospite, ma la cellula non ha comunque niente da perdere).

Qualcosa di simile può spiegare anche il fatto che certi tumori, come quelli al seno, sembrino avere a che fare proprio col ciclo riproduttivo: il tumore al seno è più comune fra le donne che non hanno avuto figli, ed è meno comune in quei luoghi dove lo svezzamento avviene più tardi. Già nel XVII secolo era stata notata dall’epidemiologo italiano Bernardo Ramazzini, in una pionieristica opera sulle malattie legate alle condizioni di lavoro in cinquanta mestieri diversi (De morbis artificum diatriba), una notevole incidenza di questo particolare tipo di malattia nei conventi femminili. La causa prossimale in questo caso è probabilmente un eccessivo livello di stimolazione ormonale (che viene bloccata dalla gravidanza), ma la ragione per cui l’evoluzione non ha approntato le necessarie difese contro questo pericolo è che non ce n’era motivo.

Più in generale, alcuni tumori sembrano rientrare nello schema del “compromesso di design”, aggravato dal cambiamento delle abitudini alimentari e dello stile di vita: ad esempio i popoli che si sono allontanati dall’Africa hanno perso la pigmentazione della pelle, forse per compensare la minore esposizione al sole e una dieta povera di vitamina D (la cui produzione è legata all’abbronzatura) ma il prezzo che hanno pagato è un maggior rischio di melanoma, che è sua volta aggravato da abitudini tipicamente moderne, come quella di arrostirsi su una spiaggia per diverse ore al giorno.

Il consumo di cibi cotti o di sostanze ricche di grassi saturi è quanto di più lontano dalla dieta dei nostri antenati paleolitici, ricca invece di anti-ossidanti, ed è spesso associato ad uno stile di vita sedentario. Tutte queste cose sono dimostrabilmente correlate a svariati tipi di tumore: alla prostata, al colon, al pancreas, ed ancora al seno. Fra i tumori associati ad un cambiamento nello stile di vita il caso più evidente è quello del tumore ai polmoni, praticamente inesistente fra gli Europei prima che cominciassero a inalare i residui di combustione del tabacco. In tutti questi casi abbiamo una molteplicità di cause prossimali del tumore, ma un’unica ragione: il fatto che l’organismo non ha avuto ancora il tempo di sviluppare le necessarie difese contro le nuove sostanze e i veleni introdotti nel corpo (unito al fatto che oggi la maggior parte delle persone, almeno in Occidente, vive abbastanza a lungo da doversene preoccupare).

Ma al di là di tutto questo, la ragione principale e più profonda del cancro è quella stessa per cui noi, organismi pluricellulari complessi, esistiamo: senza le mutazioni genetiche delle cellule e senza errori di replicazione non avremmo il cancro, ma non avremmo neanche l’evoluzione. Noi, con tutta la nostra complessità, siamo il prodotto di errori di clonazione da parte delle cellule delle specie che ci hanno preceduto. Cellule che hanno il compito difficilissimo di moltiplicarsi e differenziarsi, a partire da un unico clone, specializzandosi in vari tipi di tessuto e organi dall’aspetto e dalle funzioni completamente diverse, il che comporta uno straordinario lavoro da parte di delicati e numerosi meccanismi regolatori del Dna. Non è un caso, anche stavolta, che la fascia d’età più colpita dopo gli anziani sia quella dell’infanzia, ovvero la fase dello sviluppo e della crescita. Il che significa anche che il cancro è un’eredità triste, talvolta insopportabile, ma purtroppo anche ineliminabile, nonostante tutti i progressi che la scienza medica può ancora compiere. Il cancro esiste perché esistiamo noi, perché esistono le cellule staminali da cui hanno origine gli organi del nostro corpo.

Non è molto consolante. Capire il cancro da un punto di vista evoluzionistico non è di grande aiuto per chi è malato, soprattutto quando le notizie non sono molto buone. Ma capire perché le cose vanno male, e perché sono complicate, può evitare di cercare altrove soluzioni semplicistiche, promettenti proprio (e solo) per la loro più diretta comunicabilità (“il cancro è un conflitto emotivo irrisolto, dipende tutto dal tuo stato d’animo”). I dottori sono esperti in medicina, non necessariamente in scienze della comunicazione. I pazienti che si rivolgono a loro possono fare fatica a comprendere quel che dicono, e ciò che sta dietro alle statistiche e ai dati snocciolati. È faticoso perché il cancro non rientra nel concetto paradigmatico di malattia, che ha una singola causa ed un singolo rimedio (“hai mal di testa? prendi l’aspirina e ti passa”). Ma nonostante sia faticoso e poco gratificante, il percorso della scienza è l’unico che valga davvero la pena di compiere, perché almeno onesto: un vero dottore non promette ciò che non può mantenere.

Ringrazio WeWee per la consulenza. Eventuali errori o difetti del testo ricadono interamente sotto la mia responsabilità.

giovedì 16 aprile 2009

focaccia alla bufala

Ricetta per un film di sicuro successo contro la globalizzazione, basato su una storia vera:

1) Monitorare tutti gli esercizi commerciali appartenenti a qualche famosa multinazionale, meglio se americana. Ad esempio McDonald's.

2) Aspettare la chiusura di uno qualsiasi di essi, per un qualsiasi motivo. Meglio se la cosa avviene in un luogo ad alta densità di tradizioni culinarie.

3) Individuare il primo stronzo nelle vicinanze che vende pane.

4) Raccontare la storia di Davide che batte Golia.

Incassi assicurati.

(via sonovivoenonhopiupaura)

martedì 14 aprile 2009

il verdetto del dodo

All’inizio del terzo capitolo di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Caroll, alcuni personaggi (Alice stessa e alcuni animali, fra cui un topo, un’anatra, e un dodo) si ritrovano tutti bagnati. Si riuniscono allora in una specie di consiglio per trovare un modo di asciugarsi e, dopo qualche incertezza sul da farsi, è il dodo a trovare la soluzione. Occorre fare una “corsa elettorale” (caucus race), ovvero tutti devono mettersi a correre lungo un percorso (“non importa la forma esatta”), iniziando in momenti diversi e fermandosi quando lo desiderano.

In questo modo non è facile stabilire quando la corsa ha termine. Ancora più difficile, quindi, risulta capire chi ha vinto la corsa, chi è “arrivato primo”. Infatti una volta che tutti, dopo aver corso per circa un’ora e mezza, sono fermi e asciutti si riuniscono di nuovo intorno al dodo per chiedergli chi, secondo lui, ha vinto la gara. Il dodo ci pensa e ci ripensa, e alla fine emette il suo verdetto: “Tutti hanno vinto, e tutti devono ricevere un premio”.

Il “verdetto del dodo” (dodo bird verdict), termine ideato da Saul Rosenzweig nel 1936, è la teoria secondo la quale tutti i tipi di psicoterapia sono ugualmente efficaci, essendo l’efficacia del trattamento dovuta non agli specifici metodi usati dallo psicoterapeuta, ma a qualcosa di molto generale che tutte le psicoterapie hanno in comune: ad esempio il conforto derivato dall’avere qualcuno con cui parlare dei propri problemi.

Quella di Rosenzweig era solo un’ipotesi non supportata da dati, ma più recentemente molte ricerche che mettevano a confronto vari metodi terapeutici sono giunti alla stessa conclusione: secondo alcuni studi allo specifico trattamento, addirittura, può essere attribuito solo uno 0,2% della variazione nell’efficacia totale. Praticamente se avete un qualche disturbo della personalità e desiderate un aiuto, non fa nessuna differenza che andiate da uno psicanalista freudiano, da uno psicologo della scuola comportamentale-cognitivista, o da uno scientologista: vi farà ugualmente bene.

Se questo fosse esatto (ma per correttezza bisogna dire che questi risultati sono molto discussi) non sarebbe, contrariamente a quanto può sembrare, una buona notizia per la psicoterapia in generale. Se io dicessi che le medicine fanno bene alla salute, sarebbe forse una cosa positiva per la scienza medica, ma avrei anche detto molto poco: quali sono le medicine che fanno bene, per quali malattie, e per quali pazienti? Se poi si scoprisse che non c’è una vera risposta a questa domanda, perché tanto “vincono tutti”, uno potrebbe avere anche il diritto di sentirsi preso un po’ in giro.

Dire che tutte le medicine sono efficaci equivale in realtà a dire che nessuna lo è veramente, e che perdono tutti. Se c’è qualcosa che tutti i trattamenti medici hanno in comune fra loro e che potrebbe spiegare il loro “potere curativo”, tale spiegazione risiede nell’effetto placebo. Tutti i medici, allora, potrebbero benissimo evitare di compiere faticosi anni di studi per laurearsi, e gettare tutta la loro scienza alle ortiche. Quando qualcuno si ammala, prenda pure un intruglio qualsiasi: basta che abbia un nome “medico” rassicurante.

Naturalmente le cose non stanno così, per la medicina: per il mal di testa va bene l’aspirina, mentre non va bene, ad esempio, l’estratto di ali di pipistrello macinate ed essiccate. Ogni principio attivo ha effetti diversi, ed ogni malattia richiede uno specifico trattamento, o al massimo un insieme limitato di trattamenti cui si attribuisce la medesima efficacia. I vari rimedi possono essere confrontati sperimentalmente in modo che vi sia un verdetto chiaro su chi vince e chi perde.

Questo non significa automaticamente che la psicoterapia, al contrario della normale medicina, sia una pseudo-scienza, però significa almeno che ha dei grossi problemi nell’identificare i suoi obiettivi e le procedure per conseguirli. Quella di Carroll era una satira abbastanza trasparente delle competizioni elettorali, dove alla fine della corsa ciascun partecipante sostiene di aver vinto e nessuno ammette di aver perso. I motivi in quest’ultimo caso sono che ciascuno assume, anche a posteriori, dei propri parametri personali per giudicare l’esito della gara. Nella psicoterapia accade probabilmente qualcosa del genere: quando tutti vincono significa che non esiste nemmeno un significato condiviso per il termine “vittoria”. Nella psicoterapia, al contrario che nella medicina, non esiste un consenso generalizzato per quanto riguarda i criteri di successo nella terapia, il giudizio essendo inevitabilmente condizionato da valori soggettivi riguardo alla “salute mentale”.

Ciò vuol dire che probabilmente non ha neanche senso tentare di risolvere la situazione “medicalizzando” la psicoterapia, ovvero assumendo gli stessi rigorosi criteri e parametri di controllo che si usano nelle scienze esatte. La psicoterapia non lo sarà mai in quanto il suo successo o insuccesso si basa su un ventaglio di fattori troppo soggettivi per essere misurati adeguatamente, fra cui la personalità del paziente, quella dello psicoterapeuta, e l’interazione fra le due personalità. Quando mi faccio operare di appendicite il medico che mi opera non deve piacermi come persona: è sufficiente che abbia le competenze professionali necessarie. Al contrario, nella psicoterapia, il rapporto paziente-dottore è determinante.

Però non vuol dire nemmeno che non ci sia nulla di cui preoccuparsi. Non si può avere il meglio dei due mondi, e se lo psicoterapeuta non è uno scienziato nel vero senso della parola, ma non è altro che un “guru”, una sorta di consigliere spirituale che ci guida verso la guarigione dell’anima, allora dovrebbe anche rinunciare agli steccati professionali e ai privilegi che lo separano dalla comune umanità, e dovrebbe rinunciare alla pretesa di essere il depositario di un sapere specialistico acquisito attraverso i suoi studi e che lo rendono un’autorità in materia.

Se ci si pensa bene è abbastanza incredibile che esistano persone che vengono pagate dai 40 ai 140 euro all’ora (secondo il tariffario emanato dall’Ordine) per ascoltare i problemi della gente, e che spesso hanno lo stesso calore umano e le stesse doti di empatia di un’aringa essiccata (ma hanno una laurea e un’abilitazione professionale). Per contro, sono convinto che molte persone hanno il fantastico potere di fare stare meglio il prossimo con la loro sola presenza, e che non solo non hanno un titolo di studio, ma sono così ingenue da non richiedere nemmeno un compenso per questo servizio alla persona. A volte si fanno chiamare “amici”.

Quello dello psicoterapeuta è un mestiere delicato in quanto vi è chi potrebbe abusare della professione e del rapporto di fiducia stabilito col paziente, per fini che di terapeutico non hanno nulla (ma si potrebbe anche sostenere, come Jeffrey Masson, che la professione dello psicologo è intrinsecamente abusiva). Alla luce del verdetto del dodo, però, non vedo come possa essere definito un “abuso della professione” quello di chi volesse esercitare senza alcun titolo e inventandosi il suo metodo personale, magari basato sulla lettura dei fondi di caffé.

Quanto detto per la psicoterapia dovrebbe valere ancora di più per altre categorie e professioni, alcune delle quali – come ad esempio quella di recente introdotta anche in Italia di consulente filosofico – vorrebbero dotarsi di un vero albo professionale. La relazione che accompagna il testo del progetto di legge C. 2255 presentato il 3 marzo 2009 e firmato da Angelo Capodicasa e altri parlamentari del PD, sulle “Norme relative alla professione del consulente filosofico e istituzione del relativo albo professionale” è molto istruttiva in questo senso. Il preambolo è altisonante:

"Onorevoli Colleghi! - Il singolo e i gruppi si rivolgono spesso al filosofo spinti prevalentemente dal desiderio di acquisire maggiore consapevolezza di loro stessi e del loro ruolo nella comunità; dalla volontà di comprendere, fino in fondo, il sistema di valori che sorregge ideologicamente la nostra società, per trovare un orientamento efficace e aderente a ciò che essi stessi sono e vogliono essere; dall'insinuarsi del dubbio metodico che porta a domandarsi se un certo modo di pensare e di essere siano davvero così scontati come sembra dal messaggio che si vuol far passare. In questo senso la filosofia assolve alla sua funzione didattica consistente nel porgere i propri strumenti discorsivi affinché ciascuno possa ragionevolmente riflettere e consapevolmente decidere non solo tra le varie opzioni proposte dalla nostra società, in termini etici, morali, valoriali, relazionali ed esistenziali in genere, ma anche su quali siano davvero i propri bisogni. E questo può avvenire soltanto attraverso la reale conoscenza di sé."

E quel che segue non è meno interessante, soprattutto in quanto si fa attenzione a non sovrapporre la figura del consulente filosofico con quella dello psicoterapeuta (anche perché è meglio non pestare i piedi). La consulenza filosofica non è "terapia", ma "consiste nel fornire un supporto e un orientamento nell'ambito dei processi esistenziali, decisionali, relazionali e affini, ai singoli o ai gruppi che lo richiedono". In base a quali criteri, quindi, si potrebbe valutare l'efficacia dell'intervento? Con tutte queste premesse, la conclusione non può che apparire stridente:

"Il riconoscimento istituzionale della professione del consulente filosofico e l'istituzione del relativo albo garantiscono il controllo dell'esercizio dell'attività professionale, colmando così il vuoto normativo che attualmente consente ad altre figure, professionali e non, di agire all'interno dell'ambito di pertinenza della consulenza filosofica, pur non avendo acquisito nel loro iter formativo le competenze filosofiche necessarie e agendo, di conseguenza, al di fuori dell'etica e della deontologia professionali proprie del consulente filosofico."

Ovvero: non è che uno può permettersi di fare della filosofia, e dispensare pillole di saggezza al prossimo, senza averne l’autorizzazione. Chi vuole arrivare alla “reale conoscenza di sé” deve rivolgersi a un professionista inquadrato in un’associazione riconosciuta dallo Stato, e che segua rigorosamente un certo codice deontologico. Alla faccia del “dubbio metodico”: vogliono dare la patente per pensare, brutti stronzi.

Morale. Se è vero che, in un certo senso, “tutti vincono”, personalmente sarei restio a sottoscrivere la seconda parte del verdetto del dodo: “tutti devono avere un premio”. Chi paga nella favola è Alice, nella realtà siamo noi.

mercoledì 8 aprile 2009

io, disinformatore

"Statemi a sentire, dunque, e anche se qualcuno crederà che io prendo la cosa per ischerzo, sappiate, invece, che vi dirò la pura verità.

Vedete, cittadini, questa bella reputazione io me la son fatta per nessun altro motivo che per la sapienza. Ma quale sapienza, in effetti? Verisimilmente quella che è propria dell'uomo. Perché è questa la sola che posseggo; quelli, invece, di cui parlavo poco fa – non so che dirvi – hanno forse una sapienza superiore all'umana; certo è che io non la conosco e chi afferma il contrario mente e lo fa per calunniarmi.

Non protestate ora, ateniesi, se quello che sto per dirvi vi sembrerà presuntuoso; non sono parole mie ma di chi in tutto è degno di fede, voglio alludere al dio di Delfi, che prenderò a testimone della mia sapienza, qualunque essa sia, se di sapienza si può parlare.

Certamente lo conoscete Cherofonte; fin da ragazzo fu mio amico, sincero democratico, che condivise con voi l'esilio e con voi fece ritorno in patria. E sapete, perciò, anche il suo carattere, come ce la mettesse tutta nelle cose che faceva. Dunque, un giorno che era andato a Delfi, ebbe la faccia tosta di chiedere questo al dio (vi prego, non protestate, cittadini, per questo che vi dico), chiese, insomma, se ci fosse qualcuno più sapiente di me e la Pizia gli rispose che non c'era nessuno. Di questa risposta può farsi garante suo fratello, che è qui presente, dato che lui è morto.

Vi dico tutto questo perché desidero che voi sappiate da dove è nata la calunnia. Dunque, quando io seppi la risposta dell'oracolo, mi chiesi: «Che cosa ha voluto dire il dio? E che cosa nasconde sotto i suoi enigmi? Io, in coscienza, so bene di non essere sapiente, né tanto né poco. E allora, che cosa ha voluto dire affermando che lo sono più di tutti? Certo lui non dice menzogne, non può dirle.»

E, per molto tempo, così, non riuscii a farmi una ragione su quello che avesse voluto intendere. Finalmente mi decisi ad indagare sulla cosa in questo modo. Mi recai da uno che, in fatto di sapienza, passava per la maggiore, sicuro che, in tal modo, avrei potuto smentire l'oracolo e dimostrare la falsità del responso. «Ecco qui uno più sapiente di me, mentre tu dicevi che ero io» avrei potuto ribattere.

Interrogando quest'uomo (è inutile dirvene il nome, sappiate solo che era uno dei nostri esponenti politici), conversando con lui, ebbi questa impressione, ateniesi, che fossero gli altri a ritenerlo sapiente e, soprattutto, che lui stesso si credesse tale ma che, in realtà, non lo fosse affatto. Io, allora, tentai di dimostrargli che non era sapiente anche se credeva di esserlo, con il bel risultato che mi tirai addosso il suo rancore e quello dei presenti. Andandomene, però, pensai: «Certo sono più sapiente io di quest'uomo, anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo proprio un bel niente; soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla, mentre io, se non so niente, ne sono per lo meno convinto, perciò, un tantino di più ne so di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che non so, nemmeno credo di saperlo».

Volli, comunque, recarmi da un altro, considerato altrettanto sapiente, ma ne ebbi la stessa impressione e anche qui mi attirai il suo odio e quello di molti altri.

Nonostante questi risultati, insistetti, anche se andavo riconoscendo, con rammarico e con una certa apprensione, che mi stavo facendo dei nemici. Però dovevo venire a capo della faccenda e, soprattutto, tener nel massimo conto il responso del dio, continuando a indagare presso quelli che si ritenevano sapienti; ma, perbacco, cittadini, dato che devo dirvi la verità, ecco quello che mi succedeva: nell'indagine che svolgevo per accertare il senso dell'oracolo, quelli che erano i più celebrati, mi parevano, quasi quasi, i più sprovveduti, gli altri, invece, che non erano tenuti in alcun pregio, mi sembravano i meglio dotati.

Stando così le cose io mi chiedevo, sempre per giustificare il responso dell'oracolo, se non era meglio che rimanessi quello che ero, cioè, senza la loro sapienza ma anche senza quella loro ignoranza o, piuttosto, che avessi anch'io ambedue le cose che essi possedevano. E finii per rispondere all'oracolo e a me stesso che era meglio restare com'ero.

Ateniesi, tutte le ostilità nei miei riguardi, le più accanite e malvage, tutte le calunnie, la stessa fama di sapiente, sono nate da questa mia indagine.

Infatti tutti quelli che erano lì presenti ogni volta che io dimostravo a qualcuno la sua ignoranza, credevano che io ero un pozzo di sapienza. Ma, in realtà, ateniesi, soltanto dio è sapiente e in quel responso egli ha voluto appunto dire che la sapienza umana è ben poca cosa, anzi, nulla addirittura. Evidentemente, se il dio ha parlato di Socrate, lo ha fatto solo per servirsi del mio nome, come di un esempio, quasi per dire: «O uomini, il più sapiente di voi è chi, come Socrate, sa che la sua sapienza non conta proprio nulla».

E ancora adesso io vado in giro a cercare e a indagare se qualche concittadino o anche qualche forestiero sia sapiente, secondo il pensiero del dio e quando vedo che non lo è, solo per concordare col dio, io glielo dimostro.

Per questa mia occupazione, non ho avuto mai il tempo di far qualcosa di importante nella vita pubblica, né di curare i miei interessi privati e vivo in grande povertà, come sono tutto al servizio del dio.

Aggiungete a quanto vi ho detto il fatto che sono i giovani, soprattutto quelli delle migliori famiglie, che hanno più tempo libero, a seguirmi spontaneamente e a godersi un mondo nel vedere questi uomini presi sotto il tiro delle mie domande; molte volte essi stessi mi imitano e s'industriano a interrogare gli altri e, sapete, ne trovano anche loro di persone che credono di sapere e poi sanno poco o nulla. E, così, succede che gli interrogati non se la pigliano mica con loro ma con me e vanno a dire in giro che Socrate è un corrotto e ti guasta i giovani. E quando qualcuno gli chiede che cosa fa costui e che cosa insegna per corromperli, non sanno che dire e tacciono; ma per non far vedere il loro imbarazzo ti tiran fuori le solite sciocchezze che si usano dire contro chi ama il sapere, cioè che Socrate scruta i misteri del cielo e quelli della terra, non crede negli dei e fa apparire per buona la causa peggiore.

La verità è che essi non vogliono ammettere, con tutta quell'aria di sapientoni che si danno, di non saper nulla. E poiché sono ambiziosi, ostinati, numerosi per giunta, e tutti d'accordo nel calunniarmi, riescono anche persuasivi, riempiendovi, da un sacco di tempo, le orecchie con le loro violente accuse.

Se mi condannerete a morte, poiché sono quel che vi ho detto, voi non danneggerete me più che voi stessi. Nessun danno possono, infatti, arrecarmi né Meleto, né Anito. Non lo possono perché non credo che un malvagio possa fare del male a un uomo buono. Potrebbero uccidermi, forse mandarmi in esilio, privarmi dei diritti civili; per loro e per altri queste, forse, sono grandi disgrazie; ma io non la penso così. Per me è assai peggior male far quello che stan facendo costoro: uccidere un uomo ingiustamente. Non è quindi me che difendo ora, come qualcuno potrebbe credere, ma voi, cittadini, perché condannandomi, non vi rendiate colpevoli verso un dono di dio. Se voi mi ucciderete, infatti, non tanto facilmente troverete un altro simile a me, che il volere di un dio ha inviato nella vostra città (perdonatemi il paragone forse ridicolo) come un moscone sopra un cavallo alto e di buona razza ma alquanto pigro per la sua stessa mole e bisognoso di essere sempre stimolato.

Un simile compito dio sembra avermi affidato nella nostra città per cui io, senza sosta, vi sono da presso, per stimolarvi, per esortarvi, per rimproverarvi, ad uno ad uno, ogni giorno. Un altro come me, ateniesi, non lo troverete facilmente. Ecco perché se mi darete ascolto, voi mi risparmierete".

Tratto da qui. In risposta a questo (ok, fatte le debite proporzioni).
Aggiornamento: la pagina linkata sopra non c'è più; una diversa versione dell'Apologia è qui.

sabato 4 aprile 2009

Carletto

Io sono di quelli che non vincono mai niente. Non ho mai fatto 13 al Totocalcio, non ho mai fatto 6 al Superenalotto (né 5, né 4, né 3), non ho mai vinto la Lotteria di Capodanno, non sono mai riuscito a partecipare a "Chi vuol essere milionario". Non ho mai vinto a tombola, non ho mai vinto nemmeno a Risiko. Al massimo da bambino ho vinto un boero.

Grande quindi è stata la mia sorpresa quando mi ha telefonato una certa ditta di surgelati chiedendomi se mi ricordavo di aver spedito un sms con il codice del prodotto, qualche mese fa.

Avevo vinto, e oggi il premio è arrivato a casa mia.

mercoledì 1 aprile 2009

Barack Obama e i pesci-fragola

A distanza di 150 anni dalla pubblicazione de L’origine delle specie, qual è l’eredità più importante che ci ha lasciato la teoria di Darwin, da un punto di vista, oltre che strettamente scientifico, culturale e filosofico? È una domanda che in questi mesi di celebrazioni darwiniane è rimbalzata varie volte sugli inserti culturali dei giornali.

Sicuramente l’evoluzionismo ha ridimensionato il ruolo dell’uomo all’interno della natura, mostrando la stretta parentela fra gli uomini e le scimmie. Ma una persona veramente orgogliosa della propria razionalità e superiorità intellettuale non ha in fondo un gran bisogno di sentirsi dire che è stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza per sentirsi speciale.

Analogamente, una persona sinceramente credente non lascerà che la sua fede traballi in conseguenza di una teoria scientifica, quindi anche sostenere che l’evoluzionismo ha dato un colpo mortale alla religione lascia il tempo che trova: solo una spiritualità alquanto rozza può affidarsi interamente alla verità letterale di un testo scritto da uomini vissuti migliaia di anni fa.

Io ritengo, con Daniel Dennett (L’idea pericolosa di Darwin), che il più importante lascito di Darwin alla contemporaneità stia nella sconfitta del pensiero essenzialista. È qualcosa che può sfuggire a chi si è nutrito di una certa vulgata darwiniana, secondo la quale ogni differenza fra specie animali, o persino fra gli uomini, è riconducibile ad una precisa matrice biologica e genetica. Ognuno di noi è quello che è per colpa o per merito dei suoi geni: i criminali hanno il gene della criminalità, gli omosessuali quello dell’omosessualità, gli alcolisti quello dell’alcolismo e così via.

Naturalmente i geni hanno molto a che fare con quello che siamo, ma in realtà Darwin ci ha messi soprattutto nella condizione di apprezzare la fondamentale unità degli esseri viventi e le relazioni esistenti fra loro, più che le differenze. Un evoluzionista non tenta di classificare le varie specie in base a misteriose essenze o caratteristiche nascoste nel DNA (quello è casomai compito del biologo molecolare) ma ne traccia la storia evolutiva e va in cerca di quegli eventi nel passato che hanno prodotto una separazione fra due o più specie. Gli evoluzionisti sono interessati alla storia, non alle forme cristallizzate nel tempo.

Si può vedere chiaramente la differenza fra un approccio essenzialista e quello darwiniano nel trattamento della nozione di “specie”. Qualcosa di esteriormente simile all’albero della vita darwiniano era già stato prodotto un secolo prima di Darwin dal naturalista Carlo Linneo che aveva tentato (con discreto successo) una classificazione sistematica di tutti gli esseri viventi proprio secondo il principio gerarchico della struttura ad albero. Le specie occupano la posizione delle foglie, mentre i rami più grossi indicano i raggruppamenti fra specie secondo affinità via via più generiche. Ad esempio la specie Homo sapiens appartiene al genere Homo, che appartiene alla famiglia degli ominidi, che appartiene all’ordine dei primati, che appartiene alla classe dei mammiferi, etc.

Già in questo schema esistono delle evidenti (a posteriori) implicazioni evolutive, dato che la differenziazione fra le specie può essere letta come un progressivo allontanarsi da un progenitore comune. Ma ciò che rende diversa una specie da ogni altra, nella visione della natura pre-darwiniana, è una qualche caratteristica fisica che appartiene solo a quella specie e che la differenzia dalle altre della stessa famiglia. L’impostazione di Linneo è riconducibile ad Aristotele: aristotelicamente parlando l’uomo, ad esempio, è un bipede, come le galline, ma a differenza delle galline è privo di piume, così che l’uomo può essere definito come “bipede implume”. Oppure, e ancora meglio secondo Aristotele, come “animale razionale”. La razionalità è l’essenza dell’uomo, ciò che lo rende uomo.

La classificazione però non può essere arbitraria: non è l’enciclopedia cinese di cui parla Borges, e secondo la quale gli animali si dividono in:

a) appartenenti all’Imperatore,
b) imbalsamati,
c) ammaestrati,
d) lattonzoli,
e) sirene,
f) favolosi,
g) cani randagi,
h) inclusi in questa classificazione,
i) che s’agitano come pazzi,
l) innumerevoli,
m) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello,
n) eccetera,
o) che hanno rotto il vaso,
p) che da lontano sembrano mosche

e la prova che non si tratta di una classificazione arbitraria sta nel fatto che le varie specie non sono interfeconde. Puoi accoppiare un cavallo con una cavalla, facendo nascere un altro cavallo, ma non puoi accoppiare un ippopotamo con una giraffa. Madre Natura ha fatto sì che l’ordine che regna nel Creato non venga troppo scombussolato mantenendo delle nette barriere fra specie diverse.

Sembrerebbe quasi che prima la natura permetta l’evoluzione di specie diverse, e poi crei, al fine di proteggerle, delle barriere fra loro che non gli consentano di riprodursi. Ovviamente le cose non stanno così. Oggi una specie è considerata tale per il solo fatto di essere riproduttivamente isolata dalle altre. Anzi, l’isolamento riproduttivo (determinato ad esempio da barriere geografiche) è uno dei meccanismi attraverso i quali le diverse specie hanno origine. Il che significa che due organismi appartengono a due diverse specie non per una qualche loro essenza che le contraddistingue, ma semplicemente per un accidente storico.

Prendiamo le varie razze di cani: non credo che un pechinese si sia mai riprodotto con un alano, ma pur nella loro grande differenza morfologica, il pechinese e l’alano sono considerati entrambi appartenenti alla specie dei cani perché può esservi scambio di materiale genetico fra le due razze, tramite le razze intermedie (non sono geneticamente isolati). Ma se tutte le razze intermedie sparissero il pechinese e l’alano diverrebbero, solo per questo, due specie differenti, senza che nulla sia cambiato in loro.

Il legame che c’è fra il pechinese e l’alano non è affatto diverso da quello che c’è fra l’uomo e lo scimpanzè. Ciò che ci separa davvero dai nostri cugini primati non è quel 2% di Dna che si dice essere diverso nel patrimonio genetico degli scimpanzè e degli uomini, ma semplicemente la mancanza di individui, discendenti dal medesimo progenitore, che facciano da “ponte” fra noi e loro: si sono estinte le specie intermedie. In realtà non è nemmeno detto che uomini e scimpanzè non possano essere interfecondi, dato che nessuno, a quanto mi risulta, ha mai provato a generare un ibrido (ma è molto improbabile che un simile ibrido possa essere fertile). Inoltre gli uomini non sono tutti interfecondi: esistono coppie di persone che per svariati motivi non riescono a generare figli sani.

Tutto ciò, se si ha avuto la pazienza di seguirlo, dovrebbe far capire per quale motivo il razzismo oggi non ha molto senso da un punto di vista scientifico. Non è perché gli uomini siano tutti uguali (ché le differenze fra loro sono abbastanza evidenti) e neanche perché non possano esistere generalizzazioni valide: forse i neri hanno davvero il ritmo nel sangue, gli ebrei sono abili negli affari, e gli italiani cantano sempre. Forse. Ma il razzismo classico è una teoria essenzialista, fondamentalmente pre-darwiniana: assume infatti che esistano delle rigide barriere fra gli appartenenti di due diverse “razze”, e tali che una “mescolanza” fra le diverse razze costituisca una violazione dell’ordine naturale delle cose.

Queste barriere in natura non esistono, a meno che non le si voglia artificialmente creare, proprio come le varie razze canine sono artefatti del tutto umani. Non esistono gruppi umani che nel corso dei secoli si siano riprodotti esclusivamente al loro interno (benché alcuni gruppi siano un po’ più elitari di altri). L’uomo è un animale commerciale, possiede l’istinto di scambiare merci con i propri vicini (secondo alcune ipotesi l’uomo di Neandertal si sarebbe estinto proprio perché gli mancava questa capacità), e là dove esiste lo scambio di merci, possiamo stare sicuri che esiste anche lo scambio di geni (che può essere comunque favorito anche da contatti meno amichevoli, come la guerra e il saccheggio).

I geni viaggiano, di modo che è davvero difficile individuare al loro interno una qualche “essenza” caratteristica di una qualche popolazione. Si possono fare al massimo dei ragionamenti di tipo statistico: alcuni geni sono maggiormente frequenti in alcune regioni, e meno frequenti in altre, ma in generale si può ben dire che tutti i geni sono presenti ovunque, e ovunque ci sono gli stessi geni. Questo argomento contro la razza è stato battezzato come “fallacia di Lewontin” (dal nome del famoso genetista impegnato nella lotta al determinismo biologico), in quanto appunto trascura i pattern di frequenze geniche che grosso modo sembrano corrispondere alle divisioni tra le razze tradizionali. Può essere, il che significa solo che con qualche sforzo possiamo dare un senso compiuto alla nozione di “razza”, ma senza che questa nozione possa essere di grande utilità e conforto per il tipico razzista, che vede in genere le razze come entità esattamente delineate (come “essenze”), e non come vaghe astrazioni statistiche.

Per un razzista genuino, infatti, non sembrano esistere mezze misure. Per un sostenitore della “supremazia bianca” l’incrocio fra un bianco e un nero non genera un individuo che è al 50% bianco e al 50% nero, ma semplicemente un altro nero, un portatore dell’essenza della “negritudine”, per quanto diluita possa essere. I nazisti spedivano tali “ambiguità” nei campi di sterminio, non preoccupandosi molto del fatto che così facendo avrebbero distrutto anche quel 50% di sangue ariano al quale sembravano attribuire un certo valore.

Ma esiste un’altra categoria di persone vittima del pensiero essenzialista, e si tratta degli attivisti anti-Ogm. I nemici delle biotecnologie, normalmente di sinistra, sembrano avere la stessa fissazione per la “purezza genetica” e la stessa paura per il superamento delle barriere che contraddistingue i razzisti di destra. Sostengono che, sebbene la variazione genetica esiste anche in natura, la creazione di Ogm è qualcosa di molto più pericoloso perché abbatte le barriere tra specie (ad esempio introducendo il gene di un pesce in una fragola) “createsi nel corso dell’evoluzione”. Puro non-senso: come abbiamo visto, l’evoluzione non crea barriere riproduttive tra le specie, ma semmai le barriere riproduttive creano le specie.

La mistica anti-Ogm è profondamente essenzialistica: mescolare un pesce con un frutto significa, dal punto di vista dello scienziato, semplicemente inserire un gene che codifica per una proteina; dal punto di vista dell’anti-Ogm significa cambiare la “natura intrinseca della fragola”, inquinando la sua essenza con l’essenza del pesce, e cambiando così le regole imposteci da non-si-sa-bene-chi. Il frutto ottenuto avrà l’apparenza esteriore di una fragola, il sapore di una fragola (magari anche più buono), praticamente tutto di una fragola, ma non sarà una fragola (un po’ come l’ostia consacrata non è più un’ostia, nonostante ne conservi tutte le apparenze, ma carne del nostro Salvatore), ed è anzi qualcosa da cui è meglio tenersi lontani onde evitare il collasso dell’Universo.

Molte persone razionali che credono nella scienza hanno paura delle possibili implicazioni politiche della teoria darwiniana, e sostengono per prudenza un principio di separazione netta fra scienza e politica: la scienza è amorale, e non si possono mai trarre conclusioni di tipo politico o etico da una qualsiasi scoperta scientifica. Io non la penso proprio così, e ritengo che invece si possano trarre utili lezioni dal darwinismo. Purché lo si capisca.