giovedì 17 ottobre 2013

la lista di Alianello

L'altro ieri – 15 ottobre 2013 – probabilmente sull'onda dell'indignazione scatenata dagli eventi e notizie che hanno seguito la morte di Erich Priebke, la Commissione Giustizia del Senato ha approvato una modifica dell'articolo 414 del codice penale (istigazione a delinquere) introducendo il reato di negazionismo ("la stessa pena si applica a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità"). La modifica sembrava aver avuto un plauso vasto e trasversale, rivelato dalla soddisfazione espressa da Napolitano ("è un merito del nostro Parlamento") e da Schifani, che così avrebbe affermato: "da oggi in poi sarà impossibile negare l’evidenza di una tragedia che ha segnato drammaticamente il secolo scorso", quasi come se l'emendamento istituisse non una fattispecie di reato, ma nuove prove e documentazioni a sostegno della veridicità di un evento storico. Quanto a me, mi è già capitato di esprimere in passato una viva contrarietà a simili iniziative, ma questo non è molto importante.

Ieri poi l'emendamento avrebbe dovuto essere stato approvato in sede deliberante in tempi record, cosa che trovo piuttosto singolare per un provvedimento di natura delicatissima sul quale il sospetto di incostituzionalità (per la violazione della libertà di pensiero e di espressione) è almeno lecito, ma la votazione è stata rimandata grazie all'intervento di quattro senatori M5S e un socialista. La cosa ha suscitato una certa delusione e rabbia nei confronti dei soliti bastian contrari pentastellati. Per la senatrice Finocchiaro il M5S "si oppone a tutto, anche a ciò che può servire al Paese: alle riforme di ogni tipo, come ai provvedimenti economici. E ora anche a una norma destinata a rendere giustizia alla memoria della deportazione degli ebrei e dell'Olocausto". Per Schifani invece "l'approvazione in sede deliberante avrebbe assunto oggi, in occasione del settantesimo anniversario del rastrellamento del Ghetto, un valore simbolico straordinario. Dispiace che anche un disegno di legge di così grande civiltà, diventi strumento di un'incomprensibile lotta politica".

Ieri, 16 ottobre, ricorreva in effetti il settantesimo anniversario di un tragico evento: la deportazione degli ebrei romani, che furono rastrellati in numero di 1024 (fra cui 200 bambini) dai tedeschi delle SS per essere trasportati in vagoni piombati ad Auschwitz da dove non avrebbero mai più fatto ritorno (tranne 16 eccezioni, fra cui una sola donna). Al proposito, proprio in questi giorni su Radio Tre all'interno della trasmissione Ad alta voce Moni Ovadia sta leggendo il libro di Giacomo Debenedetti 16 ottobre 1943, un libro e un ascolto consigliatissimi. Il racconto – sono poche pagine – di Debenedetti è di straordinaria bellezza e tanto più commovente se si pensa che è scritto praticamente a ridosso degli avvenimenti (nel novembre del '44, in una Roma ormai liberata mentre il settentrione era ancora occupato). Del destino degli ebrei deportati ovviamente nessuno sapeva nulla, ma risulta chiaro dalle pagine di Debenedetti che nessuno dei rimasti si faceva illusioni riguardo alla speranza di rivederli. Già si parla di camere a gas, forse si ignorava, ancora, l'estensione dello sterminio, ma era cosa ormai nota. Leggere quelle pagine rappresenta un antidoto all'ignoranza e al negazionismo mille volte superiore a qualsiasi disegno di legge.

Nell'edizione Einaudi del libro (in precedenza Editori Riuniti), oltre alla cronaca del 16 ottobre c'è comunque un altro articolo, sempre di Debenedetti e scritto nel settembre del '44, dal titolo Otto ebrei. Potrebbe essere descritto come un singolare gedankenexperiment di filosofia morale, se non parlasse appunto di un episodio realmente accaduto. Vi si narra infatti di un commissario di Pubblica Sicurezza che testimoniando davanti all'Alta Corte di Giustizia per la punizione dei reati fascisti (ricordo che siamo all'indomani della liberazione della città) attua una brillante strategia per accattivarsi le simpatie dei giudici antifascisti. Narra dunque l'Alianello (questo il nome del commissario) che – incaricato di cancellare dieci nomi "eccedenti" dalla prima lista per le Fosse Ardeatine – pensò bene di cancellare, oltre a due nomi a caso, quelli di otto ebrei. Debenedetti rimprovera in sostanza ad Alianello questa ingenuità, di credere di aver diritto alla simpatia dei giudici per aver privilegiato dei nomi di ebrei in quella lista. Solo che, afferma Debenedetti, si tratta di una "riparazione" che nessuno ha chiesto, e che in realtà non fa che replicare, anche se con segno diverso, la stessa odiosa discriminazione operata dagli aguzzini.

Sinceramente trovo un po' ingenerose le critiche di Debenedetti al povero Alianello (credo che da un punto di vista umano e psicologico l'impulso di riparare a un'ingiustizia commessa tramite la concessione di un privilegio sia più che comprensibile) ma è chiaro che per Debenedetti si tratta solo di un pretesto per fare un discorso ben più generale. Quello che è in gioco è il ritorno alla "normalità" dopo la tempesta nazista e antisemita, normalità che deve passare attraverso il riconoscimento dello status di semplici e niente affatto speciali (in senso sia positivo che negativo) esseri umani o cittadini, agli ebrei. Le sue parole sono molto forti, quasi scandalose. La cosa migliore che posso fare è copiarle, ricordando però, in questi tempi in cui si parla tanto di "emergenza antisemita" e sembra tanto urgente approvare nuove leggi, che sono state scritte – da un superstite – quando la guerra ancora infuriava, e lo sterminio non apparteneva alla Storia, ma era anzi in via di attuazione.

Pace ai nostri morti. Ma i vivi, che non capirono e non capiscono il perché della persecuzione, è giusto che si allarmino oggi di un'indulgenza altrettanto regalata. Questo di chiudere tutti e due gli occhi, di creare eccezioni a vantaggio degli ebrei, non è un modo di riparare dei torti. Riparazione sarebbe rimettere gli ebrei in mezzo alla vita degli altri, nel circolo delle sorti umane, e non già appartarneli, sia pure per motivi benigni. Questa è una antipersecuzione: dunque, fatta della medesima sostanza psicologica e morale che materiava la persecuzione. Se prima negli ebrei si puniva l'ebreo, oggi al vedere la situazione, non già corretta, ma semplicemente capovolta con sì perfetta simmetria di antitesi, può nascere il dubbio che negli ebrei si perdoni l'ebreo. E il perdono richiama l'idea di una colpa, di un trascorso.


[…] Ma chi, come gli ebrei, ha sete di libertà, una di quelle seti che tappezzano il palato: chi ha capito come la libertà sia letteralmente una questione di vita o di morte, è pronto a riconoscere che tra tutte le libertà che compengono la Libertà, è compresa anche la libertà di essere antisemiti. Un antisemitismo di uomini liberi, un antisemitismo (se non c'è contraddizione) liberale, contro cui sia dato di opporre validi argomenti e pertinenti confutazioni, apparirebbe perfino tonico, ravvivante, rigeneratore agli ebrei che escono ora dall'antichità dell'immobilità e del silenzio. Discutere finalmente all'aperto, misurarsi, farsi le proprie ragioni, uomini fra gli uomini, uomini di fronte agli uomini, non parrebbe nemmeno vero a loro, che fino a ieri erano costretti a nascondersi, a ringhiottirsi reazioni e risposte, a cambiarsi i connotati, diffidati persino di pronunciare il loro nome, cioè in parole povere di dirsi figli del loro padre.

 

domenica 6 ottobre 2013

contro il cibo

Quindi non sono più vegetariano. Un po' per motivi di salute (penso che una dieta carnivora sia più equilibrata e semplice da seguire), un po' per curiosità scientifica (ne ho parlato nei post precedenti), un po' perché non ci credo più molto. Forse ho ancora qualche scrupolo antispecista, e un po' di inquietudine nei confronti della realtà dei grandi allevamenti industriali, ma mi sono infine rassegnato al fatto che mangiare carne, o comunque sfruttare gli animali non umani per i nostri fini sia una cosa "naturale" – con tutte la cautele che si devono usare con questo termine –, ovvero una realtà inevitabile che si colloca al di là del bene e del male (questo non significa che si debba smettere di pensarci e di responsabilizzarci). Insomma il discorso è piuttosto complesso ma se qualcuno volesse rimettere in discussione il suo vegetarianesimo potrebbe cominciare da questo libro di Lierre Keith (che però ha argomentazioni peculiari che meriterebbero un discorso a parte).

I miei anni di vegetarianesimo – anni attraversati da varie incertezze e traballamenti – che precedono la mia conversione dietologica comunque non li rinnegherò mai perché credo che mi abbiano consentito di accumulare qualche punto di esperienza nel campo dell'antropologia applicata all'alimentazione, lo studio dell'atteggiamento fondamentale dell'animale uomo nei confronti del cibo. In definitiva ho scoperto una cosa: nel ventunesimo secolo siamo molto tolleranti nei confronti dei costumi altrui, possiamo sopportare chi parla in modo diverso o addirittura provare simpatia per lui, per chi ha il colore della pelle diverso dal nostro, per chi si veste in maniera diversa, per chi prega un altro Dio, per chi ha orientamenti sessuali alternativi, ma proviamo sempre un ineliminabile fastidio per chi mangia in maniera diversa da noi.

Si entra qui nel campo dei tabù alimentari: c'è stato un tempo in cui credevo, con Marvin Harris, che i tabù alimentari fossero solo dettati da convenienze di tipo economico-igienista, quindi da fattori in ultima analisi emotivamente neutri. Il tabù del maiale presso le popolazioni semitiche è molto sentito, certamente, e il disgusto è genuino, ma sotto sotto, per Harris, agisce la semplice inopportunità di allevare suini in determinati climi, o per gli indiani la non convenienza di usare la vacca come fonte di cibo rispetto ad altri usi. Tutto questo è valido, e credo faccia bene Harris a rifiutare le vacue spiegazioni culturaliste ("fanno così perché è la loro cultura"), però non spiega esattamente per quale motivo la gente, anche all'interno di una stessa cultura che condivide grosso modo gli stessi tabù alimentari, vive come un'offesa personale il fatto che altri non abbiano le stesse abitudini in fatto di cibo. Per esempio chi mangia l'aglio disprezza quelli che non lo mangiano, e viceversa.

Molti vegetariani certamente provano fastidio nei confronti dei non vegetariani, ma questo fastidio è abbastanza spiegabile dalla considerazione che i vegetariani ritengono la loro alimentazione più etica, o anzi meglio dal loro amore per i poveri animali vittime delle necessità culinarie altrui. Questo a sua volta potrebbe forse spiegare il fastidio che i non vegetariani provano per i vegetariani, che sono  considerati come una setta illiberale che cerca di convertire l'umanità intera al loro stile di vita. In realtà – lasciatemi dare un giudizio super partes – le sette sono almeno due: vi assicuro, amici carnivori, che non vi comportate affatto in maniera meno intollerante, e forse siete anche peggio perché muovete dalla consapevolezza di essere maggioranza (mentre la maggior parte dei vegetariani è più timida proprio perché teme una reazione da cui sa che uscirebbe sconfitta). Per ogni vegetariano che vorrebbe abolire l'uso della carne mettendo fuori legge le macellerie c'è un non vegetariano che pensa che occorrerebbe portare via i figli dai genitori vegan. Vi ammantate di parole come etica e responsabilità, ma la verità è che non vi sopportate a vicenda perché mangiate in modo diverso.

Questo vale anche per chi cerca di nascondere il fastidio per gli altri in parole d'ordine come "salute pubblica". Chi predica sventure e terrorizza il prossimo nel dipingere a tinte fosche l'inferno che aspetta chi si nutre di carni rosse, grassi saturi, e bibite zuccherate; chi si riempie la bocca della parola "biologico" e si fa il segno della croce davanti a conservanti e pesticidi; chi vorrebbe mettere le bombe alla Monsanto perché produce Ogm che fanno suicidare i contadini poveri, o chi ritiene legittimo spaccare la vetrina di un fast food poco prima di recarsi al ristorante di lusso a versarsi del barolo. Ma vale anche per chi, cibandosi come desidera legittimamente cibarsi, non resiste al dileggio nei confronti di chi non lo accompagna; chi "compatisce" i vegetariani e i salutisti, ma non si limita a compatirli interiormente, ma deve ruttargli in faccia la sua pietà; chi concepisce il mangiare zozzo come una manifestazione di virilità da esibire a tutti come certi si aprono l'impermeabile ai giardinetti, e condisce ogni boccone con le sue battutine salaci sugli altri, i diversi.

Probabilmente, e sono consapevole di non dire nulla di originale, il cibo è considerato un rito non solitario, collettivo, che riguarda l'intera comunità e che quindi non fa parte della sfera rigorosamente privata e individuale come il sesso. Quello che uno di noi mangia è allora un atto che ci riguarda tutti, e il non adeguarsi alle norme collettive è visto come un gesto che spezza i vincoli della comunità e la mette in pericolo. E d'altra parte, chi non vuole adeguarsi non si accontenta di nascondersi nella sua cameretta ma pretende che sia l'intera comunità a seguirlo, e si metterà a predicare il suo nuovo verbo (esattamente come ho fatto anch'io, del resto).

I detti popolari ci vengono in aiuto: "chi non mangia in compagnia è un ladro o una spia", "chi mangia solo si strozza", "far finire tutto a tarallucci e vino" quando si fa la pace (ma se a me non piacessero i tarallucci o fossi astemio si continua la guerra?), e "spezzare il pane" come simbolo di fratellanza, di unione. Quello dello spezzare il pane è in particolare un gesto di speciale significato per i cristiani, in quanto simbolo della comunità dei fedeli unita nel corpo di Cristo. Torna qui, un parallelo che mi è già capitato di svolgere un paio di volte: quello fra una dieta e una religione, e i dietologi come nuovi leader spirituali. Ciò spiega facilmente perché ogni religione è dotata di specifici tabù alimentari (al di là del rinforzo dato dalle ragioni puramente materiali harrisiane) destinati da un lato a rinforzare i vincoli sociali all'interno della comunità di fedeli, dall'altra a identificare facilmente i nemici, quelli esterni e i dissidenti interni.

Il punto però è che mentre le religioni tendono alla secolarizzazione, e anche alla privatizzazione del sentimento religioso (come faccenda privata intercorrente fra il fedele e Dio), è rimasta tutta la forza del tabù alimentare sganciato ormai dal suo fondamento religioso, come fatto simil-religioso a sé stante. Abbiamo laicizzato lo Stato, ma non la tavola. Così quando il signor Barilla afferma che non vuole coppie dello stesso sesso a tavola nelle sue pubblicità scoppia il finimondo proprio perché il diritto a pubblicizzare i propri prodotti come meglio si desidera viene considerato meno importante della inclusione dei gay nella grande Chiesa dello spaghetto (non volante) che ci identifica anche in quanto italiani, inclusione messa a repentaglio dalle sventurate parole di Barilla. Forse sarebbe il momento di una rivoluzione culturale anche in questo senso.

Ora, io non so se esiste un rimedio, e quale potrebbe essere. Mi piacerebbe che la gente condividesse meno fotografie di pasti su Instagram o Facebook, in quanto appunto momenti intimi e personalissimi, oppure che tali foto fossero almeno confinate in spazi appositi come i filmini pornografici, in modo che non feriscano la sensibilità di nessun innocente; mi piacerebbe anche che la televisione pubblica destinasse meno spazio a trasmissione di orrenda propaganda culinaria (a proposito, ricordate il caso Bigazzi? tanto rumore per la ricetta del gatto? era un'improbabile faccenda animalista o una questione religiosa?), ma ovviamente non me la sentirei di imporlo per via legale. Forse basterebbe solo un po' di educazione in più.