mercoledì 17 febbraio 2016

il mondo della vita agra



“Cosa si intende quando si dice che il governo deve istruire le persone? perché dovrebbero essere istruite? a cosa serve l'istruzione? Ovviamente a rendere le persone adatte alla vita sociale – a renderle dei buoni cittadini. E chi decide cos’è un buon cittadino? Il governo: non c’è altro giudice. Quindi la proposizione si può rendere così: un governo deve modellare i fanciulli trasformandoli in buoni cittadini, usando la sua  discrezione nello stabilire cos’è un buon cittadino e il modo in cui deve avvenire il passaggio da fanciullo a buon cittadino” (H. Spencer, Social Statics, 1851).  
L’eterna polemica su cosa sia meglio privilegiare fra cultura umanistica o cultura scientifica, fra liceo classico o scientifico, fra formazione teorica e intellettuale orientata al pensiero critico oppure pratica e manageriale finalizzata all’ingresso nel mondo del lavoro – polemica che in questi ultimi giorni è stata alimentata dal filosofo Umberto Galimberti nella sua rubrica su "D" di "Repubblica" – è naturalmente una falsa alternativa, dal momento che assume che ci sia qualcuno – diverso dal protagonista della formazione, il discente – che debba scegliere, che debba privilegiare l’una o l’altra idea di formazione e di scuola. 

La mia idea, come vado ripetendo ai miei 25 lettori da un paio d’anni a questa parte, è che la scuola e il sistema formativo non abbisognino di una riforma scritta da un manipolo di “saggi” nominati da un ministero i quali grazie alla loro lungimiranza ed esperienza sappiano individuare quelle che sono le necessità formative del presente e del futuro della società. Temo infatti che una tale “sapienza” sia impossibile da avere, così come in generale sono destinati a fallire tutti i disegni di ingegneria sociale calati dall’alto della politica, i vari tentativi di “aggiustare” la società come se fosse un semplice macchinario da oliare, e non un aggregato ingestibile formato da miriadi di volontà proprie. Come in molte altre cose, più che una riforma servirebbe un radicale smantellamento del sistema dell’istruzione pubblica, cominciando ovviamente dall’abolizione dell’obbligo scolastico. 

Si potrebbe pensare che sia sufficiente un ampliamento dell’offerta: in fondo oggi si può scegliere, appunto, fra classico, scientifico, o tecnico. Proprio le eterne polemiche dimostrano però che per quanta libertà si possa concedere al consumatore sia pur sempre presente e pervasivo un progetto di condizionamento delle scelte degli attori sociali, un inevitabile indirizzamento delle risorse economiche – pubbliche – in particolari direzioni a seconda dell’ideologia politica o dei paradigmi psico-pedagogici al momento in voga. Tutto, al di fuori dell’autodeterminazione e del libero mercato dell’offerta formativa, possibili solo impedendo allo stato di decidere al posto nostro su cosa è meglio per noi studiare e sapere. 

Detto questo, e se proprio dovessimo rimanere all’interno delle alternative classiche, trovo particolarmente irritanti le strategie argomentative volte a delegittimare i tentativi di adeguare, almeno, l’offerta formativa a quelle che sono le necessità del mercato del lavoro (non che la cosa possa davvero riuscire, come dicevamo sopra). Cosa della quale l’articolo di Galimberti offre un esempio piuttosto significativo, nella trasparenza con cui dietro l’apparenza della retorica emancipatoria e progressista emerge il disegno ideologico classista e repressivo. 

Questo spiega per esempio perché assistiamo a un’iscrizione in massa al liceo scientifico, rispetto al liceo classico, nell’ingenua supposizione che quest’ordine di studi addestri meglio la mente al mondo della scienza e della tecnica, che è diventato per noi oggi l’unico mondo, a scapito del modo della vita. Chiamo mondo della vita quel mondo dove fanno la loro comparsa arte, letteratura, cinema, teatro: in una parola la cultura, che poi è l’unico tratto per cui l’uomo si distingue dalla bestia. «Con la cultura non si mangia», diceva un nostro ministro dell’economia. Non è vero, ma anche se lo fosse, crediamo sul serio che un popolo possa migliorare e crescere, anche economicamente, senza cultura? 

Sostanzialmente Galimberti sostiene che è vera cultura solo ciò che è inutile, ciò che non serve a niente e che deve essere gustato solo in quanto fine a se stesso, per la sua bellezza intrinseca. In realtà, e a quanto pare totalmente privo di vergogna, egli vorrebbe addirittura insinuare che solo così, occupandoci dell’inutile, otterremo la chiave per dominare l’universo anche nei suoi aspetti più volgarmente pratici, mentre il mondo della tecnica continuerà gelosamente a custodire i suoi segreti e non rivelarli a coloro che si avvicineranno alla natura, appunto, con un approccio rozzamente tecnico e non mistico. Insomma, è una “ingenua illusione” che per capire la matematica e la scienza occorra studiare matematica e scienza (ed eventualmente frequentare un liceo scientifico). Dev’essere di questa idea anche Eugenio Scalfari, il quale recentemente ha tenuto a spiegarci, nel suo editoriale della domenica, il “vero” significato della scoperta delle onde gravitazionali, lui che ha capito le teorie di Einstein anche meglio di Einstein (tanto da piegarle a metafora dell’attualità politica, cosa certo non concessa a tutti i mortali).
Si tratta di un’idea della cultura che viene da lontano, molto classica e forse persino rispettabile se non fosse per l’ipocrisia che vorrebbe addirittura farcela digerire come “di sinistra”. Si prenda anche la retorica del filosofo Diego Fusaro, tanto per restare in tema di macchiette: il suo è un continuo attacco al mondo della tecnica, dell’economia, alla riscoperta di quelli che sarebbero i veri “valori” umanistici, dell’autenticità, della filosofia heideggeriana dell’essere. Non mi scandalizzerei troppo, se almeno Fusaro non si presentasse come vero interprete di Marx – di un marxismo impossibile dal quale è stata tolta ogni traccia di analisi economica, come nella proverbiale ricetta del risotto senza riso – e difensore dei deboli e degli oppressi (come quando si è fatto una vacanza in Grecia per sostenere il referendum anti troika). 

La vera utilità della cultura classica era stata rivelata e spiegata in modo chiarissimo dal sociologo statunitense Thorstein Veblen nel 1899, nel suo classico del pensiero La teoria della classe agiata, e nell'ambito della sua descrizione del fenomeno del “consumo vistoso”. In sostanza, la cultura delle classi ricche “deve” essere inutile e non produttiva per funzionare da segno di distinzione sociale, per marcare la differenza fra il ricco e il povero (significativo anche il disprezzo, in tal senso, con cui Galimberti parla dei prodotti culturali che si vendono troppo, non adatti a fungere da status symbol). È solo la necessità materiale, infatti, che spinge le persone a occuparsi di cose che potrebbero essere utili, in un più o meno lontano futuro, per praticare un mestiere. Chi il mestiere non ha necessità di praticarlo ha tempo per il greco e il latino. Il grosso vantaggio di questo sistema di distinzione è che è difficilmente contraffabile: mentre una borsa di Vuitton può essere copiata dai cinesi, non si può ottenere una buona istruzione classica a buon mercato. Occorre tempo, molto tempo sottratto al lavoro. 

Si tratta di un sistema perfettamente razionale e può essere detto a suo favore che  proprio come la moda o altri esempi di consumi vistosi – non è mai servito allo scopo di creare e perpetuare le diseguaglianze sociali, in ogni caso lasciando a ciascuno la libertà di perseguire il proprio interesse come meglio crede, ma solo allo scopo di registrarle, di renderle manifeste. È del tutto evidente che l'assorbimento di questo modello all'interno dell'istruzione di massa obbligatoria (che invece avrebbe o dichiara di avere proprio lo scopo di annullare le differenze e creare almeno un'uguaglianza delle opportunità) crea delle notevoli distorsioni nel sistema. Sempre usando il paragone con la moda, è un po' come se lo stato obbligasse le persone a risparmiare parte del loro stipendio per acquistare borsette di lusso, senza chiedersi se è quel che vogliono o di cui hanno bisogno, e con la differenza che una borsetta è almeno facilmente scambiabile con altri beni di prima necessità. 

La conseguenza a lungo termine di un'istruzione di massa così concepita è la creazione di quella che altri ha chiamato, con esplicito riferimento a Veblen, "classe disagiata", ovvero una classe di persone che nonostante abbiano le stimmate fornite da una buona educazione (spesso conseguita con notevoli sacrifici nonostante l'aiuto di stato) non riescono ugualmente ad emanciparsi dal punto di vista sociale  tanto meno dal punto di vista economico. Come i nobili decaduti di una volta, queste persone sono spesso disposte a saltare pranzi e cene ma non a rinunciare ai simboli del loro status, come un maggiordomo, oppure un contratto di collaborazione con una casa editrice per tradurre carmi alessandrini a due centesimi a cartella, pagamento dopo 12 mesi. 

Raffaele Alberto Ventura da buon apocalittico vede nella classe disagiata un modello di concorrenza malato conseguenza di tendenze inevitabili dello sviluppo economico, e che potranno avere il loro scioglimento solo nella catastrofe finale. Più ottimista, io ritengo che non ci sia nulla di intrinsecamente malato nella legge della domanda e dell'offerta, e molto di sbagliato nel tentativo autoritario di indirizzarla o contrastarla, e che proprio tali tentativi conducano a effetti socialmente disastrosi. 




P.S. Per chi fosse interessato a quello che scrivo anche fuori dal mio blog, ci sono due articoli per "L'indiscreto", uno su Socrate e uno su Isaac Asimov. Per il blog degli "88 folli" invece ho scritto un per me insolito pezzo a tema cinematografico, a proposito di Sentieri selvaggi di John Ford.