venerdì 14 maggio 2010

truth nazi

È noto che niente è maggiormente in grado di scaldare gli animi e dare vita alle più accese discussioni, in Internet, quanto le inezie grammaticali. Uno può scrivere tutto quel che vuole, al giorno d'oggi, c'è la libertà d'espressione. Per cui si è giunti ad accettare quasi tranquillamente anche le opinioni più ignobili, purché vengano enunciate in un italiano formalmente e semanticamente corretto ("i negri che ci portano via le donne e il lavoro, io dico che bisogna fare piazza pulita", "aargh, cos'è, un anacoluto? e poi non si dice negri").

Ma che male fa, in buona sostanza, l'ignoranza della lingua? Beh, dipende. I grammar nazi sono persone abbastanza odiose, e quasi sempre più detestabili di coloro che criticano, perché distolgono l'attenzione da quello che dovrebbe essere il topic di una discussione per impuntarsi, in maniera anche dogmatica e intollerante, su cose di nessun conto, come la posizione di un accento o un apostrofo. Sembra inoltre che il livello di odio scatenato da un errore sia direttamente proporzionale alla sua insignificanza, o alla sua ambiguità.

Spesso infatti quelli che vengono indicati come errori imperdonabili neanche lo sono, se ci si prendesse la briga di controllare con attenzione. Si scrive "qual'è" o "qual è" (senza apostrofo)? Migliaia di disgraziati ogni anno vengono condannati alla morte sociale per aver usato la prima grafia. Il motivo è che si tratterebbe di un caso di troncamento della parola (come quando si dice "nel qual caso"), e non di elisione di vocale davanti a un'altra vocale ("un'altra" invece di "una altra"). Ma la stessa distinzione fra troncamento ed elisione in realtà è piuttosto fumosa. La grafia "qual" è sopravvissuta solo in casi abbastanza rari nella nostra lingua (al contrario del comunissimo "un" al posto di "uno"), il che fa sì che nell'espressione "qual è" la parola venga comunque percepita, soggettivamente, come intera ed elisa, piuttosto che troncata. Se "qual" sparisse del tutto dall'uso e sostituito ovunque da "quale", sarebbe difficile giustificare ancora la regola. In definitiva, la maggior parte delle grammatiche normative indica "qual è" come espressione da usarsi, e solo per questo motivo è giusto attenervisi, ma non per questo l'altro uso è da considerarsi un abominio.

Qualcosa di simile avviene con la regola del "sé", che perde l'accento davanti a "stesso". Perché mai? Perché, si dice, l'accento serve a risolvere le ambiguità, mentre non può esserci ambiguità possibile nel caso di "se stesso". Ma quando mai si usa l'accento solo per risolvere le ambiguità? ma chi l'ha detto? il "sé" è una cosa diversa dalla congiunzione "se", e conseguentemente una parola diversa, scritta in modo diverso, e basta. Non c'è una regola che dice che il "tè" (la bevanda) perde l'accento quando non rischia di confondersi col pronome "te", e sarebbe assurda (senza contare che nel caso di "se stesse", l'equivoco è invece possibile). Già, ma vallo a spiegare a quei puntigliosi individui, adesso.

Taccio del fatto che spesso si vorrebbero abolire certe espressioni non perché sbagliate ma perché considerate scorrette da un punto di vista etico. Qualcuno ad esempio propone di non far precedere mai un articolo davanti a un cognome, anche quando il cognome è quello di una donna. Ovvero non "Gasparri e la Carfagna", ma "Gasparri e Carfagna", semplicemente, in modo da rimediare ad un'odiosa discriminazione e a un pregiudizio nascosto fra le pieghe del linguaggio. Ne taccio perché di cose simili ho già parlato. Taccio pure del fatto che spesso queste persone ammaliate dal linguaggio sono seriamente convinte che una certa lingua sia "superiore" ad un'altra, più ricca o più espressiva, salvo il non saper indicare un'unità di misura per la ricchezza e l'espressività di una lingua (oltre l'aneddotica).

Insomma, non è mica detto che chi parla male pensa male. Detto questo, però, Nanni Moretti ha anche ragione: le parole sono importanti. Quando lo sono? Se l'ignoranza di una regoletta ortografica è cosa che può facilmente essere perdonata (e facilmente rimediabile, del resto) e se l'errore può capitare, soprattutto quando si scrive in fretta e in contesti informali (come una chat), quando invece gli errori sono troppi non si può negare che ciò faccia una brutta impressione.

Una persona che non si dà mai la briga di controllare se ha messo almeno gli spazi tra una parola e l'altra, o qualche vestigia di punteggiatura all'interno di un lungo periodo, è una persona che fa pochi sforzi per farsi comprendere, per essere facilmente leggibile da tutti. È come un sito web compilato male, oppure scritto tutto in comic sans: non c'è nulla di essenzialmente sbagliato nell'uso di un font al posto di un altro, salvo che alcuni vengono a noia molto presto, o addirittura limitano la leggibilità del testo. E $3 $(r1v373 (0$ì, pr1m4 0 p01 qµ4£(µn0 v1 m4nÐ3rà 4 ƒ4n(µ£0.

Poi c'è quel tipo di espressioni che si fanno detestare solo per il loro abuso, e denotano una certa pigrizia, una propensione alle frasi fatte, al luogo comune. Magari sono espressioni originariamente innocenti, o che al loro apparire erano pure intelligenti, ma sono come battute umoristiche che ripetute centinaia di volte non fanno più ridere: "a prescindere", "ma anche no", "piuttosto che", "nella misura in cui", "per certi versi".

Peggio di questo, c'è quel tipo di errore che è sintomo non tanto di ignoranza, ma di una reale confusione mentale. Chi non riesce a completare una semplice frase soggetto-verbo-predicato, chi sbaglia continuamente i tempi verbali, chi non sa concordare i soggetti con i verbi e gli aggettivi, beh, è qualcosa di più che poco pratico con i magici arcani della nostra lingua, e con le sue sottigliezze. È confuso, nella migliore delle ipotesi. E questo comincia ad essere un problema di sostanza, non solo di forma.

Noi censori dovremmo combattere di più per questioni di sostanza, che per inezie sugli accenti, eppure non vedo in giro molte persone che si sbattono per un italiano scritto bene, nel senso che sia comprensibile e corretto dal punto di vista dell'analisi logica. Dico di più. In realtà dovremmo indignarci per i ragionamenti sbagliati, per i sofismi che le persone lasciano scivolare con disinvoltura nei loro discorsi. Queste sono le cose che non dovremmo perdonare, e questi sono i veri pericoli per la società.

John Allen Paulos ha scritto un libro, Innumeracy, sulla piaga dell'analfabetismo numerico, nel quale denuncia appunto il fatto che esiste molta più indulgenza (e auto-indulgenza) per un'ignoranza anche grave e totale delle più elementari nozioni matematiche, che per la scarsa dimestichezza con la lingua. Nessuno vi escluderà mai da un salotto perché non sapete che il diametro di un cerchio sta circa 3,14 volte nella sua circonferenza, o che il lato e la diagonale di un quadrato sono incommensurabili. Anzi, la gente se ne compiace. "Io quando vedo un'equazione mi va in tilt il cervello, ih ih".

Ma questo è un genere d'ignoranza (e non parlo solo della matematica, ovviamente) che produce danni seri, produce Sandro Roberto Giacobbo per dirne una. Produce una cultura di professori di greco e latino che passano il tempo libero a scrivere deliranti pamphlet contro le scie chimiche. Produce persone apparentemente colte (che si vantano di essere colte e istruite, almeno), che però scrivono cose del genere.

Produce distorsioni giornalistiche che passano inosservate, come quando qualche speaker si lascia scappare che ogni giorno muoiono un milione di senzatetto nelle strade d'America, e nessuno batte ciglio non rendendosi conto di quanto sia sballata la scala (per moltissime persone, "un milione" significa semplicemente "un numero molto grande", un po' come i selvaggi dell'Amazzonia che non sanno contare oltre il due). Rimaniamo affascinati quando sentiamo dire che ogni minuto in Amazzonia vengono disboscati 4 stadi di calcio, ma non ci mettiamo mai a contare quanti stadi di calcio contiene l'Amazzonia. Ci facciamo incantare dagli abracadabra numerici, continuamente, senza mai mettere in allerta lo spirito critico.

Io ho un certo rispetto per i grammar nazi, in fondo nel loro piccolo svolgono anche loro un'opera meritoria. Solo, quando ne incontro uno, mi viene voglia di chiedergli come si calcola l'area di un trapezio, o di risolvermi una semplice equazione di secondo grado. Oppure la formula chimica del sale da cucina. Non pretendo moltissimo, credo. Ma se non lo sanno, perbacco, tornassero a scuola.

lunedì 3 maggio 2010

l'albero di maggio

Tutti conoscono l'albero della cuccagna come un innocente gioco popolare, dove vari oggetti (magari prosciutti e generi alimentari) vengono legati in cima a un palo insaponato, e che i concorrenti devono cercare di raggiungere arrampicandosi. Si tratta però di una tradizione molto antica, e ricca di significati.

Quella di "piantare il maggio" era una tradizione antica e diffusa in tutta Europa: c'era l'uso, la notte fra l'ultimo giorno di aprile e il primo di maggio, che i giovani della comunità piantassero rami, mazzi di fiori, giovani alberi nelle piazze dei villaggi o davanti alle case, e in particolare davanti alla porta o alla finestra della fanciulla alla quale si voleva rendere omaggio. […]. Quello del primo maggio era un rito di fecondità legato al risveglio della natura e al ricordo di antichi culti degli alberi. È alle evoluzioni di questa tradizione che dobbiamo sia la pratica di piantare l'albero della libertà, invalsa nella rivoluzione francese e nelle vicende politiche che comunque ad essa si rifacevano, sia l'attuale festa del Primo maggio. (Ottavia Niccoli, Storie di ogni giorno in una città del Seicento, Laterza, p. 67).

La versione ufficiale sulle origini del Primo maggio racconta in realtà un'altra storia, più direttamente legata alle rivendicazioni operaie, ma non è detto che le due versioni siano incompatibili fra loro, e cioè che la data del primo maggio non sia stata scelta anche in modo da sovrapporla ad un'altra festività precedente, come abbiamo visto di nobile tradizione.

Il maggio, il delicato omaggio floreale rivolte alle fanciulle, poteva però avere anche risvolti più grotteschi: nel libro della Niccoli si racconta di come i maggi talvolta si caricassero di contenuti goliardici, se non apertamente diffamatori nei confronti di ragazze prese di mira per vari motivi. È il caso ad esempio di una fanciulla del bolognese, che trovò nel suo portico un palo al quale erano stati legati oggetti di significato sessuale per allora inequivocabile: fichi, un membro virile fatto di carta, una bambola ("putta") di stracci. Il presunto colpevole dello scherzo, che aveva rivolto alla ragazza attenzioni non gradite e voleva così punirla, venne indicato nel rettore della parrocchia (certe cose non cambiano mai). A volte erano anche il pretesto per varie risse e scazzottate.

Proprio nel corso del Seicento, però, la Chiesa cominciò a sottoporre a severa disciplina questa e altre occasioni di festività. Inizialmente si cercò di trasformare in senso più pudico e religioso il significato di certi riti, ad esempio facendo sì che l'omaggio fosse rivolto non ad una fanciulla terrena, ma alla vergine Maria, dando così origine alle varie festività mariane del mese di maggio. Persino i "fioretti", le piccole rinunce da offrire alla Madonna, sono un'usanza che nasce nel Settecento come ulteriore evoluzione del rito. Ma in alcune località, come a Bologna, la festa finì per essere abolita del tutto, prendendo a pretesto i vari disordini e baruffe che ne scaturivano. In realtà, oltre a motivi di ordine spirituale, dietro il fastidio provocato dalla festa c'era anche la politica, avendo spesso la festa del maggio un significato civile, cioè legato al potere locale in opposizione a quello ecclesiastico.

Questo in Italia, e per quanto riguarda la chiesa cattolica. In Europa, la tradizione del Maibaum sopravvive nell'Europa settentrionale e dell'Est, dove i pali vengono collocati all'ingresso della città, a volte con la rappresentazione stilizzata dei prodotti tipici del luogo. Il suo potenziale eversivo comunque non è mai stato del tutto dimenticato. Basterebbe pensare al film horror inglese "The Wicker Man", del 1973. Nel film un poliziotto giunge su un'isola per indagare sulla scomparsa di una ragazza. Qui scopre che tutti gli abitanti dell'isola sono adepti di una strana religione che venera il sole, e che soprattutto ha al suo centro riti orgiastici di fertilità. Il poliziotto sospetta che la ragazza scomparsa stia per essere sacrificata, ma alla fine scopre che è stato attirato sull'isola con l'inganno, e che la vittima sacrificale è proprio lui. In una delle scene più suggestive del film (ce ne sono molte), i ragazzi dell'isola ballano intorno a un Maypole, mentre cantano una canzoncina che ne evidenzia il simbolismo fallico.

Ma in America il Maypole fu invece al centro di un celebre episodio storico, stavolta realmente avvenuto. Mi piace raccontarlo, anche perché è quello da cui traggono origine sia il mio nick che il nome che ho dato a questo blog. Thomas Morton (1579-1647) fu un colonialista americano, che separandosi dai Puritani fondò nel 1626 in Massachussetts la colonia di Merrymount , improntata a un progetto sociale utopistico e per i tempi piuttosto libertario. Composta da soli uomini liberi (Morton era fortemente contrario alla schavitù), la colonia prevedeva un certo grado d'integrazione e di collaborazione con i nativi, fatto questo che da solo giustificava i sospetti in ambito puritano. Ma soprattutto, la sua religiosità, pur se cristiana, accoglieva vari elementi paganeggianti e arcaizzanti, comprendenti il gioioso culto della natura e abitudini un po' libertine.

La pietra dello scandalo fu proprio l'erezione, nel 1628, di un Maypole intorno al quale, scrisse orripilato il reverendo Bradford nella sua storia della piantagione di Plymouth, i coloni si misero a danzare e bere per vari giorni, invitando le donne indiane ad unirsi a loro, e cantando odi alla madre di Cupido e altre divinità classiche, come in un moderno Baccanale (che la festa fosse anche un'occasione, per i coloni, di cercare moglie fra i nativi non è una cosa di cui venisse fatto troppo mistero, del resto). In realtà non erano alieni nemmeno motivi economici dall'ostilità dei Puritani, vista la prosperità della colonia di Merrymount che, grazie ai commerci di pelle con gli Indiani, minacciava il monopolio della colonia di Plymouth.

Comunque i Puritani decisero che era troppo, irruppero con le loro milizie nella colonia (incontrando poca resistenza, forse a causa dei fumi dell'alcol), abbatterono l'albero, e catturarono Thomas Morton, che venne prima messo alla gogna, e poi esiliato su un'isoletta a morire di fame (se non fosse stato per l'aiuto offerto, ancora, dai nativi). Appena riconquistò un po' di forze riuscì a fuggire in Inghilterra. Tornato in America dopo un anno, venne arrestato nuovamente e riesiliato in Inghilterra, sopravvivendo a malapena al trattamento inflitto durante il viaggio. In Inghilterra Morton, grazie anche all'appoggio del re Carlo I che non aveva grande simpatia per i Puritani, divenne molto famoso come campione delle libertà contro i regimi coloniali e il genocidio degli indiani, e pubblicò il libro New English Canaan, dove narrava le sue avventure, la storia della colonia di Merrymount, e i principi cui era ispirata.

La guerra civile voltò nuovamente i favori della fortuna contro di lui, che, tornato in America e imprigionato una terza volta, finì poi i suoi giorni nel Maine. Ma l'episodio del Maypole è in tutti questi anni rimasto come una delle cicatrici profonde nella storia dell'America, una sorta di mito, come i processi alle streghe di Salem, o la storia della principessa Pocahontas. Venne raccontato da Nathaniel Hawthorne (The Maypole of Merrymount), dal poeta William Carlos Williams (In the American grain), e svolge un certo ruolo anche nel libro di Philip Roth L'animale morente.

Così, tanto per ricordare che in America non ci sono stati solo Buffali Bill e generali Custer.