domenica 29 novembre 2009

tutta la verità in 1480 parole


Quando Pilato chiede a Gesù "cos'è la verità?" (Giovanni 18, 38) non ottiene una risposta (forse anche perché non l'attende). Secondo la dottrina cristiana, "Pilato non si rende conto che sta rivolgendo la domanda sulla verità alla Verità stessa che sta davanti a lui, in veste di imputato, passabile di pena di morte". I cristiani rammentano spesso questo passo per criticare l'atteggiamento "pilatesco" dei moderni pensatori relativisti nei confronti della verità (*).

Condivido il bersaglio, ma lo stesso non mi convince troppo questa interpretazione, perché un conto è attaccare il relativismo, un altro cedere al dogmatismo più rigido. La verità sarebbe una persona, sia pure un po' speciale come Gesù? Troppo presuntuoso. Forse poteva funzionare 2000 anni fa, ma adesso chi se la sentirebbe di andare in giro a dire "Io sono la via, io sono la verità e la vita" (Giovanni 14, 6), senza essere giustamente preso un po' in giro?

Secondo me Gesù avrebbe fatto bene a rispondere qualcosa del genere (anche se non gli avrebbe ugualmente salvato la vita):

“Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso, mentre dire di ciò che è che è o di ciò che non è che non è, è vero”.

La definizione aristotelica di verità (si trova nella Metafisica), nonostante la sua antichità, infatti rimane una delle più valide. In primo luogo Aristotele giustamente attribuisce la proprietà della "verità" ai discorsi intorno alle cose, e non alle cose stesse e, va da sé, nemmeno alle persone. La verità non è una cosa, un oggetto, una persona, ma è un attributo, e in particolare un attributo dei discorsi. Senza linguaggio non ci sarebbe la verità, ma ci sarebbe solo il mondo.

In secondo luogo, qui c'è persino un abbozzo di "principio di composizionalità": una frase vera diventa falsa se ci appiccichiamo davanti il connettivo logico "non", e approfondendo il discorso Aristotele avrebbe anche potuto dire che un enunciato composto da due enunciati tenuti insieme dal connettivo "e", è vero solo se sono veri entrambi gli enunciati di partenza. Ma si potrebbe persino partire dai singoli termini (che da soli non sono né veri né falsi) e con l'aiuto della nozione di "soddisfazione" capire in che modo contribuiscono al valore di verità di un enunciato: ad esempio "x è intelligente" è soddisfatto quando alla x sostituiamo il termine "Rita Levi Montalcini", ma non è soddisfatto da Gasparri. Vengono quindi stabilite le condizioni in base alle quali si può dire che un enunciato è vero, che è l'essenza della definizione.

Se insomma prendiamo la definizione aristotelica, rimasta allo stadio di abbozzo incompiuto, e cerchiamo di approfondirla, è piuttosto facile arrivare alla definizione tarskiana di verità. Sì, perché oggi la risposta alla domanda di Pilato, "che cos'è la verità", esiste, ed è stata trovata nel 1933 da un logico polacco, chiamato Alfred Tarski. Prima di esaltarci troppo, sarà bene premettere che quella di Tarski, per quanto corretta, è una definizione ma non un criterio, ovvero risponde alla domanda "cosa significa essere vero", ma non ci permette di stabilire che cosa è vero in particolare, che poi forse è quel che voleva sapere Pilato.

Comunque, secondo Tarski, una definizione adeguata di verità, per un dato linguaggio, è fornita da una teoria che, seguendo il principio di composizionalità visto sopra, riesca ad associare per ogni enunciato P del linguaggio in esame, un corrispondente enunciato (nel linguaggio della teoria) della forma "‘P’ è vero se e solo se Q".

"La neve è bianca" è vero se e solo se la neve è bianca.

Grazie al cazzo, direte voi, ma faccio notare che l'apparente banalità della frase precedente è dovuta solo alla casuale sovrapposizione fra linguaggio oggetto e linguaggio della teoria (metalinguaggio), ma in realtà avrei anche potuto dire:

"雪是白的" è vero se e solo se la neve è bianca.

Se per ogni enunciato in cinese sappiamo produrre (partendo dai singoli termini e con l'aiuto del principio di composizionalità) una frase in italiano come quella sopra, sappiamo cosa significa essere vero in cinese, cioè sappiamo a quali condizioni una particolare frase in cinese è vera o falsa, che non è mica poco. Il problema è che in realtà fare questo significa anche conoscere il cinese, cioè essere in grado, per ogni enunciato cinese, di trovare il corrispettivo sinonimo in italiano, il che forse rende di nuovo banale la definizione. Banale, però, non significa inutile, soprattutto quando serve ad escludere delle alternative.

In primo luogo la verità non è "corrispondenza": in Tarski, o in Aristotele, e contrariamente a quello che si legge nella quasi totalità dei manuali di filosofia, non c'è nessun riferimento ai "fatti", o al concetto di "corrispondenza ai fatti", il che è una fortuna perché nessuno ha mai saputo definire che cosa sia un "fatto", se non in modo tautologico identificandolo con una frase vera. La verità è un predicato semplice, atomico. Un enunciato è vero e basta, non vero e quindi connesso in maniera particolare con uno speciale tipo di entità.

In secondo luogo, e ancora più importante, la verità è qualcosa. Intendo dire che c'è un senso oggettivo, nel dire di una particolare frase che è vera o falsa: la tale frase è vera a determinate condizioni, che possono essere enunciate (anche se può non essere facile stabilire se le condizioni sussistono). Il che vuol dire che si può essere realisti senza avere una teoria della corrispondenza, cioè senza identificare la verità con un oggetto. E vuol dire anche che si può rispondere alla domanda di Pilato, senza con ciò aderire a nessuna particolare dottrina, senza pretendere di conoscere la verità, e soprattutto senza fare gli sboroni e dire assurdità come: "la verità? eccomi qui".

In realtà però, le cose sono un po' più complicate: a rigore Tarski ha definito solo il significato del termine "vero-in-L", dove L sta per un particolare linguaggio. Si può capire cosa significhi essere "vero-in-italiano" o "vero-in-cinese", ma ancora non sappiamo cosa significhi essere "vero". Anzi, la definizione di Tarski può essere usata proprio per dimostrare che è impossibile definire la nozione semplice di verità. Infatti tale definizione fa un uso essenziale della distinzione fra linguaggio e metalinguaggio: il predicato "vero" ha senso solo se usato per riferirsi a un linguaggio diverso da quello nel quale esso è usato, altrimenti si generano inevitabilmente antinomie come quella del mentitore ("questa frase è falsa"). E quindi non può essere definito un predicato di verità universale, che comprenderebbe anche se stesso fra gli oggetti del discorso.

Ma questo non dovrebbe comunque indurci allo scetticismo radicale e al relativismo, perché il fatto che la verità non sia definibile probabilmente significa solo che essa è una nozione talmente fondamentale da essere, lei, la base di tutte le altre definizioni dei nostri concetti. Senza avere una nozione intuitiva di cosa sia la verità non potremmo parlare, e non potremmo neppure pensare. Tanto è vero, ad esempio, che la banalità degli enunciati della forma "‘雪是白的’ è vero se e solo se la neve è bianca" si trasforma in qualcosa di molto interessante se noi, seguendo un percorso inverso a quello di Tarski, partissimo dalla nozione primitiva di verità per costruire una teoria del significato per il cinese, ovvero una teoria che ci permetta di interpretare gli enunciati cinesi e trovare i corrispettivi sinonimi in italiano (che è la strada seguita da Donald Davidson).

Ma allora Gesù in fondo potrebbe aver fatto bene a tacere di fronte a Pilato. Ma non perché lui fosse la via, la verità, la vita. È solo perché è inutile tentare di rispondere a qualcuno che dubita che la verità esista, quasi quanto è inutile parlare con qualcuno convinto di avere già la verità in tasca. Tale persona non è un essere pensante, e tanto varrebbe rivolgersi al muro.

lunedì 23 novembre 2009

l'ho sempre detto io...

... che chi studia Heidegger fa una brutta fine.

A 15 anni è folgorata sulla via di Damasco dalla «Introduzione alla metafisica» di Martin Heidegger. Per mesi ne legge i sacri testi in lingua originale e gli resta devota anche a Pisa, prima classificata alla Scuola Normale Superiore, da cui esce con 110 e lode per la sua tesi in Filosofia Teoretica e un libretto desami immacolato (tutti 30 e lode).
A Roma si diploma in LUISS, Master in Direzione del personale e organizzazione.
Convinta però che la filosofia debba uscire dallaccademia e passare dalla comunicazione, si avvicina a giornalismo e mass media. Dopo qualche anno e centinaia di articoli scritti, approda a Mediaset: collaboratrice ai testi per «Il senso della vita» e «Buona domenica», consulente per «Sanremo 2009». Collabora con «Il Tempo» ed è consulente alla Camera dei Deputati (Comitato per la Legislazione). Ha partecipato con un trattato, «Facebook ergo sum», al saggio collettivo «Rispieghiamo Facebook per chi era assente» (di prossima pubblicazione) e sta preparando un libro-scoop.
Non paga di quanto detto sopra, si innamora del mondo dei new media, network & social network, web 2.0 (sentendosi già ormai molto 3.0). Su suggerimento di amici made in USA, si autonomina Social network & media manager R&D, allinsegna di una sua specialissima teoria, mediatico-teoretica: «Facebook, ergo sum», «Social ergo sum»...
Si appassiona pure al Real Estate e, su entrambi i fronti, inizia vorticosamente a ideare, organizzare, moderare o partecipare direttamente a convegni, eventi, presentazioni e Premi.
Da ottobre 2009 è consulente LUISS Guido Carli per le attività web e editoriali: incarico di cui va particolarmente fiera.

Curriculum visibile qui, via Luca Sofri via Mantellini.

Update:

scienza ironica

Francis Fukuyama, studioso americano di origine giapponese, scrisse nel 1992 un libro dal titolo La fine della storia e l'ultimo uomo, dove (ispirato da Hegel) sosteneva la tesi che la storia del mondo, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine del comunismo, era praticamente giunta al suo termine. Gli anni a seguire avrebbero visto il consolidarsi, in tutto il mondo, delle democrazie liberali, dopodiché non ci sarebbero più stati eventi storici di grande rilievo, avendo l'umanità raggiunto il suo traguardo.

È scontato il fatto che Fukuyama sia stato preso abbondamente per il culo, in quanto autore di una delle profezie più avventate di sempre. Venne deriso soprattutto in occasione degli attentati dell'11 settembre, allorché sembrò prevalere la tesi di un altro studioso (Samuel Huntington), che il nostro avvenire prossimo avrebbe ormai riguardato in special modo gli "scontri di civiltà" (ovvero, non più conflitti fra diverse entità territoriali o fra classi sociali, ma lotta all'ultimo sangue fra visioni del mondo globali, fra Oriente e Occidente).

Nel 2002 Fukuyama scrisse un altro libro (L'uomo oltre l'uomo) dove in parte correggeva le sue tesi precedenti, sostenendo di non aver tenuto in debito conto i progressi scientifici e l'impatto che le nuove tecnologie potrebbero avere nello sviluppo storico dell'umanità. Ironicamente, però, John Horgan (giornalista scientifico americano) nel 1996 aveva argomentato per La fine della scienza. In modo, a mio modesto avviso, più convincente. La scienza, così come noi la conosciamo, è appunto un fenomeno che ha fatto la sua comparsa in un punto piuttosto recente della storia (il XVII secolo) e in realtà non si vede perché così com'è cominciato non potrebbe finire, mentre è difficile persino dare un senso al concetto di "fine della storia" (non sarebbe un evento "storico" di grande portata?).

La tesi di Horgan comunque non è che non c'è più nulla da scoprire. Egli sostiene piuttosto che potrebbe, un giorno di questi, non esserci più nulla da scoprire, e che non è affatto detto che il progresso scientifico sia infinito. La maggior parte degli scienziati inorridisce di fronte a una prospettiva del genere, ed è subito pronta a tirare fuori l'aneddoto (falso) dell'impiegato dell'ufficio brevetti che a fine '800 avrebbe dichiarato "Tutto ciò che si può inventare è già stato inventato", chiedendo la chiusura dell'ufficio (se si vuole un aneddoto vero, si potrebbe citare la frase di Kant, secondo cui "la logica dopo Aristotele non ha dovuto fare nessun passo indietro e non ha potuto fare nessun passo avanti").

Ogni volta che crediamo di essere vicini alla verità definitiva in qualche campo, si sostiene, succede sempre qualcosa, la scoperta di una nuova particella, un nuovo fenomeno finora inosservato, una nuova teoria, che rende chiaro come l'impressione precedente fosse solo dovuta ad una mancanza d'immaginazione. Ogni risposta è destinata a generare nuove domande, e le risposte a queste domande, e la scienza che ne emergerà, sono destinate a suscitare ulteriori interrogativi. La natura non finirà mai di svelarci tutti i suoi segreti.

Ma andiamo! Questa è pura retorica. E se invece le nostre teorie fossero, semplicemente, vere, e quindi eventualmente perfezionabili ma non rimpiazzabili da niente di profondamente diverso? Perché non dovrebbe accadere? Perché non dovrebbe essere già accaduto? Può ben essere il caso, ad esempio, per la teoria darwiniana dell'evoluzione. È una spiegazione bellissima, ed estremamente convincente (per chi la capisce) della varietà degli organismi viventi. Può darsi benissimo che non sia completa, però è quasi sicuramente vera. Vera non solo come approssimazione, come era la teoria di Newton rispetto a quella einsteniana, ma in un senso più definitivo.

Il vero motivo per cui la maggior parte degli scienziati (e non solo) non crede ad un'eventualità del genere è che non vogliono che sia vera. E non per il motivo triviale che in tal modo perderebbero il lavoro, ma perché in tal modo l'umanità intera perderebbe una parte essenziale della sua missione spirituale, del suo compito nell'universo, che è quello di conoscere e di scoprire. La scienza è una delle attività più nobili che esistano, e anche delle più belle e divertenti, e nessuno vuole davvero che finisca. Come reagirebbe allora la comunità scientifica di fronte ad una tale eventualità?

John Horgan nel suo libro introduce il concetto di "scienza ironica" che è mutuato dal "poeta ironico" del critico letterario Harold Bloom. Bloom, nel suo acclamato libro L'angoscia dell'influenza parlava della sgradevole sensazione, presso gli scrittori moderni, che tutto quanto si possa dire o scrivere di significativo sia già stato detto. C'è qualche poeta o drammaturgo in giro che pensa davvero di poter aggiungere qualcosa a Shakespeare, o a Dante? di poter raggiungere o superare quelle vette di poesia sublime? oppure qualcuno pensa di potersi spingere, nella sperimentazione stilistica, oltre il punto cui è arrivato Joyce?

La risposta a questo, da parte di alcuni scrittori, è stata il post-modernismo, ovvero accettare il fatto il di essere dei meri ripetitori e quindi limitarsi a proporre, con abilità più o meno maggiore, delle continue variazioni sul tema, ingegnandosi però a mescolare i generi, a rivisitare i classici decontestualizzandoli e ambientandoli nella modernità, dissacrandoli, facendoli a pezzettini, divertendosi, forse, ma senza avere mai l'ambizione di scrivere "il romanzo del secolo", di raccontare una storia che dovrebbe racchiudere il senso di un'epoca, di mettere per iscritto i sogni e gli incubi di un'intera generazione, in altre parole di fare "letteratura" vera e propria (per un'analogia più banale, si pensi alla moderna tendenza musicale per le cover).

Secondo John Horgan già oggi è come se molti scienziati abbiano rinunciato, inconsapevolmente, alla loro missione di "scopritori", e perciò si limitino a fare quella che lui chiama "scienza ironica", che non è altro che una sorta di esercizio letterario sul già scoperto e già corroborato dall'esperienza. Ci sono molti esempi nel suo libro (che è un libro di interviste a celebri scienziati e anche un eccellente esempio di divulgazione), ma il paradigma stesso dello scienziato ironico è individuato nel paleontologo, e darwiniano dissidente, Stephen Jay Gould (scomparso nel 2002).

Una volta noto come bravissimo e apprezzato autore di scritti divulgativi aventi come argomento l'evoluzione, nel corso della sua carriera Gould finì per imbarazzare sempre più i suoi colleghi, per le sue prese di posizione in odore di "eresia" e di "anti-darwinismo". Non che abbia mai concesso nulla a fuffa pseudoscientifica quali il creazionismo e l'intelligent design (e anzi testimoniò contro queste aberrazioni anche nelle aule dei tribunali), ma è un fatto che il suo atteggiamento ambiguo finì per dare delle armi in mano ai creazionisti stessi. Il fatto è che Gould si sentiva a disagio con l'ortodossia darwiniana per vari motivi (anche politici), nessuno dei quali però, a ben vedere, aveva a che fare con la sua eventuale inadeguatezza a spiegare i fatti.

Gould, semplicemente, non poteva accettare che la teoria di Darwin fosse l'ultima parola in fatto di evoluzione della specie, e impiegò la sua vita nel tentativo di "rivoluzionarla", per poi offendersi moltissimo per lo scarso entusiasmo dimostrato dai suoi colleghi (persone come Richard Dawkins o John Maynard Smith) nei confronti delle sue proposte. Insieme al genetista Richard Lewontin scrisse una critica, da lui ritenuta devastante, al "paradigma panglossiano" o adattazionista, sostenendo che non tutte le mutazioni sono da considerarsi dei veri e propri adattamenti, ma ci sono anche limiti e vincoli posti dalla forma e dalla struttura di un organismo (I pennacchi di S. Marco e il paradigma panglossiano). La risposta grosso modo fu: "sì, lo sappiamo, e allora"?

Insieme a Niles Eldredge formulò invece la teoria degli "equilibri punteggiati" nella quale si opponeva al "gradualismo" dell'ortodossia sostenendo che l'evoluzione può avvenire anche per balzi improvvisi, cosa che spiegherebbe il paradosso delle testimonianze fossili incomplete. Anche questa volta la risposta fu: "sì, e allora?". Nessuno aveva mai sostenuto che il gradualismo implicasse "velocità costante" dell'evoluzione, e non è un fatto troppo sorprendente che certi eventi possano imprimere una forte accelerata (senza mai arrivare alla nascita di una nuova specie nel corso di un paio di generazioni, cosa che nemmeno Gould arriva a pensare). Si ritiene ad esempio che sia stata la caduta di un grosso meteorite a causare l'estinzione dei dinosauri, permettendo così l'affermarsi di nuove specie che ne occuparono la nicchia ecologica, il che dimostrerebbe che non tutti i cambiamenti sono dovuti a lenti e impercettibili adattamenti morfologici, ma ci sono anche gli eventi catastrofici. E grazie al c...

Per non parlare delle critiche, puramente ideologiche (Gould era un marxista e un radical chic agguerrito) alla sociobiologia di Wilson ("eugenetica! eugenetica nazista!") e alla teoria del gene egoista di Dawkins ("riduzionismo! riduzionismo volgare e fascista!"). Alla fine la cosa assunse i connotati di una faida (sulla quale esiste un libro di Kim Sterelny): Gould si sentiva come un Galileo incompreso, osteggiato dal dogmatismo dei colleghi "fondamentalisti darwiniani" che non volevano aiutarlo a rivoluzionare la disciplina. Gli altri scienziati lo vedevano perlopiù come un tipo strano e dal brutto carattere, e un cavallo di Troia dei creazionisti (si veda un articolo di John Tooby e Leda Cosmides in replica a quello precedentemente linkato).

Ma soprattutto Gould divenne, suo malgrado, il paladino e l'eroe degli "alternativi", quelli che ancora oggi sostengono che in fondo "la teoria dell'evoluzione è solo una teoria, non un fatto comprovato". Quelli che "la scienza non deve chiudersi a riccio nella difesa dei suoi dogmi, ma rimettere sempre in discussione le proprie premesse". Sempre? Siamo proprio sicuri? Ma non sarà uno spreco di risorse perdere tanto tempo a cercare di confutare una teoria che sappiamo al 99,9% essere vera, quando ancora non sappiamo un sacco di cose su come un organismo cresce e si sviluppa? quando ancora dobbiamo trovare una cura contro il cancro?

Ma che cosa fanno, in fondo, i vari Steven Jones, i Massimo Mazzucco, i Roberto Giacobbo , o addirittura i Dino D'Alessandro di questo mondo, se non "scienza ironica" (è un appellativo molto gentile, lo so)? Roberto Giacobbo, ad esempio: lui sa benissimo che le profezie Maya non parlano di una fine del mondo nel 2012 (spero lo sappia), ma se ne prendesse atto non potrebbe condurre le sue interessantissime e avvincenti trasmissioni. Ovvio che i cerchi nel grano sono fatti da buontemponi, ma che gusto c'è? Certo che il feto di alieno abortito è un coniglio scuoiato, ma non è divertente. Ragazzi, è una scocciatura avere tutte le risposte, una vera noia!

E finché si parla di cerchi nel grano e delle trasmissioni di Giacobbo la cosa potrebbe anche sembrare innocua. Lo è un po' di meno quando a quasi un decennio di distanza dagli attentati dell'11 settembre, dopo che sono state scritte migliaia di pagine da parte di centinaia di scienziati e ingegneri, dopo che sono state fatte tutte le analisi possibili, e raccolte tutte le prove possibili, qualcuno continua a chiedere "una nuova commissione d'inchiesta indipendente" sui fatti. Come se la verità fosse una cosa transitoria, che ieri era in un modo ma domani potrebbe essere in un altro. Facciamone altre dieci di inchieste, spendiamo altri miliardi di dollari: i parenti delle vittime meritano di essere presi in giro a spese dei contribuenti da dei tizi la cui ultima preoccupazione è la ricerca della verità.

E per non parlare di un'altra specie di ciarlatani ancor più pericolosa, i guaritori, che si approfittano di un effettivo ritardo nella ricerca medica contro alcuni tipi di malattie, per proporre i loro rimedi medioevali, al grido di "tutto va bene" purché non sia medicina ufficiale e sostenuto dall'evidenza empirica (che noia, il processo di verifica delle ipotesi). E questo post purtroppo si conclude in una maniera amara, e imprevista, perché ho appena saputo con sommo sconcerto che uno di questi ciarlatani è stato invitato nella mia città a parlare della sua terapia a base di bicarbonato contro tutti i tipi di cancro. Un tizio che è già stato condannato in primo grado per truffa e omicidio colposo, e radiato dall'albo dei medici, terrà una conferenza sulla teoria "il cancro è un fungo", invitato dagli amici di David Icke (l'anti-rettiliano), ospitato in una sala del dopolavoro ferroviario. In fondo in fondo spero che Giacobbo abbia ragione.

mercoledì 18 novembre 2009

come vanno le cose?

Ciao!! Come vanno le cose?
Sto bene. Ora ho tempo libero per rispondere a voi!
Spero che tu ancora ricordi di me? Voi e ho incontrato in un sito di incontri.
Tu mi hai dato il tuo indirizzo e-mail. Ho lavorato in modo non poteva rispondere immediatamente! Ma ora posso comunicare con te in qualsiasi momento!

Scrivo a voi, le loro posti di lavoro. Chiedo che voi avete risposto alla mia e-mail privata:

indirizzoinventato@yahoo.com

Se mi rispondi allora posso inviarti le loro foto e raccontare di piu su di te.
con impazienza devo aspettare per una risposta! Ekaterina!


Ciao Ekaterina! Certo che mi ricordo di te, tu devi essere quella che continua a commentare sul mio blog, esprimendo apprezzamenti profondi come “imparato molto”, “quello che stavo cercando, grazie”, e soprattutto “La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu”.
A dire il vero non sono troppo sicuro di ricordare in quale sito di incontri ci siamo già conosciuti, ma forse ti riferisci a quel forum sul marxismo, nel quale ti avevo dato il mio indirizzo e-mail nel caso tu avessi voluto dei chiarimenti, eventualmente anche di persona, riguardo al materialismo dialettico.
C'ero rimasto male che non avevi risposto, sai? Soprattutto dopo che ti avevo spedito le foto della mia collezione di cimeli sovietici il cui pezzo forte era costituito da un baffo di Stalin perfettamente conservato. Ti avevo scambiato per una ragazza superficiale e consumista, che bada solo alle cose frivole.
Sono lieto di apprendere che mi sbagliavo, e che invece sei solo stata tenuta occupata dal tuo lavoro di guardiaboschi. Ti prego, spediscimi le foto che hai promesso. Solo, ti chiedo di farlo al seguente indirizzo (motivi di riservatezza):
info@giuliettochiesa.it
Te l'ho mai detto che mi piacciono molto le ragazze russe? Sento che questo è l'inizio di una lunga amicizia.

mercoledì 11 novembre 2009

parole

In origine nella lingua inglese la parola "man" (dal germanico "mann"), era neutra riguardo al genere, e significava solo "appartenente alla specie umana". Per dire "uomo" (nel senso di esemplare maschio adulto della specie umana) e "donna", si usavano le due parole "wer" e "wif".

"Wer" è ovviamente imparentato col latino "vir", di cui rimane traccia in aggettivi odierni come "virile" (da non confondere con "virale", che viene da "virus", cioè "veleno"). Nella lingua inglese invece sopravvive in termini composti come "werewolfe", che è appunto un uomo (evidentemente maschio) che si trasforma in lupo durante le notti di luna piena. Quando si tratta di una donna, si è costretti a ricorrere a locuzioni quali "she wolf", come nel film Ilsa, She Wolf of the SS (meglio dell'ossimorico "she werewolfe").

"Wif" invece si è trasformato in "wife", che oggi significa più "moglie" che "donna adulta", ma del resto anche da noi, fino a pochissimo tempo fa, una donna adulta non sposata rimaneva per sempre "signorina". Il fatto è che a un certo punto, con l'evoluzione della lingua, il termine "wer" da solo è praticamente sparito, sostituito proprio da "man", mentre per dire "donna" si è fatto sempre più ricorso al termine composto "wif-man", poi divenuto "woman" (un'evoluzione simile è avvenuta anche nella lingua latina, dove il termine "homo", prima universale, ha poi assunto connotati di genere).

"Woman" quindi deriva dall'unione di un termine riferentesi solo ed esclusivamente al genere femminile ("wif"), con un termine neutro, e non deriva assolutamente dalla parola che significa "uomo" nel senso di "maschio adulto". Così come non ha nessun connotato di genere la parola "man" in termini composti come "postman" (postino), "salesman" (commesso), o "mankind" (umanità). Il che significa che gli adepti del politicamente corretto che vorrebbero che noi oggi usassimo, parlando inglese, termini come "postperson", "salesperson", o peggio ancora "personkind", non sono solo dei moralisti bigotti e repressivi, ma sono anche un po' ignoranti.

C'è spesso l'ignoranza dietro questo tipo di crociate, ma se qualche volta appaiono solo come velleità inoffensive di un gruppuscolo di fanatici, che a un termine come "basso" vorrebbero magari sostituire espressioni ridicole come "diversamente verticale" può anche capitare, però, che vinca l'ignoranza, e infatti è successo ad esempio che grazie al concorso di ignoranza (in buonafede) di molte persone, un termine una volta inoffensivo come "negro" è stato ormai abolito dalla lingua italiana.

Non che io lo userei, nelle condizioni attuali (pur preferendolo ad "abbronzato"), perché non ci posso fare nulla: il termine ormai è insultante, ma non posso neanche ignorare il fatto che lo è diventato solo a causa della malizia della gente, e che così si è perso un pezzetto di lingua italiana. Il motivo per cui "negro", si dice, non va bene, è che è la traduzione dell'americano "nigger", quello sì avente un valore spregiativo (tranne quando è usato dai neri stessi, ma quella è un'altra storia).

La quale come spiegazione è molto curiosa, visto che l'America è stato scoperta solo nel 1492, e la deportazione degli schiavi è cominciata poco dopo, mentre il termine "negro" è attestato nella lingua italiana molto prima, e deriva piuttosto dal latino "niger", cioè nero. Il Petrarca infatti la usa già sia nel significato di "nero" sia nel significato di "persona appartenente ad un'etnia di origine africana e di pelle scura", poi diventato predominante.

Vorrei far notare che il termine, per quanto offensivo possa sembrare, non ha sinonimi altrettanto efficaci nella nostra lingua: "nero", per l'appunto è solo un colore, e non si riferisce in modo specifico alla pigmentazione della pelle. "Di colore" non vuol dire niente (quale colore? verde? viola?). "Africano" o "afro-americano", sono tentativi di catturare al massimo l'estensione della parola originaria, ma a parte il fatto che non ci riescono è ovvio che significano altro. Quindi in buona sostanza siamo costretti, per riferirci ai negri, ad usare un termine che in realtà significa altro, e lo sappiamo benissimo. Ci tocca dire "nero", ma con quell'espressione un po' imbarazzata e complice che il nostro ascoltatore deve cogliere e che significa "sai, in realtà intendo dire negro, ma non si può, quindi capiscimi".

Comunque è ovviamente "nigger", casomai, che viene da "negro" (tramite lo spagnolo), e si dà il caso che in origine non era considerato offensivo neppure nella lingua inglese, essendo usato con tranquillità anche dagli abolizionisti (come ne La capanna dello Zio Tom). Ma quando si cerca di sostituire una parola con un'altra, quasi sempre, il problema non è affatto nella parola, è nella cosa. Voglio, dire, se certi Americani del Sud si divertivano a mettersi un cappuccio bianco in testa per andare a linciare i neri, significa che non ne avevano una grande considerazione, e questo in maniera assolutamente indipendente da come li chiamavano, o sbaglio?

Il motivo per cui lo spazzino è diventato operatore ecologico è che nessuno sogna, nella vita, di fare un lavoro umile come lo spazzino, ma allora è anche improbabile che improvvisamente tutti muoiano dalla voglia di fare l'operatore ecologico. Quindi cosa succederà quando tutti avranno imparato a chiamare lo spazzino "operatore ecologico"? Niente, succederà che dovremo trovare un termine ancora più annacquato, perché "operatore ecologico" verrà percepito come degradante. Vedi "handicappato", poi diventato "portatore di handicap", poi "invalido", poi "disabile", poi "diversamente abile", che è un capolavoro di ipocrisia. Per rubare una battuta a Uriel, se un tipo sulla sedia a rotelle è diversamente abile, Rita Levi Montalcini cos'è, diversamente cretina?

Ancora più odioso il fatto che in televisione vengano trasmessi film e notiziari con i sottotitoli per "non udenti" designando per negazione una comunità di persone che non hanno nessun problema a definirsi sorde. Qui però si potrebbe anche cercare il rovescio della medaglia, e partendo dal fatto che una certa minoranza ha tutto il diritto di definirsi nel modo che preferisce, provare a indicare, invece, un qualche esempio positivo di riforma lessicale studiata a tavolino, e di successo.

Il caso più famoso è quello di "gay" che sostituisce gli effettivamente antipatici "frocio", "finocchio", "buco" e via dicendo, nonché l'asettico "omosessuale" (a proposito di ignoranza, c'è pure chi ha coniato il termine "donnasessuale" per le lesbiche). "Gay" vuol dire allegro, giocondo, e quindi restituisce un'immagine positiva, al di là del fatto che esistono anche omosessuali musoni e tristissimi. Anche se non è chiaro il momento esatto in cui il termine ha cominciato ad essere usato per riferirsi in modo preciso all'omosessualità, non c'è dubbio che si è trattato del colpo pubblicitario del secolo (in precedenza il termine aveva piuttosto dei connotati generici di promiscuità sessuale, si pensi alle nostre "donnine allegre").

Tanto che la strategia è stata copiata, in modo volontario e consapevole, dagli atei. Nel 2003 in California infatti, per iniziativa di Paul Geisert e Mynga Futrell, è nato il movimento "The Brights", parola che dovrebbe riunire, in un nuovo scatto di orgoglio, "atei, agnostici, scettici, e liberi pensatori" (appelli in favore del movimento sono stati pubblicati da pesi massimi come Richard Dawkins e Daniel Dennett). "Bright" significa "brillante, luminoso", quindi rimanda sia a un'immagine solare, positiva, sia a una certa connotazione di intelligenza e sagacia ("una soluzione decisamente brillante"). Inoltre richiama la terminologia del secolo dei Lumi, quindi gli ideali negletti che furono di Voltaire e Diderot. In effetti non credo che potrebbe esistere una parola migliore, anche se gli adepti ne raccomandano l'uso come sostantivo ("I am a bright"), e non come aggettivo, perché "I am bright" potrebbe suonare arrogante.

Poi per continuare il post potrei discutere di altre parole che in effetti è inopportuno usare, tipo "mongoloide", e per ottimi motivi. Oppure di quelle lingue (non parole, ma interi linguaggi) che risultano essere davvero state create (o ricreate) a tavolino, come è il caso dell'ebraico moderno, in barba al dogma secondo cui "non si può fare perché una lingua è sempre creazione spontanea che emerge dallo spirito di una nazione", e del perché secondo me l'esperanto è un tentativo sottovalutato di abbattere le barriere linguistiche. Ma direi che vi è materia per altri post futuri, se ne avrò voglia. Comunque sono contento di aver avuto la scusa di inserire la locandina di quel film, che adesso andrò a vedermi.

P.S. Ma poi, come ho fatto a non pensarci prima?

lunedì 9 novembre 2009

Ich bin ein Berliner



«Sono fiero di essere venuto in questa città come ospite del vostro illustre sindaco, che ha simboleggiato nel mondo lo spirito combattivo di Berlino Ovest. E sono orgoglioso di visitare la Repubblica Federale con il vostro illustre Cancelliere che da così tanti anni guida la Germania nella democrazia, nella libertà e nel progresso, e di essere qui in compagnia del mio compatriota Generale Clay, che è stato in questa città durante i suoi momenti di crisi, e vi tornerà ancora, se ce ne sarà bisogno.

Duemila anni fa, il più grande orgoglio era dire "civis Romanus sum". Oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire "Ich bin ein Berliner".

Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista. Che vengano a Berlino.

Ce ne sono alcune che dicono che il comunismo rappresenta l'onda del progresso. Che vengano a Berlino.

Ce ne sono alcune che dicono, in Europa come altrove, che si potrebbe lavorare con i comunisti. Che vengano a Berlino.

E ce ne sono anche certe che dicono che sì il comunismo è un sistema malvagio, ma consente di realizzare il progresso economico. Lass' sie nach Berlin kommen. Che vengano a Berlino.

La libertà ha molte difficoltà e la democrazia non è perfetta. Ma noi non abbiamo mai costruito un muro per tenere dentro la nostra gente e impedir loro di lasciarci.

Voglio dire a nome dei miei compatrioti che vivono a molte miglia da qua dall'altra parte dell'Atlantico, che sono distanti da voi, che sono orgogliosi di poter dividere con voi la storia degli ultimi 18 anni.

Non conosco nessun paese, nessuna città, che è stata assediata per 18 anni e ancora vive con vitalità e forza, e speranza e determinazione come la città di Berlino Ovest. Sebbene il muro sia la più grossa dimostrazione del fallimento del sistema comunista davanti al mondo intero, questo non ci rende felici; esso è, come il vostro sindaco ha detto, una offesa non solo contro la storia, ma contro l'umanità, perché separa le famiglie, divide i mariti dalle mogli, ed i fratelli dalle sorelle, divide le persone che vorrebbero stare insieme.

Quello che è vero per questa città è vero per la Germania: una pace reale e duratura non potrà mai essere assicurata all'Europa finché ad un tedesco su quattro sarà negato il diritto elementare dell'uomo libero: prendere una decisione libera. In 18 anni di pace e benessere questa generazione di tedeschi ha guadagnato il diritto ad essere libera, incluso il diritto di unire le famiglie, a mantenere la propria nazione in pace, in buoni rapporti con tutti.

Voi vivete in una isola difesa di libertà, ma la vostra vita è parte della collettività. Consentitemi di chiedervi, come amico, di alzare i vostri occhi oltre i pericoli di oggi, verso le speranze di domani, oltre la libertà della sola città di Berlino, o della vostra Germania, per promuovere la libertà ovunque, oltre il muro per un giorno di pace e giustizia, oltre voi stessi e noi stessi per tutta l'umanità. La libertà è indivisibile e quando un solo uomo uomo è reso schiavo, nessuno è libero.

Quando tutti saranno liberi, allora potremo guardare al giorno in cui questa città sarà riunita, e così questo paese e questo grande continente europeo, in un mondo pacifico e pieno di speranza. Quando quel giorno finalmente arriverà, e arriverà, la gente di Berlino Ovest sarà orgogliosa del fatto di essere stata al fronte per quasi due decenni.

Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E, dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire "Ich bin ein Berliner"».


John Fitzgerald Kennedy, Berlino, 26 giugno 1963

giovedì 5 novembre 2009

Humpty Dumpty e i Puffi (passando per Valeria Marini e James Joyce)


— Io non so che intendiate per "gloria", disse Alice.
Unto Dunto sorrise con aria di compatimento..
— Certo che non lo intendi... se non te lo dico. Eccoti un magnifico trionfale argomento.
— Ma "gloria" non significa un magnifico trionfale argomento, — obiettò Alice.
— Quando io uso una parola, — disse Unto Dunto in tono d'alterigia, — essa significa ciò che appunto voglio che significhi: nè più nè meno.
— Si tratta di sapere, — disse Alice, — se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
— Si tratta di sapere, — disse Unto Dunto, — chi ha da essere il padrone... Questo è tutto.
Alice era così impacciata che non disse nulla, e dopo un minuto Unto Dunto ricominciò:
— Alcune di esse sono intrattabili... specialmente i verbi sono orgogliosissimi... con gli aggettivi si può fare ciò che si vuole, ma non con i verbi... Però io so maneggiarle tutte quante. Impenetrabilità! Ecco che dico!
— Vorreste dirmi, per favore, — disse Alice, — che cosa significa questo?
— Ora parli come una bambina ragionevole, — disse Unto Dunto, con un'aria molto soddisfatta. — Intendevo con "impenetrabilità" d'averne avuto abbastanza di questo argomento e che sarebbe stato opportuno che mi avessi detto che pensavi di far dopo, perchè suppongo che tu non intenda fermarti qui vita natural durante.
— È un voler far significare troppe cose a una parola sola, — disse Alice in tono pensoso.
— Quando a una parola faccio far tanto lavoro, — disse Unto Dunto, — la pago di più.
— Oh! — disse Alice, troppo confusa per fare anche una sola osservazione.
— Ah, dovresti vederle venirmi intorno la sera del sabato, — disse Unto Dunto, gravemente scotendo la testa da un lato all'altro, — per aver la paga.


Quando Alice, in Attraverso lo specchio, incontra Humpty Dumpty, si scontra con la sua peculiare teoria del significato: "quando io uso una parola, essa significa appunto ciò che io voglio che significhi". È una visione solipsistica certamente accettata da pochi studiosi del linguaggio: il linguaggio è un'attività sociale, chi parla normalmente desidera farsi comprendere, e quindi non può avere un lessico tutto privato non condiviso da nessun altro. Il filosofo Hilary Putnam, inoltre, sostiene di non saper distinguere un olmo da un faggio, il che vuol dire che nemmeno lui sa esattamente cosa intende quando usa una delle due parole.

All'opposto di questa visione, c'è quella che vede il significato di una parola come imposto da un particolare tipo di autorità linguistica, come ad esempio un dizionario: la parola "olmo" non denota un faggio, ma denota proprio gli olmi, perché così è scritto nel vocabolario. La difficoltà insita in questa visione è che gli estensori dei dizionari normalmente non considerano se stessi come se stessero "istituendo" il significato di una parola, ma piuttosto come se lo stessero semplicemente "registrando". Qual è quindi l'autorità originaria? Chi ha deciso per primo che la parola "olmo" denota proprio gli olmi?

Molti direbbero che lo decide la comunità linguistica, ma anche questa risposta è destinata a suscitare ulteriori interrogativi. Cosa vale come comunità linguistica? Una sola persona non può costituire una comunità linguistica, perché altrimenti ricadremmo nel caso di Humpty Dumpty. Ma in virtù di quale motivo due persone, o tre, o centomila, avrebbero l'autorità che manca a una sola persona? E in che modo una comunità "decide" il significato delle parole? In quali occasioni? Attraverso quali procedure? Come difende la propria autorità? Di certo non attraverso il voto democratico.

Ma soprattutto, qual è la comunità cui far riferimento per comprendere il significato di una parola italiana? Ovviamente è quella dei parlanti italiano, solo che per decidere che uno sta parlando italiano dobbiamo prima conoscere i significati corrispondenti alle parole che usa, e quindi torniamo al punto di partenza: avevamo stabilito che sono gli italofoni a decidere cos'è l'italiano corretto, ma per identificare gli italofoni dobbiamo prima avere un criterio che ci permetta di capire se parlano effettivamente un italiano corretto.

Prendiamo un caso leggermente diverso da quello di Humpty Dumpty: Valeria Marini (nella versione di Sabina Guzzanti).



"Questo è un attentato terronistico", "chi mi conosce sa che ho una grande unanimità interiore", "gli intellettuali sono troppo cervicali", "sono veramente scremata", "mai una voce fuori dal colon". Che lingua è? È italiano oppure no?

In un certo senso lo è, perché tutti coloro che parlano italiano la capiscono benissimo, e si rendono conto che per "cervicali" Valeria Marini intende "cerebrali" e che per "colon" intende "coro". Eppure non è italiano, perché nella nostra lingua quelle parole hanno altri significati. Ciò che differenzia Valeria Marini da Humpty Dumpty è che lei non usa, consapevolmente, un linguaggio privato, ma si sforza proprio di parlare un italiano corretto, e in virtù di questo fatto le sue parole non significano ciò che lei vorrebbe fargli significare.

Ma prima di liquidare quella di Valeria Marini come semplice ignoranza, sarebbe opportuno ricordare che ci troviamo tutti, chi più chi meno, nella stessa posizione. Nessuno conosce davvero tutti i vocaboli della lingua italiana, e probabilmente tutti ogni tanto usiamo un vocabolo nella maniera sbagliata (come Putnam ha sinceramente ammesso a proposito degli olmi e dei faggi). Quindi forse nessuno di noi parla italiano, nel senso in cui non lo parla Valeria Marini.

Il che equivale a dire che, in un certo senso, la lingua italiana non esiste, se davvero essa si identifica a partire da una comunità di parlanti. Ma se la lingua italiana non esiste, è sbagliato anche dire che qualcuno la parla in modo scorretto. Tutti gli usi sono leciti, il che sembra farci ritornare di nuovo ad Humpty Dumpty.

Un modo per uscire da questa impasse potrebbe essere quello di segnalare il fatto che il linguaggio di Valeria Marini, pur essendo nella pratica scorretto, a differenza di quello di Humpty Dumpty contiene un implicito rimando a un "canone", a un'autorità linguistica. Come si diceva, il punto non è se Valeria Marini parli effettivamente italiano, ma che abbia intenzione di farlo.

In questo modo però, rimaniamo con la difficoltà di stabilire la fonte di tale autorità, e in più abbiamo un altro problema. Volevamo infatti eliminare gli elementi di completa soggettività e arbitrio personale presenti nel linguaggio di Humpty Dumpty, ma a questa soggettività facciamo nuovamente ricorso nel momento in cui stabiliamo che sono le intenzioni di Valeria Marini che decidono la questione.

Prendiamo un caso ancora diverso:


S'era a cocce e i ligli tarri

girtrellavan nel pischetto,

tutti losci i cincinarri

suffuggiavan longe stetto.


Si tratta, di nuovo, di un passo tratto da Attraverso lo specchio, di Lewis Carroll, ovvero la prima strofa del poema sul Jabberwocky. Neppure questa è lingua italiana, anche se vi somiglia. Però non c'è dubbio che la strofa è pensata per essere letta da chi parla italiano, anche perché altrimenti non si capirebbe la necessità di tradurla dall'originale inglese (che a sua volta non è proprio inglese).

Per il significato delle parole, potremmo rivolgerci di nuovo ad Humpty Dumpty, che afferma di poter "spiegare tutte le poesie che sono state scritte... e molte altre che non sono state scritte ancora". Ad esempio "cocce significa le dieci della mattina, l'ora in cui si comincia a cuocere i cibi per la colazione" e "girtrellare vuol dire rotare come un giroscopio e far buchi come un trapano", mentre il pischetto è "la zolla d'erba intorno alla meridiana. È detta pischetto perchè si espande un po' innanzi e un po' dietro la meridiana...". Ma in realtà non abbiamo motivo di fidarci di lui, non essendo nemmeno l'autore della poesia.

Un caso simile è quello di James Joyce:

The fall (bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonn-thunntrovarrhounawnskawntoohoohoordenenthurnuk!) of a once wallstrait oldparr is retaled early in bed and later on life down through all christian minstrelsy. The great fall of the offwall entailed at such short notice the pftjschute of Finnegan, erse solid man, that the humptyhillhead of humself prumptly sends an unquiring one well to the west in quest of his tumptytumtoes: and their upturnpikepointandplace is at the knock out in the park where oranges have been laid to rust upon the green since devlinsfirst loved livvy.


Si potrebbe sostenere che qui abbiamo una volontaria deviazione dal canone, e che quindi il linguaggio esaminato, pur non essendo inglese, è parassitario della lingua inglese. Bisogna conoscere l'inglese, e nel caso di Joyce anche molto bene, per poterlo comprendere (si notino, fra l'altro, i velati riferimenti alla triste storia di Humpty Dumpty nel passo sopra riportato). Ma, ancora una volta, dov'è il canone?

Umberto Eco, analizzando il linguaggio dei Puffi (nel saggio Schtroumpf und Drang contenuto in Sette anni di desiderio) sostiene che il canone non è costituito tanto dalla competenza lessicale dei parlanti o dei lettori, ma da una certa conoscenza contestuale o "enciclopedica" ("Dizionario vs. Enciclopedia") del mondo del parlante. Si prenda questo discorso, tratto da un albo a fumetti di Peyo:

Domani, pufferete alle urne per puffare colui che sarà il vostro puffo. E a chi pufferete il vostro voto? A un puffo qualsiasi che non puffa al di là della punta del proprio puffo? No! Vi serve un puffo forte sul quale possiate puffare! E io sono quel puffo! Alcuni – che qui non pufferò – pufferanno forse che io puffo solo la gloria... questo non è affatto puffo! È il puffo comune che io voglio e mi pufferò fine allo stremo delle puffe se occorre affinché la puffa torni a regnare nei nostri puffi. E quel che adesso puffo, lo pufferò, ecco la mia promessa! Ecco perché domani tutti insieme, la puffa nella puffa, voterete per me! Viva Puffilandia!


La possibilità di capire questo discorso deriva dal fatto che esso è altamente stereotipato, e fa uso di locuzioni che richiamano altri modi di dire presenti nella nostra lingua, e spesso usati in contesti di tipo elettorale. Qualcosa del genere vale anche per Joyce, ma in modo un po' diverso, in quanto per comprenderlo è necessaria non solo la conoscenza quasi perfetta della lingua inglese, ma anche la storia e la letteratura universale.

Umberto Eco con la sua teoria dell'interpretazione letteraria (contenuta ad esempio in Lector in fabula) sostiene che ogni testo, a prescindere dalle intenzioni soggettive dell'autore empirico, postula un Lettore Modello (distinto dal lettore empirico), che deve ricostruire i significati inseriti nel testo dall'Autore Modello, a partire dalle conoscenze enciclopediche implicite, anche se non espressamente formulate, nel testo.

Ad esempio per capire Dante e il sonetto "tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quando ella altrui saluta", occorre tener presente non tanto le intenzioni di Dante nello scrivere il sonetto, ma il fatto che quasi nessuno dei termini presenti in questo celebre incipit ha oggi esattamente lo stesso significato che aveva ai tempi di Dante ("gentile", "onesta", "pare", "donna"). Non occorre infilarsi nella testa di Dante, ma occorre infilarsi nei panni di un ipotetico uomo tipico fiorentino e colto del tredicesimo secolo.

Sarà, però a me che sono discepolo di Guglielmo da Occam questa proliferazione di enti (Autore Modello, Lettore Modello, etc.), non piace molto. Inoltre Eco sacrifica una teoria quasi certamente falsa, ma dotata di una certa semplicità, solo per approdare a una teoria irrimediabilmente vaga e fumosa. Se è praticamente certo infatti che non esiste un canone linguistico di tipo Dizionario che ancori alle parole significati univoci e fissati una volta per tutte, e valido per ogni interlocutore (dati i confini mobili della nostra lingua), ancora più difficile risulta compilare un'Enciclopedia che ci permetta di comprendere un testo.

No, per me che sono un po' terra terra, a contare davvero sono solo l'autore empirico e il lettore empirico. Il che significa concedere ad Humpty Dumpty che, alla fine dei conti, potrebbe non avere tutti i torti. Dopo tutto dire che occorre conoscere il contesto culturale nel quale la conversazione ha luogo per comprenderla, è solo un modo complicato per dire che occorre conoscere il complesso di credenze di chi parla, avere un'idea di quel che c'è nella sua testa, e non in un altrove che non è codificato da nessuna parte.

Ma allora dove sbaglia Humpty Dumpty? Forse solo in una cosa. Egli non può essere "il padrone", neanche pagando le parole il doppio, perché c'è almeno un'altra persona che ha diritto di avere voce in capitolo: Alice, colei alla quale Humpty Dumpty si sta rivolgendo. Egli non può vendere ad Alice le sue parole con i significati imposti da lui, in quanto Alice ha diritto di rifiutarli (ma è anche libera di accettarli).

La situazione ha un suo parallelo nell'attività economica. Un panettiere ha il diritto di fissare il prezzo che vuole per le sue pagnotte? Certo che ce l'ha, ma poi non si deve lamentare se nessuno compra il suo pane perché ha fissato un prezzo troppo alto. Qual è il giusto prezzo per un dato bene? È semplicemente quello deciso dal libero mercato, non esiste nessuna autorità che può imporlo (se non a danno della comunità). Può esistere un listino di prezzi compilato da enti come l'Istat, che può anche aiutarci a capire se qualcuno cerca di venderci qualcosa a un prezzo troppo elevato, ma tali enti in realtà non decidono niente, quella è solo la registrazione di una prassi già consolidata.

Il significato di una parola, quindi, è qualcosa che si ottiene attraverso la "contrattazione" fra parlante e interlocutore. Non è un qualcosa che esista prima della comunicazione, così come non esiste un prezzo del pane prima della compravendita. Il pane prodotto per uso esclusivamente personale ha un costo, il quale è certamente connesso col suo prezzo, ma non si identifica con esso. La contrattazione che stabilisce il prezzo, comunque, non avviene fra chi parla e un'intera comunità. Il prezzo del pane è piuttosto il risultato di innumerevoli contrattazioni individuali, alcune delle quali sfuggono alla nostra sfera d'influenza, ma dalle quali nessuno è escluso.

Trovo che la filosofia del linguaggio, oltre ad essere interessante in sé, offra molti spunti di riflessione per quanto riguarda altre discipline, come l'economia o addirittura la politica. Ci si potrebbe anche chiedere, ad esempio, se le leggi scritte nei nostri codici vengono create ex novo dal legislatore, o se il suo compito dovrebbe essere piuttosto quello di scoprirle, e dalla risposta a questa domanda dipenderebbero molte cose. Ma questa è un'altra storia.

P.S. Excusatio: se qualcuno trova che i miei post stiano diventando sempre più lunghi e pesanti, io ho le stesse perplessità.