giovedì 10 luglio 2014

contro l'obbligo scolastico 2



Mi sono reso conto che prima di continuare il discorso sui presunti benefici dell’istruzione di base e l’alfabetizzazione di massa obbligata occorre affrontare una questione collaterale che rischia di ergersi come un muro contro qualsiasi tentativo empatico di comprensione delle altrui ragioni, ovvero quella sui diritti dell’infanzia.
Pare strano, ma esiste una convenzione tacita per cui qualsiasi ragionamento espresso in termini di maggiore o minore libertà esclude a priori i bambini. Se in molti sono d’accordo con l’idea che le persone devono essere libere di compiere le loro scelte – senza costrizioni esterne anche quando imposte per il loro bene – sono anche d’accordo nell’escludere i bambini dal novero delle persone con facoltà di autodeterminarsi, cosa che legittimerebbe l’intervento statale a loro tutela: i bambini sono sì detentori di diritti, ma nel senso in cui per gli animalisti lo sono gli animali, quindi solo come soggetti passivi, senza voce in capitolo.
Mi rendo conto che si tratta di un argomento delicato e complesso, che impone una riflessione il meno possibile superficiale. Mi propongo di affrontarlo secondo due direttrici: nella prima parte cercherò semplicemente di mostrare come il ruolo dello Stato possa essere demandato senza troppo drammi a chi ha sempre ritenuto di avere questo potere decisionale nei confronti delle generazioni più giovani, ovvero la famiglia (termine peraltro vago, che può includere solo i genitori ma anche la comunità familiare allargata fino a includere il vicinato).
Nella seconda parte, ben più radicale e importante nelle sue intenzioni, tenterò invece di rovesciare l’assunto classico della sociologia che vede l’infanzia solo come protagonista passiva del fenomeno della socializzazione, quindi come puro oggetto di sperimentazione, come semplice utilizzatrice finale delle manovre degli ingegneri sociali aventi il fine di “integrare” il giovane nella cittadinanza, invece che attiva protagonista e partecipante della vita culturale di una certa civiltà in un dato momento.

Il processo di istituzionalizzazione della vita infantile è coinciso con una sfiducia crescente nelle capacità dei genitori di educare, crescere, e garantire un’esistenza dignitosa alle propria prole. Nella psicologia dello sviluppo di Freud e poi dei vari epigoni la famiglia è diventata anzi l’origine di tutte le problematiche e le turbe caratteriali di qualsiasi individuo. Ogni problema riscontrabile nella vita adulta è sicuramente attribuibile a una famiglia “disfunzionale” (a quanto pare occorre sempre più essere “funzionali” in molteplici campi per avere il diritto di esistere), il che spiega la fretta da parte della società di strappare i bambini dal controllo delle famiglie per porli sotto la sua tutela.
Il fenomeno è coinciso anche con un processo di “scoperta” dell’infanzia che – sebbene le concezioni dell’infanzia siano passate innegabilmente sotto importanti mutamenti nel corso degli ultimi secoli – ha una natura profondamente ambivalente che viene talvolta raccontata da una visuale limitatissima.  Da un lato si racconta spesso un’edificante favoletta di progresso secondo cui l’infanzia viene sempre più strappata a un passato fatto di barbarie, di violenze, di negligenze, di gravissimi abusi perpetrati nell’indifferenza generale: come scriveva Lloyd deMause nel 1974 “la storia dell'infanzia è un incubo dal quale solo di recente abbiamo cominciato a destarci. Più si va addietro nella storia, più basso appare il grado di attenzione per il bambino, e più frequentemente tocca a costui la sorte di venire assassinato, abbandonato, picchiato, terrorizzato, e di subire violenze sessuali”.[1] Edward Shorter arriva a sostenere che “le cure materne [the good mothering] sono un’invenzione della modernità, nella società tradizionale le madri consideravano lo sviluppo e la felicità dei minori di due anni con indifferenza, […] le madri non amavano molto i loro bambini”.[2]
Dall’altro lato si trascura di menzionare i lati oscuri, per l'appunto istituzionalizzanti, di questa scoperta. Lati che erano in realtà ben presenti proprio al pioniere degli studi riguardanti questo settore della storia della mentalità, cui si sono ispirati i sostenitori delle tesi discontinuiste,  fra cui i citati deMause e Shorter, ovvero Philippe Ariès: la tesi di Ariès (a sua volta ispirato dalle idee di Norbert Elias sul processo di civilizzazione[3]) era che la condizione dell’infanzia fosse peggiorata nel corso dell’era moderna, proprio a causa della sua scoperta. Secondo il suo punto di vista, il cui stampo sembra effettivamente relativistico all’eccesso, “nella società medioevale, che assumiamo come punto di partenza, il sentimento dell’infanzia non esisteva”, non esisteva cioè nessun concetto d’infanzia come stadio separato dell’evoluzione individuale, la “coscienza delle particolari caratteristiche infantili, caratteristiche che essenzialmente distinguono il bambino dall’adulto, anche giovane”.[4] I bambini erano visti semplicemente come adulti in miniatura, liberi di partecipare alla vita sociale degli adulti e di contribuire al reddito familiare col loro lavoro non appena ne fossero stati fisicamente in grado. Con l’invenzione dell’infanzia è cominciata anche la sua disciplina, il suo confinamento o messa in quarantena in luoghi separati dalla società (le scuole), il suo essere sottoposta a un rigoroso regime di premi e punizioni come conseguenza della sua condotta, col fine di “prepararla” alla vita adulta. E parallelamente hanno cominciato anche a svilupparsi le idee moderne sull’infanzia come momento magico e irripetibile da tutelare, conservare e proteggere dal brutto e prosaico mondo adulto (con l’ottimo risultato di allevare giovani sempre più terrorizzati e traumatizzati dall’entrata nella pubertà).
Abbiamo in realtà ottimi motivi (darwiniani, se non altro) per credere che in passato come oggi i genitori amassero i loro figli, piangessero per la loro scomparsa, che volessero il loro bene e cercassero di curare i loro interessi, oltre che al fatto che molto probabilmente esisteva una chiara coscienza della natura distinta e particolare dell’infanzia (cosa del resto che sarebbe stato difficile ignorare).[5]
Se le tesi di Ariès quindi sembrano implausibili sotto il profilo della psiche individuale risultano invece piuttosto convincenti se consideriamo come si è evoluta la gestione dell’infanzia come problema sociale, a livello politico-istituzionale. E sembra evidente che parte di questa evoluzione consiste nella collettivizzazione, la statalizzazione del capitale infantile, sottratto dalle mani dell’iniziativa privata familiare a causa della minaccia che i bambini stessi rappresentano[6]. Niente fa più paura di un bambino: anche il suo “tempo libero” è sempre più istituzionalizzato, organizzato secondo rigide prassi militaresche, inquadrato in gruppi di gioco, in attività ludico-sportive o educative che non lasciano spazio all’improvvisazione. Nel più recente stadio del processo i bambini, oltre che repressi e contenuti, diventano invisibili, pixellati, resi irriconoscibili, censurati come se fossero veicoli di infezioni e di idee malsane[7]. In un prossimo futuro nel libero Occidente potranno girare fuori dalle scuole solo indossando un burka, e il calo demografico delle società occidentali potrebbe essere spiegato come l’estremo tentativo da parte di un popolo di sottrarre i discendenti a una vita confinata nelle riserve.
Contemporaneamente, l’allevamento della prole è diventata una vera e propria scienza, o ancora meglio una tecnica, con i suoi esperti, i suoi manuali di riferimento, i suoi paradigmi a dire il vero piuttosto cangianti ma che hanno in comune l’idea dell’insufficienza dell’istinto, della naturalezza materna o paterna. Nuovamente, non si riesce a capire come l’umanità sia riuscita finora a sopravvivere ignorando i consigli dei puericultori. In un popolare programma televisivo alcune famiglie invitano addirittura delle “tate” in casa loro al fine di esporre la propria disfunzionalità genitoriale (in un format che si ripete identico anche per certi servizi commerciali come i ristoranti), con una fiducia che non può non preparare al totale e cieco affidamento del bambino alla scuola, ad altri esperti.
I genitori vivono in un costante conflitto tra raccomandazioni spesso confuse e contradditorie, alla ricerca di un’impossibile via di mezzo tra autoritarismo e permissivismo, tra i no che aiutano a crescere e i sì che aiutano l’autostima, tra la flessibilità e il rigore, tra la carenza d’affetto e l’affettazione dei sentimenti, consapevoli che il minimo errore si tramuterà in insanabili disturbi caratteriali che l’infante si porterà dietro tutta la vita, coscienti che cure parentali fornite con eccessiva freddezza possono portare all’autismo, che richieste confuse e ambivalenti possono condurre alla schizofrenia, che una relazione di attaccamento non sicuro nell’infanzia prepara l’infelicità sentimentale da adulti[8].
In un testo fondamentale che segna uno spartiacque nella storia della psicologia dello sviluppo, The Nurture Assumption[9], la studiosa Judith Rich Harris ha sfidato il dogma che modifiche e variazioni nel comportamento dei genitori possano plasmare il carattere dei bambini e determinare la loro stabilità psichica una volta adulti. In realtà i dati empirici, contrariamente a tutto quanto viene urlato dalla saggezza popolare, suggeriscono proprio l’opposto, ovvero che una volta separata la componente genetica non esiste nessuna correlazione fra il metodo educativo tenuto in casa dai genitori e l’eventuale riuscita dei figli. Questi cresceranno seguendo la loro strada, indifferenti ai troppi no o ai troppi sì.
Questo non significa che i bambini non possano subire gravi abusi da parte dei genitori, dai quali devono essere certamente protetti, né che i genitori non possano compiere scelte riguardanti il futuro dei figli destinate a danneggiarli, come la scelta di una scuola piuttosto che un’altra, o la scelta di non mandarceli per niente. Quello che ci si chiede è solo se l’interesse dei figli sia necessariamente e automaticamente tutelato in misura maggiore dallo Stato che dai genitori, se sia proprio doveroso dare per scontato che un figlio lasciato all’amore dei genitori sia un essere sfruttato e abusato, mentre il trattamento educativo obbligatorio che lo Stato ci riserva sia sempre compiuto nel nome dei più alti e disinteressati ideali.
Il lavoro infantile è diventato un abuso per legge, proprio a seguito dell’obbligo scolastico, ma forse troppo spesso si dimentica che anche la scuola è una forma di lavoro, un modo attraverso il quale i bambini contribuiscono alla crescita del paese, in primo luogo investendo su loro stessi, in secondo luogo non limitandosi a consumare ma producendo a loro volta conoscenza. La popolazione scolarizzata è la protagonista involontaria del più grande esperimento scientifico mai condotto, in violazione di qualsiasi carta dei diritti umani; nemmeno con i carcerati ci si può concedere tali libertà facendone delle cavie e senza fargli firmare un foglio di consenso informato. Il lavoro scolastico si sovrappone inoltre alle altre attività ludico-sportive organizzate che come dicevamo sono oramai anch’esse occasioni “formative” – non si deve sprecare neanche un minuto dell’esistenza del bambino – e spesso anche al lavoro domestico (cui giustamente i bambini collaborano): la giornata lavorativa del bambino può così raggiungere tranquillamente le 16 ore, senza nessun sindacato che scenda in sciopero.
Tutto questo al fine di socializzarlo, ovvero prepararlo ad assumere un ruolo nella collettività una volta diventato adulto, al tempo stesso neutralizzando la minaccia da lui costituita; qualcuno direbbe anche al fine del mantenimento non solo della società in generale – come vorrebbero i funzionalisti alla Parsons – ma anche del suo attuale assetto e stratificazione in classi, come dimostrerebbe la scarsa mobilità sociale effetto del sistema scolastico, ma riconosciamo che questo potrebbe essere un effetto non voluto e semplicemente frutto di maldestra pianificazione.
Quello che conta è che tutta questa pianificazione, tutto questo immenso esperimento, è condotto non solo privando i genitori della loro naturale potestà, ma soprattutto decidendo di ignorare del tutto il potenziale contributo del bambino non tanto in quanto singolo partecipante all’esperimento (laddove invece qualsiasi pedagogo insiste molto su una retorica di spontaneità e creatività da lasciargli, bontà sua), ma proprio in quanto categoria o gruppo sociale, portatore di interessi e di valori suoi propri, cosa che ci porta alla seconda parte del discorso.

Judith Rich Harris, per tornare alle sue ricerche, nel negare il contributo fornito dall’educazione dei genitori nello sviluppo della personalità del bambino non intende affatto, come potrebbe sembrare, affermare il primato della genetica sull’ambiente. Il fatto è che la genetica, pur di fondamentale e ovvia importanza, riesce a spiegare solo e all’incirca il 50% delle variazioni nei tratti caratteriali di una popolazione. Si è sempre pensato, quindi, senza andare a cercarne le prove, che il restante 50% fosse il contributo fornito dall’educazione degli adulti, cosa che appunto non sembra confermata da nessun dato. L’assunto è sempre che l’ambiente possa intervenire, nello spazio lasciato libero dai geni, modellando il carattere di un bambino come se fosse materia inerte e del tutto passiva, non in grado di reagire in maniera creativa alle sollecitazioni esterne.
Ma soprattutto, ci si è sempre ostinati a considerare lo sviluppo e la socializzazione da una prospettiva rigorosamente individualistica, quella del “bambino”, senza considerare “i bambini” in quanto gruppo, come collettività. Cosa che ha portato a trascurare l’apporto fondamentale fornito dal gruppo dei pari, non solo per quanto riguarda lo sviluppo della personalità, nella teoria della Harris, ma anche per quanto riguarda le trasformazioni culturali della società intera, come hanno evidenziato recentemente autori come William Corsaro[10].
I veri modelli di comportamento, i veri maestri di vita per un bambino sono i coetanei, è il gruppo dei pari. Un bambino non parla la lingua dei genitori, se immigrati, parlerà più e meglio la lingua dei compagni di scuola. Tenderà anzi a trasportare in casa, nell’ambiente domestico, modi di dire e comportamenti appresi fuori, da altri bambini. I genitori potranno eventualmente non approvare questi comportamenti (come le parolacce) e tentare di reprimerli, a volte con successo, ma solo entro le mura di casa: nel gruppo dei pari si parla la lingua dei pari e si adotta il codice morale dei pari. Il che significa che questi modi di dire e questi comportamenti, questi codici morali, tenderanno a essere fattori di trasformazione culturale pure al di fuori del gruppo, che i bambini non si limitano ad assorbire la cultura degli adulti, ma la reinterpretano secondo le loro esigenze, la rielaborano, e contribuiscono al suo farsi.
Chiunque sia mai stato in una classe di scuola elementare si sarà accorto di come i bambini adottino complesse strategie di identificazione nei valori del gruppo e di resistenza ai valori che gli “adulti” tentano di imporre loro. Si tratta di comportamenti spesso eroici di resistenza passiva, di pratiche di disobbedienza nei più piccoli gesti che servono a esprimere la solidarietà di classe, di rifiuto ostinato di assimilazione a una cultura “altra” dominante e imperialista, in qualche caso tentativi ingenui che si definiscono per pura opposizione, come il cercare e farsi piacere cose (programmi televisivi, fumetti) non “nonostante” ma proprio perché disapprovate dagli adulti, o il disprezzare classici della letteratura solo perché consigliati dal maestro e quindi identificati con cose noiose e scolastiche.
Insomma, bambini e adulti (i genitori, i maestri, i bidelli) costituiscono categorie sociali distinte, dagli interessi non coincidenti e spesso in conflitto, proprio come operai e impresari. È giunto il momento in cui questa categoria abbia il suo riconoscimento non solo da parte degli psicologi e dei sociologi, ma anche e soprattutto un riconoscimento politico. I bambini non possono essere solo un oggetto delle politiche di educazione, devono esserne al centro ed esserne soggetti partecipi. C’è soprattutto il bisogno di considerare non solo il futuro dei bambini, che è l’egoistico e programmato futuro del nostro mondo, ma il loro presente, che rappresenta il potenziale futuro del loro mondo, quindi di venire incontro alle loro esigenze di adesso, di considerarli appunto in quanto bambini, non solo in quanto cittadini in potenza.
La scuola dell’obbligo può essere considerata un modo per permettere l’incontro dei pari e quindi lo sviluppo di questa cultura, e il suo effetto potrebbe in effetti essere considerato salutare se l’alternativa fosse il rimanere chiusi in casa. Ma è in realtà soprattutto un modo per comprimerla, per non permettergli di svilupparsi secondo direzioni creative e autonome, di non lasciare che i bambini decidano liberamente le loro occasioni d’incontro, i tempi e i modi del loro apprendere, del loro giocare, del loro lavorare.
Bambini di tutto il mondo unitevi.

Segue (forse).


[1] L. deMause, The Evolution of Childhood, in Id. (a cura di), The History of Childhood, Harper and Row, 1974, trad, it., Storia dell’infanzia, Emme, 1983.
[2] E. Shorter, The Making of the Modern Family, University of Pennsylvania Press, 1975.
[3] Norbert Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, 1988.
[4] Philippe Ariès, L'enfant et la vie familiale sous l'ancien régime, Seuil, 1960, trad. it., Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Laterza, 1981. Riporto la citazione completa: “Nella società medievale, che assumiamo come punto di partenza, il sentimento dell’infanzia non esisteva; il che non significa che i bambini fossero trascurati, abbandonati o disprezzati. Il sentimento dell’infanzia non si identifica con l’affezione per l’infanzia: corrisponde alla coscienza delle particolari caratteristiche infantili, caratteristiche che essenzialmente distinguono il bambino dall’adulto, anche giovane. Questa coscienza non esisteva”.
[5] Le tesi di Ariès, deMause, Shorter, e altri sono sono state duramente contestate ad esempio da Linda Pollock nel volume Forgotten Children, Cambridge University Press, 1983, con argomenti che si rifanno oltre che a una più accurata lettura delle fonti storiche anche alla psicologia evoluzionistica e all’antropologia. Una visione più ottimistica e “continuista” è espressa anche da Barbara Hanawalt in Growing Up in Medieval London, Oxford University Press, 1995. Per una buona rassegna degli studi sulla storia dell’infanzia e un punto di vista equilibrato, si veda Hugh Cunningham, Children and Childhood in Western Society Since 1500,  Longman, 1995, trad. it., Storia dell’infanzia. XVI-XX secolo, Il Mulino, 2000.
[6] Nella visione funzionalista della società di Talcott Parsons il bambino è proprio una “minaccia”, un potenziale elemento perturbatore che deve essere annichilito per permettere l’esistenza della società stessa.
[7] A proposito di ambivalenza delle nostre idee in fatto di tutela e protezione, potrebbe essere interessante notare come l’attenzione sempre più ossessiva nei confronti degli abusi, dove tale termine rischia di allargarsi fino a comprendere gesti in passato ritenuti innocenti, si accompagni alla crescente problematica della gestione del “senso di colpa” delle vittime degli abusi.
[8] Non mi invento nulla: la teoria psicogenetica dell’autismo fu notoriamente elaborata da Bruno Bettelheim, il “doppio vincolo” come causa della schizofrenia è un’idea di Gregory Bateson e della scuola di Palo Alto, l’importanza della relazione di attaccamento alla madre come modello per le future relazioni è stata sottolineata da John Bowlby.
[9] J.R. Harris, The Nurture Assumption: Why the Children Turn Out the Way They Do, The Free Press, 1998. In italiano è stato infelicemente tradotto da Mondadori col titolo Non è colpa dei genitori.
[10] W. Corsaro, The Sociology of Childhood, Pine Press, 1997, trad. it., Le culture dei bambini, Il Mulino, 2003.