giovedì 14 febbraio 2013

la lingua salvata


Mi era già capitato in passato di esprimermi contro una certa eccessiva pedanteria nel correggere quelli che si ritengono degli errori nell'uso della lingua italiana. Essendo un argomento sul quale mi capita di litigare spesso, sento che è il caso di aggiungere qualcosina, dal punto di vista privilegiato non di un linguista in senso stretto, ma di uno studioso di filosofia del linguaggio. Uno quindi che è portato a farsi quel genere di domande che generalmente non si pone chi ama stigmatizzare la scarsa conoscenza altrui della lingua: ad esempio, ma che cos'è poi una lingua? e in cosa consisterebbe la correttezza?

Vorrei dire, visto che è in gioco la famosa divisione fra grammatica descrittiva e grammatica normativa, che non rinnego l'esistenza di una certa normatività della lingua, delle regole grammaticali, e pure una certa funzione positiva svolta da questo tipo di prescrizioni. Quello che mi irrita fortemente invece è quando una prescrizione viene scambiata o fatta passare per un fatto, per uno stato di cose che viene oggettivamente descritto. Sostengo che la forma logica di "si dice 'le dita', non si dice 'i diti'" è affine a "si dice 'non mi piace', non si dice 'mi fa schifo'", ovvero che si tratta in fondo di una pura questione di bon ton che poco ha a che fare con la linguistica in senso stretto.

"No, è che in italiano si dice così, se vuoi parlare in italiano allora devi seguirne le regole, non perché sia proibito fare altrimenti, ma perché in tal caso staresti parlando qualcos'altro", sarebbe la risposta consueta, cosa che appunto apre a tutta una serie di per me interessanti interrogativi, il più importante dei quali è "ma cosa diavolo è la lingua italiana? dove sta? indicatemela". In modo non circolare possibilmente, ovvero non vale tornare al punto di partenza e dire che la lingua italiana è quella in cui si dice così e così. Esiste un criterio indipendente per stabilire l'eventuale correttezza di una espressione?

Si potrebbe rispondere che la lingua italiana è quella parlata da una certa comunità in un dato momento, ovvero dagli italiani del presente. Peccato che sia evidentemente falso, per il fatto che ci sono un sacco di persone dotate di passaporto italiano che persistono a non rispettare quelle regole e a non parlare italiano, quelle che vengono corrette in continuazione dai nostri maestrini. "Non quella parlata dagli italiani, quella parlata dagli italofoni". Niente da fare, definizione circolare, per identificare la comunità degli italofoni dobbiamo prima identificare la lingua italiana, e viceversa.

Ci sono persone che sostengono abbastanza seriamente, a questo punto, che la comunità di persone cui fare riferimento per definire cosa sia la lingua italiana, non è l'intera comunità degli "italiani", ma una comunità molto più ristretta di persone aventi un certo potere politico e normativo, quello appunto di fissare le regole della lingua italiana. Si tratterebbe dei "linguisti" o "grammatici", gli autori di vocabolari e dizionari, i membri dell'Accademia della Crusca secondo alcune mitologie (nella realtà gli accademici della Crusca si occupano di cose più serie, tipo studiare la lingua parlata dagli italiani, appunto).

Quello che non si capisce è perché mai io dovrei accettare l'autorità proprio di quelle persone, "se voglio parlare italiano", mica sono state elette dal popolo (e se anche fosse…). E anche perché mai dovrei voler "parlare italiano" secondo questa definizione. Cioè, datemi almeno uno straccio di ragione. Sembra incredibile, ma ci sono un sacco di persone convinte che il fatto stesso di parlare, di comunicare, implichi una sorta di contratto implicito assunto nei confronti di una intera comunità, un obbligo morale ad usare certe epressioni e non altre, senza che nessuno sia in grado di spiegare quali siano le terribili conseguenze del non rispettare questi impegni (dev'essere una sorta di contraccolpo linguistico del mito del contratto sociale in scienza politica). Io comunque sono abbastanza sicuro di non essermi mai impegnato in questo senso, di non aver mai sottoscritto quel genere di contratto, me lo ricorderei.

Ci sono insomma un paio di leggende urbane che sarebbe il caso di smontare. Una di queste vuole che il linguaggio sia fatto di "convenzioni", e che parlare, comunicare, significhi appunto attenersi a queste convenzioni. La seconda vorrebbe invece che il prezzo da pagare per il rifiuto di questo genere di conformismo sia una totale incomunicabilità, una situazione simil torre di Babele che rischierebbe di porre fine alla nostra civiltà. Cose talmente ripetute che nessuno si domanda neanche più se sono vere, il che è un peccato perché se se lo domandasse la risposta sarebbe abbastanza immediata.

Sebbene sia vero che la relazione fra il significato di una parola e il suono sia in genere arbitrario (non del tutto vero in realtà, ma quel che conta è che pur essendoci la possibilità non vi sia necessità alcuna di similarità fra significato e significante), questo non lo rende affatto convenzionale. Convenzione significa un'altra cosa, significa una decisione consapevole presa da più persone, un accordo intenzionale sul significato da assegnare a una certa parola. Significa due o più persone che si mettono intorno a un tavolo, ordinano bibite gassate, e decidono: "ok, quella cosa bianca con le strisce nere la chiamiamo zebra, quello col naso lungo invece si chiamerà… e le fante?". Residui del mito del racconto della Genesi su Adamo che passeggia per l'Eden nominando le cose che vede.

Il punto è che riesce difficile immaginare come verosimile uno scenario siffatto, anche perché per stabilire una convenzione simile sembrerebbe necessaria una qualche forma di comunicazione fra le parti, un linguaggio, e quindi siamo da capo con la circolarità. Ma è la smentita della seconda leggenda, soprattutto, che è di una banalità quasi imbarazzante per quanto gravida di conseguenze. Attenzione: per comunicare non è affatto necessario avere un gergo in comune. Magari aiuta, non dico di no, ma non è necessario, non importa nemmeno che io parli un linguaggio anche lontanamente simile a quello del mio interlocutore. Ripeto che trovo abbastanza imbarazzante enunciare delle cose così semplici, ma insomma, la verità è questa: tutto quel che si richiede affinché io capisca il mio interlocutore è che io capisca quel che dice, mentre non è richiesto che lo dica a mia volta nello stesso identico modo.

Insomma, guardate che niente proibisce di rispondere in francese a uno che vi parla in inglese. Non state violando nessuna regola, nessuna legge, nessun accordo implicito, nessuna convenzione, nessun obbligo, nessun contratto sociale. Semplicemente, state comunicando. Nessuno vi obbliga, a dirla tutta, a rispondere in una qualsiasi delle lingue mondiali riconosciute, potete anche rispondere usando un vostro linguaggio tutto personale. Wittgenstein diceva che non può esistere un linguaggio privato, e aveva ragione, perché il linguaggio serve a comunicare. Non ha mai specificato però quale dovesse essere l'estensione del "pubblico". Perché un linguaggio non sia più privato, quindi, è sufficiente un interlocutore che mi capisca (e nemmeno che parli come me).

Il bello è che, se pur riconosco che esistono molte somiglianze, mediamente, fra gli usi linguistici di chi occupa un determinato territorio, questo è in realtà quello che accade quotidianamente. Nessuno parla italiano, perché l'italiano non esiste e ognuno di noi parla un proprio idioletto personale. Si dirà che esagero e che c'è una bella differenza fra un idioletto e una lingua comune, consistente appunto nel fatto che mentre l'idioletto è personale la lingua appartiene alla collettività. Il problema è che si torna sempre all'enunciazione dell'assunto di partenza, che avremmo invece dovuto dimostrare, ma quel che conta qui è che tale differenza, ammesso che ci sia, non può che essere una questione di gradi. Nessuno può tracciare una distinzione netta tra idioletto e lingua (come fra dialetto e lingua).

Il fatto che ciascuno di noi abbia delle idiosincrasie linguistiche però non compromette quasi mai la reciproca comprensione. Ancora una volta, invito a considerare l'esperienza quotidiana: se io uso una parola al posto di quella "corretta", se dico ad esempio "catoblepa" laddove ci si sarebbe aspettati che dicessi "gatto", come in "il catoblepa mi è salito sulle ginocchia e ha fatto le fusa miagolando", non accade che il mio interlocutore vada in tilt, e che proferisca un messaggio di errore aspettando di essere resettato. Succede semplicemente che il mio interlocutore mi interpreta, riuscendo ad intuire a partire da varie considerazioni psicologiche e semantiche, che sto parlando di quello che lui chiamerebbe un gatto.

A questo punto, a seconda del carattere che si ritrova, possono accadere due cose: o mi interrompe e mi dice "scusa, devi dire 'gatto', non 'catoblepa', e non ti ascolterò fino a quando non userai la parola che piace a me", oppure andrà avanti ad ascoltarmi come se nulla fosse. Io, si sarà capito, preferisco le persone con un carattere più tollerante e più liberale.

Questo, comunque, è per quanto attiene alla comunicazione in senso stretto, al significato di quel che dico usando le parole che dico. Dove sta il carattere normativo della lingua? Nella mia opinione sta in altre forme di comunicazione, che non passano attraverso il significato semantico, la denotazione, ma più attraverso la connotazione. Ad esempio, bisogna parlare "italiano" (facendo finta che esista una lingua italiana), non perché altrimenti non ci facciamo capire, ma perché siamo fieri della nostra patria, della nostra cultura, e lo vogliamo comunicare. Questa non è più linguistica in senso stretto, ma è sociologia o politica. O meglio, non è la parte linguistica della linguistica ma è la parte sociologica della linguistica.

Tornando all'inizio, quindi, quel che volevo dire è che non rinnego affatto quelle componenti, del tutto legittime. Io stesso non nascondo che nonostante tutta la mia liberalità mi sforzo sempre di scrivere in buon italiano, e che spero di riuscirci. Quel che mi preme dire però è che quando correggete qualcuno non lo state mettendo di fronte a una verità oggettiva del quale costui debba prendere atto, ma gli state semplicemente imponendo la vostra volontà, state esercitando la vostra autorità oppure state facendo un esercizio di persuasione retorica a scopo morale e politico. E cercare di imporre un desiderio mascherandolo da stato di cose naturale è l'anticamera della dittatura.

venerdì 1 febbraio 2013

come salvare la vita a un filosofo


I pochi lettori che mi seguono sanno che io certe cose non le ho mai fatte, e per certe cose intendo le marchette agli amici blogger e alle conventicole della rete (mi fa sempre ridere la parola conventicole), quindi sono un po' in imbarazzo a rompere il silenzio plurimensile di questo blog per segnalare un libro scritto da un mio amico di penna.

Però, ecco, si dà il caso che mentre iniziavo a leggere questo lepido libro di filosofia, scritto come dicevo dal mio amico Francesco Rende, filosofo e psicologo romano, nonché perito grafologo, mi è giunta improvvisamente la notizia che Francesco Rende è stato fermato dai vigili e salatissimamente multato, cosa che mi ha mosso a compassione. E quindi mi sono detto che forse se pubblicizzavo il libro sul mio blog avrei dato il mio piccolo contributo a renderlo quel bestseller che certamente sarà, e quindi aiutare il mio amico a pagarsi la multa e il motorino nuovo confiscato.

La cosa curiosa è che il libro in questione dovrebbe essere una sorta di compendio di saggezza filosofica, un manuale per affrontare la vita e le sue situazioni prendendo come spunto i grandi filosofi del passato. Ora, potrebbe sembrare che l'Autore del libro, visti i suoi comportamenti sconsiderati e delinquenziali, sia la persona meno adatta per insegnare certe cose: voglio dire, prendereste lezioni di filosofia morale da Fabrizio Corona?  E la risposta è: perché no?

In fondo nessuno degli autori menzionati nel presente libro può dirsi un modello da seguire senza se e senza ma, e questo è forse uno dei principali insegnamenti che si possono trarre: mai avere un unico modello di riferimento nella vita, ma prendere da ciascuno il meglio che può offrire. L'impressione, in effetti, è quella di un certo eclettismo anche un po' dispersivo e confusionario, ma con ottimi spunti di riflessione. Di Socrate ad esempio si sostiene, in un capitolo, che è morto da stupido, e che non si dovrebbe mai portare la coerenza ai propri principi fino al punto estremo di sacrificare la vita. Nel capitolo seguente lo si loda per la sua coerenza. Quel che l'Autore vuole dirci è che ogni medaglia ha il suo rovescio.

Sempre a proposito delle disavventure dell'Autore, direi che casca a fagiolo pure il capitolo sul cirenaico e puttaniere Aristippo, laddove si sostiene che bisogna vivere il presente, e non preoccuparsi troppo del futuro. Una volta Aristippo infatti comprò una pernice per cinquanta dracme, e a chi lo rimproverava per questo chiese "tu la compreresti per un obolo? ebbene per me un obolo vale cinquanta dracme". Il nostro Autore conclude il capitolo scrivendo: "E allora andiamo al mercato a comprare una pernice. Perché un obolo della nostra vita non vale cinquanta dracme di preoccupazioni" (frase che in realtà assume un significato sinistro, col senno di poi).

Nel capitolo dal titolo "Consultate un osservatore imparziale", centrato su Smith e Hume, si sostiene che nessuno è nella migliore posizione per giudicare se stesso e i propri comportamenti, che ognuno, si potrebbe anche dire, ha un grosso conflitto di interessi riguardo alla propria persona. Ne dovrebbe seguire, logicamente, la necessità di ascoltare con attenzione i consigli e gli avvertimenti del prossimo, cosa che potrebbe evitare un sacco di inconvenienti.

Si sarà capito, insomma, che l'Autore è più epicureo che stoico, e che ad esempio non riserva un trattamento particolarmente favorevole all'etica del dovere di Kant, riassunto nella massima "rifiutate categoricamente ogni imperativo". Kant è preso anche come spunto, piuttosto, per narrare l'affascinante storia del filosofo ed esegeta kantiano, appunto, Jean-Baptiste Botul, autore de La vita sessuale di Kant. Autore al centro di un piccolo scandalo accademico per il fatto di essere stato seriamente citato da Bernard Henry-Lévy nonostante si trattasse di una burla, dell'invenzione di un giornalista satirico. Ma l'Autore sottolinea come in fondo non sia affatto importante l'esistenza concreta di Botul, quando esistono certamente le interpretazioni a lui attribuite (per il fatto stesso che gli vengono attribuite). Posizione che, tendente a scagionare Henry-Lévy e coloro che sono cascati nella burla, forse andrebbe pesata con quanto si diceva prima a proposito dell'osservatore imparziale.

In definitiva, io consiglio il libro perché è divertente, e dico davvero, nel senso che mi sono spesso sorpreso a ridacchiare mentre leggevo, ed è pieno di battute carine, e può quindi assolvere egregiamente al compito di insegnare qualcosa di utile al tempo stesso dilettando. Anche le riflessioni dell'autore del resto sono spesso non banali e dilettevoli.

Non lo consiglierei mai invece come sostituto "leggero" di un manuale di filosofia (cosa che saggiamente viene sconsigliata anche nell'introduzione). Non è un bignami di storia della filosofia e non può essere assolutamente usato in quel modo, è piuttosto un viaggio nell'affascinante testa dell'Autore condotto seguendo la traccia delle più grandi menti del passato.

Anche perché, venendo alle note dolenti, non mancano – non dico le interpretazioni sulle quali non mi trovo perfettamente d'accordo, cosa che non sarebbe assolutamente un problema – ma anche qualche "sfondone" che appunto potrebbe non far fare un figurone in un eventuale esame a uno studente (come la trattazione del paradosso zenoniano su Achille e la tartaruga). Dettagli, una volta che si è compresa la vera natura dell'opera, ma che tuttavia fanno rimpiangere una revisione maggiormente accurata da parte dell'editore.

Concludo dicendo che l'Autore ha anche due gattini da nutrire.