venerdì 30 settembre 2011

la rivincita di Zenone


Tra i paradossi di Zenone di Elea, l'allievo di Parmenide famoso per aver ideato il rompicapo di Achille e la tartaruga e che voleva dimostrare l'impossibilità del movimento, quello meno famoso e ricordato – del quale non si parla quasi mai – è quello detto "delle masse nello stadio" (ma non parla di tifosi di calcio e ricordo che lo stadio per i Greci era anche un'unità di misura, pari a 185 metri). Paradosso che però ha qualche speciale motivo di interesse legato anche all'attualità.

Aristotele lo riassume nel capitolo 14 del VI libro della Fisica, in realtà in modo piuttosto criptico. Io avrei voluto riportare il passo di Aristotele nella sua integrità, piuttosto che una parafrasi, e anzi mi accingo a farlo, ma mi accorgo che si tratta di un testo molto difficile, e il cui senso difatti viene pure reso in maniera diversa a seconda delle diverse lingue in cui è tradotto. Qui mi affido alla traduzione in italiano di Luigi Ruggiu:

"[…] Il quarto argomento concerne corpi uguali che si muovono nello stadio in senso contrario a corpi uguali, gli uni considerati a partire dalla fine dello stadio, gli altri a partire dalla metà, entrambi con uguali velocità. Zenone ritiene, con questo argomento, di conseguire il risultato che la metà del tempo è uguale al doppio".

Il paradosso, o meglio l'antinomia di Zenone dunque consiste in questo, che una stessa cosa sia al medesimo tempo la metà e il doppio di una certa misura. Per comprendere come sia possibile dobbiamo immaginarci tre gruppi di masse contigue, o tre segmenti, A, B, e C.  

"[…] Ad esempio, siano AA corpi uguali che stanno fermi, mentre BB siano corpi uguali ai primi per numero e per grandezza, che partono dalla metà di A, i corpi CC uguali a questi per numero e per grandezza, e con velocità uguale a B, partono invece dagli estremi".

Ovvero, nella mia interpretazione: A si trova in riposo più o meno al centro dello stadio e non si muove. B si muove verso destra ed il suo estremo di sinistra si trova a metà di A, mentre C, parallelo ad A e B, si muove in direzione opposta, ma il suo estremo di sinistra tocca l'estremo destro di A. Così:

    BBBB ---->
AAAA
 <----CCCC

"Accade pertanto che il primo B giunge all'estremità nello stesso tempo in cui vi è il primo in C, in quanto si muovono l'uno accanto all'altro. Sicché capita che C abbia compiuto il percorso lungo tutti i B, mentre B ha percorso la metà della lunghezza degli A; dunque anche il tempo è metà, perché v'è ugualianza di ognuno di essi in rapporto a ciascun corpo. Ma nello stesso tempo accade che B avrà compiuto il percorso lungo tutti i C: saranno infatti nello stesso tempo agli estremi opposti il primo C e il primo B, in quanto un tempo uguale sarà impiegato per ciascuno dei B e per ciascuno degli A, come egli sostiene, dal momento che entrambi si muovono lungo gli A in un tempo uguale". 

La parte in corsivo è quella che mi ha creato i maggiori problemi, perché non riuscivo a trovare un modo di disporre le masse e farle muovere in modo da farle combaciare con quelle parole, ma penso infine di aver trovato una soluzione soddisfacente con la disposizione di cui sopra. Ovvero partendo da quello schemino, e definendo t come il tempo impiegato da un B (o da un C) a percorrere lo spazio di un elemento di A, dopo un t la situazione dovrebbe essere questa:

        BBBB ---->
   AAAA
 <----CCCC

"Il primo B giunge all'estremità nello stesso tempo in cui vi è il primo in C" ovvero il primo B e il primo C sono allineati con l'estremo degli A (e anche fra se stessi). Adesso però notiamo una circostanza singolare. Ovvero che prima B e C erano distanziati da uno spazio corrispondente a due A, mentre adesso sono allineati ("Sicché capita che C abbia compiuto il percorso lungo tutti i B"), e però B, nello stesso intervallo di tempo t ha superato un solo A ("mentre B ha percorso la metà della lunghezza degli A"). Quindi sembrerebbe che uno stesso intervallo di tempo (t) percorso alla stessa velocità faccia percorrere contemporaneamente un dato spazio (un A) e il suo doppio (due A).

Quello che Zenone ha scoperto, insomma, è la relatività del moto, il fatto che un oggetto può dirsi andare a una certa velocità solo in riferimento a un altro oggetto, e questo anche se Zenone non si spinge fino a mettere in dubbio la realtà dello stato di quiete delle masse A, cosa che del resto non avrebbe avuto senso dal punto di vista dalla filosofia eleatica, per la quale il movimento non esiste e tutto è immobile. Oggi, abituati come siamo alla relatività galileiana, nessuno si stupisce più tanto del fenomeno, e a dirla tutta nemmeno Aristotele sembra particolarmente impressionato. C'è anche da dire che noi conosciamo il paradosso appunto solo attraverso le parole di Aristotele, il quale però potrebbe anche non aver capito quel che intendeva Zenone (come se già non fosse difficile capire Aristotele), quindi alcuni studiosi propongono anche interpretazioni più fantasiose, ed è tutto bellissimo. Ma io non vedo perché l'argomento di Zenone dovrebbe essere più sottile di questo, essendo del tutto in sintonia col maestro Parmenide, per cui è una contraddizione in termini anche semplicemente dire che "il non essere è".

Soprattutto, e questa è in fondo l'utilità della filosofia, è giusto stupirci di quello che sembra ovvio (in questo caso il fatto che la velocità di un oggetto è relativa) perché ci prepara a percepire quello che non ci sembra affatto ovvio. Ad esempio che anche il tempo non è un assoluto ma è relativo, cosa che è stata intuita solo agli inizi del XX secolo grazie agli sforzi di un certo signor Einstein. Insomma, se Zenone trovava strano che un oggetto potesse andare a due velocità diverse – contemporaneamente e in riferimento a diversi osservatori –, quello che agli scienziati parve strano, quando scoprirono le onde elettromagnetiche, fu che la luce non sembrava affatto comportarsi così (una buona e sintetica spiegazione si trova anche in questo post di Amedeo Balbi).

La luce si propaga nel vuoto sempre alla stessa velocità, qualunque sia la direzione verso la quale si muove e per qualunque osservatore. Il che significa che se al posto di quelle masse nello stadio dell'esempio di Zenone mettessimo dei treni di fotoni non avremmo più alcun paradosso riguardo alle velocità. Quel che accadrebbe è che, tenendo ferma la velocità della luce, costante, sarebbero tutti gli altri parametri a diventare relativi, a partire dal tempo. Ecco quindi che dal punto di vista di B l'orologio di C sarebbe più lento, e viceversa dal punto di vista di C sarebbe l'orologio di B ad essere più lento. Non potremmo neanche più disegnare uno schemino come quello di prima – che mostra gli spostamenti dei vari oggetti dopo un tempo t – valido per tutti, proprio perché non c'è un unico t al quale far riferimento. Al limite dovremmo disegnare degli schemi differenti per A, per B e per C.

Ora, l'ideazione della teoria della relatività potrebbe sembrare uno smacco per la filosofia degli eleati. Si direbbe, a prima vista, che a Parmenide garberebbe molto di più un universo newtoniano con spazio e tempo assoluti e uguali per tutti rispetto all'universo einsteniano dove l'unica costante è la velocità della luce e tutto il resto dipende dall'osservatore. In realtà per Parmenide non solo il movimento, ma anche tempo e spazio erano illusioni, quindi non è che avrebbe dovuto necessariamente preferire una teoria all'altra. Ma c'è di più.

Le teorie scientifiche tendono all'economia, e sono quindi delle buone teorie quando riducono i fenomeni da spiegare. Prima di chiedersi "perché accade questo" ci si dovrebbe sempre chiedere "questo accade davvero"? Ne abbiamo un buon esempio proprio con la rivoluzione galileiana che fa piazza pulita della fisica aristotelica semplificandone l'ontologia stessa. Se Aristotele infatti cercava una spiegazione della "persistenza" del moto dei corpi e quindi doveva elaborare una complicata teoria dei vortici che spiegasse per quale motivo un sasso lanciato in aria continuasse a muoversi, per Galileo quel che c'è da spiegare è semplicemente la variazione del moto. Corpi in riposo e corpi in movimento per lui pari sono (e proprio perché non esiste un punto di vista privilegiato per dire chi è in riposo e chi in movimento) e le uniche cose che richiedono una spiegazione sono le accelerazioni, i cambiamenti di moto.

Con la relatività ristretta che abbiamo appena visto viene compiuto un ulteriore passo, perché la relativizzazione di tempo e spazio rende ancora più illusoria ed evanescente la realtà del movimento, ma è con la teoria della relatività generale, supremo sforzo intellettuale di Einstein, che l'universo comincia davvero a somigliare a un sogno parmenideo, e che ciò che a noi appare come disordine e caos diventa quiete e armonia nella descrizione spaziotemporale e non-euclidea fornita dalla teoria einsteiniana. Laddove, ad esempio, la linea di universo corrispondente ad un satellite in orbita (moto circolare, accelerato), diventa una geodetica se si considera la curvatura dello spazio tempo, e quindi espressione della tendenza generale a seguire il percorso più breve tra due punti.

Abbiamo visto quindi come Aristotele sbeffeggiava Zenone, ma anche come Zenone e Parmenide abbiano infine avuto la loro rivincita.

Un ringraziamento agli utenti di Friendfeed, in particolare Azioneparellela, Fabrizio Venerandi, e Milla, che mi hanno aiutato con Aristotele.

domenica 4 settembre 2011

wild boys



Fra tutti i mammiferi, le femmine dei canidi sono quelle più facilmente soggette a quel disturbo noto come "gravidanza isterica". Fra i lupi, solo la femmina dominante ha il diritto di accoppiarsi col capo-branco, ma quando questo avviene tutte le altre femmine manifestano i sintomi della gravidanza, come il seno ingrossato e la secrezione di latte. In questo modo una qualunque femmina del branco può prendersi cura della cucciolata qualora la vera madre dovesse morire.

Occasionalmente, una lupa può sviluppare una versione particolarmente "sregolata" di tale disturbo (che nella sua modalità consueta, come abbiamo visto non può nemmeno essere considerato un disturbo ma una funzione essenziale alla sopravvivenza del branco) tale da spingerla ad adottare comportamenti anomali, come allattare e prendersi cura di piccoli di altre specie (o addirittura pezzi di legno e oggetti inanimati).

Questo fatto biologico dev'essere all'origine delle molte leggende che riguardano bambini abbandonati nei boschi e poi sopravvissuti graze all'intervento provvidenziale di una lupa, come nella storia di Romolo e Remo. È indubbio che nonostante l'improbabilità statistica di un tale evento la sua semplice possibilità logica, unita al grande numero nel corso dei secoli di abbandoni, per non parlare di pestilenze e carestie, rende più che verosimile che qualche volta si sia effettivamente verificato.

Ciononostante, lo scetticismo riguardo almeno ai dettagli che contornano la maggior parte dei resoconti legati a simili ritrovamenti è obbligatorio. Anche se è possibile che un neonato o un bambino rimandi l'attimo della propria morte grazie al soccorso di una lupa, è assolutamente da escludersi una successiva adozione da parte del branco e la sopravvivenza di lungo corso nella foresta in sua compagnia. Il destino più probabile di un bambino allatato da una lupa è quello di essere divorato, o dalla stessa lupa o dai compagni di branco, a meno che non venga prima ritrovato da qualcuno.

Anche mettendo da parte i lupi, c'è la questione della pura e semplice sopravvivenza nella foresta. Per quanto tempo un fanciullo può sopravvivere, magari addirittura in buona salute, nella foresta, e cibandosi di cosa? di erba? di foglie e radici? di terra? di insetti? di carne cruda? Il ragazzo selvaggio dell'immaginario collettivo, il piccolo Tarzan che gode di ottima salute in compagnia degli animali della foresta e cibandosi di selvaggina, è un puro parto della fantasia. I veri ragazzi selvaggi, quelli che ogni tanto vengono trovati ai margini di qualche centro abitato, sono esseri decrepiti alle soglie della sopravvivenza. E dei quali è molto difficile stimare l'effettiva durata della permanenza allo "stato di natura". Spesso hanno anche gravi problemi mentali, non si sa se pre-esistenti e magari alla base dell'abbandono, o dovuti appunto alle gravi carenze alimentari.

L'esistenza vera o presunta dei ragazzi selvaggi ha però sempre esercitato un certo fascino su pensatori, moralisti, e filosofi, che talvolta hanno creduto di vedere in loro lo strumento per penetrare il mistero delle origini dell'umanità e della sua vera natura, non ancora contaminata dalla civiltà. I ragazzi selvaggi rappresentano per alcuni finestre sul passato della nostra specie, prima che l'uomo si desse alla coltivazione e si associasse in villaggi e città, e provvedesse a circondarsi di cose superflue, come vestiti, abitazioni, e altre comodità. Spesso il ragazzo selvaggio è una delle tante incarnazioni del "buon selvaggio", che continua ancora oggi a essere una categoria del pensiero occidentale.

Jean-Jacques Rousseau nel suo Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini cita alcuni casi di ragazzi selvaggi noti in letteratura: uno di questi è "il ragazzo che fu trovato nel 1344 presso Hesse, dove era stato nutrito dai lupi [notare il plurale] e che diceva presso la corte del principe Enrico che se fosse stato per lui avrebbe preferito tornare fra i lupi che restare tra gli uomini" (vedere anche qui). Viene poi citato il ragazzo trovato nel 1694 nelle foreste lituane in compagnia degli orsi, un ragazzo di Hannover che venne portato alla corte inglese (trattasi di Peter il ragazzo selvaggio, di cui parla anche il libro Né giusto né sbagliato di Paul Collins), e infine vengono citati altri due selvaggi trovati nei Pirenei nel 1719. Questi casi vengono portati da Rousseau come esempi per indagare se la postura umana "naturale", originale, è quella eretta o a quattro zampe (ma alla fine si rigetta l'ipotesi della locomozione quadrupede).

Fra gli altri casi famosi, non si può non ricordare Victor, il ragazzo selvaggio dell'Aveyron trovato nel 1797 che venne preso in cura dal dottor Jean Marc Gaspard Itard (che lasciò una importante memoria sui tentativi di educare il ragazzo), celebre per il bellissimo film di François Truffaut. Gli scritti di Itard e le sue riflessioni, che prendono atto della estrema debolezza e non adattamento dell'uomo che vive allo stato di natura, costituiscono già una critica approfondita del mito rousseauiano del buon selvaggio. L'impossibilità di comunicare con i propri simili può compromettere per sempre le capacità linguistiche di un fanciullo (con buona pace della capacità di "automiglioramento" e perfettibilità che secondo Rousseau caratterizzava l'uomo selvaggio). Osservazioni che sono state successivamente confermate, anche se nel caso di Victor compromesse dai dubbi sulle cause effettive (forse congenite) dei suoi handicap.

Oppure Kaspar Hauser, apparso in una piazza di Norimberga nel 1828, anche se atipico nella casistica dei ragazzi selvaggi, in quanto a dire il vero non si è mai supposto essere vissuto nella foresta per anni o addirittura in compagnia dei lupi (anche prendendo per buona la sua storia senza supporre che fosse un semplice impostore). Ma che cionostante venne addiritura identificato, nella tradizione teosofica, come "l'individualità che avrebbe dovuto impedire la decadenza dello spirito del tempo" e che se non fosse stato ucciso (secondo alcuni per una trama dei Gesuiti) ci avrebbe salvato dai campi di sterminio nazisti. E sul cui conto, anche, esiste un bel film di Werner Herzog.

Nel nostro secolo, fece scalpore il ritrovamento di Amala e Kamala, due bimbe indiane (8 anni e 18 mesi) trovate dal reverendo Singh nel 1920 dentro la tana di un branco di lupi fra cui una femmina che arrivò a proteggerle, insieme alla sua cucciolata, al costo della sua vita. "Forse per le lunghe braccia e per il modo di alzare le ginocchia da terra, correvano velocissime, come fossero scoiattoli. Anche i loro sensi erano animaleschi. La loro vista era acutissima e i loro occhi sembravano risplendere nell’oscurità come quelli dei lupi. L’olfatto non era da meno: il più piccolo odore di carne, anche di un animale morto, le faceva accorrere subito. Non furono mai viste cacciare, tuttavia un giorno Kamala, alla vista della signora Singh, scappò con delle penne di uccello che le spuntavano tra i denti". Fallito ogni tentativo di rieducarle, da parte del reverendo che le aveva in cura presso il suo orfanotrofio, Amala morì dopo pochi mesi ("Kamala, che non aveva mai mostrato emozioni, annusò la compagna e pianse due lacrime"), Kamala una decina di anni più tardi.

Per venire a una vicenda più recente, nel 1997 Misha Defonseca pubblicò il bestseller Sopravvivere con i lupi (da cui venne poi tratto un film), storia che combina una tipica narrazione in prima persona dell'Olocausto e delle persecuzioni antisemite insieme appunto a un'improbabile avventura nei boschi in compagnia dei lupi. Storia che attirò l'attenzione dello studioso (un eclettico chirurgo) Serge Aroles, che denunciò la frode, poi confessata come tale (la si può assimilare a Frammenti di Wilkomirski, altro celebre fake olocaustico). Aroles aveva in precedenza pubblicato un ampio studio dedicato al debunking di molti casi, famosi e meno famosi, di "ragazzi selvaggi". Fra i casi studiati da Aroles, e denunciati come falsi, ci sono appunto il ragazzo selvaggio dell'Aveyron e le due bambine-lupo indiane, Amala e Kamala.

Victor era con tutta probabilità un ragazzo le cui cicatrici (descritte da Itard) non erano affatto il frutto di morsi o graffi di animali selvatici, ma l'effetto di più prosaici maltrattamenti dovuti a una mano umana (questo a dire il vero è accennato pure nel film, a proposito di una vasta ferita alla gola). Molti dei segni di Victor erano difatti delle bruciature, difficili da procurarsi in una foresta. Se confrontato con uno dei rarissimi casi autentici di "ragazzo selvaggio", ovvero Maria-Angélique, bambina amerindia di eccezionale intelligenza che riuscì a vivere per dieci anni nelle foreste francesi (Aroles ha dedicato una intera monografia al suo caso), Victor non presenta nessun segno di adattamento alla "vita selvaggia", risultando drammaticamente inadatto alla sopravvivenza. Quello che sappiamo di lui è che quando venne catturato gravitava intorno alle fattorie rubando verdure, poco che dimostri una lunga permanenza nella foresta. Più probabile il più recente abbandono di un fanciullo già disabile (molti studiosi odierni riconoscono in lui i sintomi dell'autismo, diagnosi comunque non facile).

Ben più grottesca e tragica la storia delle bambine indiane, non solo per la scarsa credibilità a priori della vicenda come viene tradizionalmente narrata, ma per l'orrore reale che si cela dietro la fantasia, una storia di maltrattamenti, umiliazioni e crudeltà inflitte dal presunto "benefattore", ovvero il reverendo Singh. Un ciarlatano smentito, oltre che dai documenti d'archivio, dalle mille contraddizioni contenute nei suoi stessi scritti, che rivelano una frode disgustosa. Le bambine secondo alcune testimonianze venivano picchiate per costringerle ad esibirsi nella camminata a quattro zampe. Le foto più famose che le rappresentano (e che si possono facilmente trovare sul web) sarebbero dei falsi scattati anni dopo la loro morte (quindi altre orfanelle costrette ad assumere pose umilianti, come il mangiare da una ciotola per terra). Secondo Aroles le bambine, lungi dall'avere sviluppato delle caratteristiche "lupesche" in seguito alla vita in compagnia di questi animali, erano affette da un grave disturbo neurologico (sindrome di Rett), cinicamente sfruttato dal reverendo per farsi pubblicità.

La stragrande maggioranza dei bambini-lupo o ragazzi selvaggi apparsi nella storia, insomma, per quanto possano a prima vista sembrare affascinanti, ha ben poco da dirci sull'annosa questione natura-società e sulle caratteristiche della specie umana nel suo habitat naturale pre-civiltà. Da questo punto di vista il loro studio è un completo fallimento, soprattutto per i ricercatori della originaria innocenza, visto che quando dimostrano qualcosa dimostrano appunto l'essenziale dipendenza dell'uomo dagli altri membri della sua specie per sviluppare delle normali facoltà mentali e per la sopravvivenza. Queste storie hanno però da dirci qualcosa sul nostro immaginario, sulla nostra capacità di ingannarci e di credere, e a volte anche sulla nostra capacità di ingannare e fare del male.