lunedì 28 giugno 2010

il legno storto


Ferdinando I, Duca di Parma, scialbo sovrano di un quasi insignificante ducato dell'Italia centro-settentrionale, è ciononostante destinato a rimanere famoso per quello che avrebbe potuto essere, più che per quello che fu.

Il Ducato di Parma era governato nella metà del XVIII secolo dalla dinastia borbonica, la quale, succeduta ai Farnese e agli Asburgo, aveva introdotto delle significative innovazioni cercando di emanciparsi dall'influenza ecclesiastica, con l'abolizione del Tribunale dell'Inquisizione, la soppressione dei privilegi concessi al clero, e il rafforzamento dell'istruzione pubblica. Con effetti piuttosto positivi, considerando ad esempio che Parma era la città, dopo Parigi, col più alto numero di abbonati all'Encyclopédie. Ferdinando, nato nel 1751, era destinato a raccogliere l'eredità del padre Filippo I, che aveva retto il Ducato con equilibrio e saggezza (insieme alla moglie Elisabetta di Borbone).

Per prepararlo al compito che lo attendeva, i genitori di Ferdinando decisero di affidare la sua istruzione agli uomini migliori dell'epoca. La scelta cadde in primo luogo su Auguste de Keralio, che fu nominato "governatore" dell'Infante di Parma: avrebbe dovuto vivere costantemente al suo fianco, per essere il suo punto di riferimento per quanto riguarda le faccende morali e di condotta. Keralio svolse il suo compito tentando di inculcare nel giovane i principi della filosofia dei Lumi, indirizzandolo quindi a una religiosità sincera ma non bigotta, non incline alle superstizioni e alle piccole pratiche di devozione poco adatte a un principe.

Come precettore invece la scelta cadde nientemeno che su Étienne Bonnot de Condillac, ispiratore dell'Enciclopedia di Diderot e d'Alembert, autore del Trattato sulle sensazioni, esponente e massimo divulgatore in Francia del sensismo lockiano, amico personale di Rousseau, e a sua volta inventore di una teoria pedagogica, dedotta dalla sua filosofia, che avrebbe potuto finalmente mettere in pratica (la cooperazione deve sostituirsi all'autorità, occorre rispettare i ritmi dell'allievo e procedere per tappe, procedendo dal particolare al generale e non viceversa).

Oltre a Keralio e Condillac, vasta è pure l'influenza sul ragazzo del ministro Dutillot, nelle cui sole mani è affidato in pratica il Ducato una volta rimasto orfano Ferdinando, e che agirà opponendosi alle pretese del clero in nome dei principi laici che tanto piacevano ai philosophes. A lui si devono molte benemerite iniziative di carattere culturale, come la fondazione dell'Accademia delle Belle Arti, il Museo d'antichità, la Stamperia reale, e il giornale della Gazzetta di Parma. Senza contare la presenza, a corte, di molti illustri personaggi, come i matematici e fisici Jacquier e Le Seur, lo storico Millot (chiamati proprio per dare lezioni al principe), e molti altri, fino allo stampatore Bodoni.

Ferdinando – come racconta il bel libro di Elizabeth Badinter, L'Infant de Parme – diventa così la cavia ideale per un interessante esperimento pedagogico: nell'ideologia empirista dei Lumi l'educazione è tutto, e prevale sulla natura innata dell'uomo. La cultura e la razionalità possono vincere sull'ignoranza e la superstizione, una volta che si provveda a gettare i giusti semi sul fertile terreno della mente umana, pronta ad accogliere sia i buoni che i cattivi insegnamenti. Ferdinando diventerà, grazie ai suoi maestri, il sovrano illuminato che i philosophes attendono?

Di sicuro al giovane Ferdinando non viene risparmiato niente, anche a suon di dure punizioni corporali, perché assimili, fin dalla più tenera età, tutto quel che si ritiene utile al futuro sovrano: prima che abbia compiuto i dieci anni, egli ha già letto il teatro di Molière, Corneille e Racine, Voltaire, testi come L'origine delle leggi di Goguet, il Trattato sui tropi di Marsais o il Trattato sulla sfera di Maupertuis, oltre che essere introdotto alla fisica di Newton. Inoltre grammatica e letteratura latina, logica, e storia. Seguiranno geometria, idrostatica, idraulica, astronomia, geografia, architettura militare, e matematica moderna. Condillac si dichiara soddisfatto dell'intelligenza dell'alunno.

La favola di un principe illuminato, benché precoce, si diffonde in tutta Europa, propagandata ad arte dagli stessi philosophes, raggiungendo il suo culmine nell'anno in cui Ferdinando decide di farsi inoculare il vaiolo per immunizzarsi (non era ancora il vero vaccino, usato per la prima volta nel 1796, ma di sostanze tratte da veri malati, pratica pericolosa e avversata dalla Chiesa ma efficace). Tutti gli uomini più colti d'Europa guardano a lui come una speranza per il trionfo della ragione sull'oscurantismo religioso e assolutista.

E invece il povero Ferdinando deluderà tutti. Segnali che qualcosa non andava per il verso giusto c'erano anche prima: le frequenti punizioni di cui lui stesso si lamenta ma che erano una pratica assolutamente normale per l'epoca, sono dovute in massima parte proprio al suo trasporto religioso, al fatto che si lascia andare, spesso e volentieri, a pratiche devozionali che i suoi precettori ritengono esagerate e inappropriate a un principe. Ha inoltre un carattere fragile, e la tendenza a socializzare con persone, all'interno della corte, non confacenti al suo rango, abbandonandosi troppo spesso all'infantilismo. Caratteristiche che nonostante tutti gli sforzi non perderà mai.

Non appena divenuto autonomo, e soprattutto a partire dal suo matrimonio con Maria Amalia d'Asburgo-Lorena, Ferdinando comincia a fare ostracismo alla politica di Dutillot, si avvicina al partito filo-italiano e filo-ecclesiastico della città che aveva già un rapporto difficile con i francesi, e richiama a corte molti personaggi in precedenza allontanati. Nonostante tutte le pressioni dall'estero per farlo tornare alla ragione Ferdinando sembra sottomesso ai capricci della moglie (la quale, almeno all'inizio, lo tiene in pugno grazie al fatto che il matrimonio non può essere subito consumato, per colpa di una disfunzione dovuta alla scarsa igiene, che forse non rientrava fra gli insegnamenti previsti). Dutillot, per il quale (al contrario dell'ex maestro Keralio col quale manterrà sempre una corrispondenza) Ferdinando ha un vero e proprio odio, sarà alla fine allontanato, i privilegi ecclesiastici verranno ristabiliti, e sarà persino ripristinato il Tribunale dell'Inquisizione. Ferdinando si conquista il nomignolo di "principe dei bigotti", che manterrà fino a quando non perderà il trono, molti anni più tardi, per colpa di Napoleone.

Come "esperimento", quello effettuato sulla pelle di questo ragazzo, non ha certo un grande valore scientifico. I filosofi ci rimasero male, e tentarono in vari modi di giustificarsi, ma in realtà è impossibile stabilire se Ferdinando è diventato bigotto perché questa era fin da principio la sua natura (e allora la tesi empirista dev'essere rivista), oppure se vi sono stati gravi errori proprio nel metodo pedagogico (cosa altrettanto probabile).

Può comunque servire come memento per chi ha un'eccessiva fiducia nell'educazione, qualunque siano i principi pedagogici ai quali aderisce. Per chi pensa a forgiare non un individuo, ma addirittura un'intera nazione, a suon di proposte di curricolo e di insegnamenti ritenuti di volta in volta, necessari e formativi. Sarebbe una vicenda utile, da studiare e apprendere, per ogni riformatore della scuola, come per ogni difensore accanito degli insegnamenti tradizionali. Perché la verità è semplicemente che alcune cose sfuggono al nostro controllo di ingegneri sociali; per quanto accuratamente le pianifichiamo, esse si ribelleranno al nostro volere. Solo col legno storto dell'umanità non potrà mai essere costruito nulla di diritto.

sabato 12 giugno 2010

le ragioni dell'ateismo militante, e quelle del mistico


Vorrei rispondere a un post, di qualche settimana fa, dell'amico Leibniz Reloaded a proposito dell'ateismo militante.

In realtà non sono proprio la persona più giusta per farlo, perché, sebbene piuttosto anticlericale, non mi considero affatto un ateo militante. Non sono iscritto all'UAAR né mi interessa iscrivermi, né sono di quelli che ci tengono a "sbattezzarsi" (cosa inutile dal punto di vista cattolico, in quanto il battesimo non va via comunque, e quindi ancora più inutile per un ateo). Cerco di rispettare la fede degli altri in quanto faccenda privata, e di non turbarli con bestemmie o profanità varie (anche se quando sono da solo o con amici spesso mi lascio andare), e via dicendo. Fra l'altro ci sono sicuramente dei credenti fra i lettori di questo blog, e davvero non vedo il motivo di allontanarli per puro spirito di contraddizione.

Tuttavia, credo di comprendere di più, rispetto a Leibniz, le ragioni degli atei militanti, che se nel nostro paese vestono i panni un po' troppo gigioneschi di Odifreddi, sono più degnamente rappresentati nei paesi anglosassoni da persone come Richard Dawkins, Daniel Dennett, o Sam Harris.

Una prima obiezione che mi sento di muovere a Leibniz, è che l'ateismo per me "non è affatto una scelta fideistica, tanto quanto il suo simmetrico". Questo infatti presupporrebbe che non vi siano gradi di plausibilità, o di maggiore probabilità, nell'accettazione di un'ipotesi, ma che sia solo un "prendere o lasciare". Nessuno può essere assolutamente certo che Dio non esista, visto che in fondo sembra essere almeno una possibilità logica, ma si può ritenere, senza contraddire un atteggiamento razionale e scientifico, che la non esistenza sia un'ipotesi molto, ma molto più probabile dell'esistenza. Il vecchio argomento della teiera di Russell è valido, in questo caso.

Si chiede inoltre Leibniz: "certe posizioni non sono profondamente individuali e naturaliter incompatibili con codesto spirito partitico di aggregazionismo?". Può darsi che vi sia un nesso fra ateismo e individualismo, anche se non lo vedo così ovvio, ma niente in ogni caso proibisce a degli individualisti di unirsi per perseguire degli scopi pubblici comuni. Io non credo, infatti, che lo scopo di tali associazioni sia quello di riunirsi per cercare conforto reciproco nel "dogma della assenza di fede", o di svolgere rituali complementari a quelli dei fedeli.

Lo scopo è prettamente pubblico perché anche la religione tende a non essere un affare del tutto privato, ed è quello di neutralizzare quelli che gli atei ritengono essere dei danni oggettivi prodotti dalle credenze religiose nella sfera pubblica. Il paragone più immediato è quello con le associazioni di scettici e debunkers che cercano di sfatare credenze pseudoscientifiche, leggende urbane, e ciarlatanerie varie. Si potrebbe egualmente sostenere che chi lotta contro le scemenze degli sciachimisti perde tempo in maniera simile agli sciachimisti stessi (e un po' è anche vero), ma è pure evidente che gli sciachimisti, e in genere chi diffonde false e allarmistiche credenze, qualche danno lo fanno, e che quindi può essere considerata meritoria l'azione di chi li contrasta.

Paragonare i credenti (la totalità dei credenti) agli sciachimisti può essere percepito come molto offensivo e oltraggioso, per cui mi affretto subito a chiarire che io non li metto affatto sullo stesso piano, e credo che nessuno lo faccia. Se però l'essenza della fede è quella di ritenere vere determinate asserzioni senza nessun motivo razionale o supporto empirico, posso anche comprendere che questo sia ritenuto di principio eticamente sbagliato, e forse anche dannoso, da chi ha fatto invece della ragione scientifica la sua ragione di vita.

Credere nei miracoli, nel potere salvifico della preghiera, o nell'intercessione dei santi, ad esempio, può essere considerato come uno spreco di risorse che potrebbe essere più facilmente impiegato alla ricerca di mezzi più efficaci per ottenere i propri scopi (taccio per amor di quiete i pericoli del fondamentalismo religioso). In fondo, perché dovrei criticare chi si rivolge all'omeopata per guarire da una malattia, e non chi si rivolge a padre Pio? Oppure, perché nessuno ritiene offensivi quei libri che si dedicano a screditare le false credenze sull'astrologia, o sugli Ufo, o le strategie per vincere al lotto basate su ipotesi matematico-probabilistiche fantasiose, ma non appena ci si rivolge a cose come il parto virginale della Madonna ci si sente dare, con una certa stizza, del "positivista ottocentesco"?. Quali sono le false credenze che è giusto screditare e quelle che invece devono essere lasciate stare perché riguardano "la fede religiosa", e quindi al di fuori del campo della scienza? Perché dev'essere considerato politicamente scorretto mettere pubblicamente alla berlina le credenze religiose?

Nonostante tutto, sono però abbastanza d'accordo con l'ultima parte del post di Leibniz Reloaded, quando sostiene che la matematica (e secondo me anche la scienza, nonostante Dawkins abbia dimostrato che fra gli scienziati la percentuale di atei è molto più alta della media), ai suoi massimi livelli, avvicina a Dio, invece di allontanare. In un certo senso.

Onestamente, faccio fatica comprendere quella religiosità che si traduce in asserzioni meramente fattuali che hanno un chiaro, anche se magari ignoto, valore di verità (come "Cristo è risorto dopo tre giorni", ma anche "un Essere onnisciente e onnipotente ha creato il mondo e ci legge nel pensiero"). Ma effettivamente non credo che la religiosità si riduca a questo. "La religione – diceva William James – è la reazione totale di un uomo alla vita", e in questo senso essa può essere allargata ad aspetti che non sembrano avere molto a che fare con le religioni organizzate e le loro raccolte di dogmi.

La si può trovare, ad esempio, proprio nella devozione di uno scienziato alla ricerca disinteressata e fine a se stessa della verità. O più in generale nell'atteggiamento di sacro stupore di fronte al mistero dell'esistenza, o di fronte alla vastità e bellezza del cosmo. "L'ineffabile esiste – diceva Wittgenstein – esso è il mistico". Per Wittgenstein, però, il mistico consisteva proprio in tutto ciò che "non può essere detto", e in questo senso misticismo e scientismo coincidono: allargando i confini della conoscenza definiamo, per esclusione, anche tutto quel che ne resta fuori (lo scopo del Tractatus, cioè, è quello di circoscrivere quel che può essere detto proprio per far meglio risaltare il mistico, di cui si deve tacere). Un altro interessante, e più recente, tentativo di delineare un "misticismo razionale", lo si trova invece nel libro di John Horgan, Rational Mysticism, che però si rivolge più all'Oriente, alle esperienze di illuminazione, e allo sciamanesimo.

Il problema è che questo "atteggiamento mistico", se può conciliarsi con la ricerca spirituale di moltissime persone, non troppo attaccate ai dogmi ricevuti nel corso dell'infanzia, è del tutto incompatibile con la maggior parte delle religioni organizzate, la cui missione consiste non nel fare domande o nel mantenere un atteggiamento di apertura nei confronti del senso del mondo, ma proprio nel dare risposte (sbagliate) in feroce competizione sia con le altre religioni che con la scienza, e impedendo così una vera ricerca del "senso ultimo". Non a caso, alcuni scienziati che hanno studiato l'attività del cervello nel corso di quelle che i soggetti descrivevano come "esperienze mistiche", hanno anche notato che simili esperienze sono meno frequenti proprio nelle persone ufficialmente "religiose", come i preti. Non c'è da stupirsene, loro hanno tutte le risposte scritte in un libro.

E sia anche chiaro, in definitiva, che per quanto rispetto o ammirazione si possa avere per l'atteggiamento religioso e mistico, così definito, a niente che non abbia un vero e proprio contenuto cognitivo, proposizionale, avente un valore di verità ed esprimibile nel linguaggio, possiamo dare l'appellativo di "credenza". Le credenze religiose, in quanto tali, sono sbagliate, tutte. Gli atteggiamenti forse no

martedì 1 giugno 2010

storia dell'infanzia


Bambini, chi sono questi esseri, e cosa vogliono da noi?

Non sono agenti morali, non hanno responsabilità, non hanno nessuna autonomia. Non collaborano alle faccende domestiche, però mangiano e bevono e sporcano. Costano un sacco di soldi, ma non vanno a lavorare. Non sono neanche esseri umani, sono degli animaletti da conservare e accudire con cura, proteggendoli da ogni pericolo e da ogni possibile fonte di stress, almeno fino a quando non oltrepassano la soglia della maturità (fissata in un punto indeterminato), superata la quale sono pronti per essere presi a calci in culo come tutti e privati di ogni sentimento di pietà. Ma è sempre stato così?

Lo studio seminale sulla storia dell'infanzia è stato scritto da Philippe Ariès nel 1960, Padri e figli nell'Europa medioevale e moderna. Secondo Ariès, il sentimento dell'infanzia è in realtà un fenomeno recente, che nasce all'incirca nel XVIII secolo, e che non esisteva nel Medioevo o in epoca moderna. I bambini erano concepiti come adulti in miniatura, non come esseri speciali. Anzi, prima di aver superato i primi stadi dell'infanzia non venivano considerati affatto, e spesso non ricevevano neanche un nome (tanto c'era un'altissima probabilità che morissero), e una volta raggiunto un grado minimo di autonomia venivano subito catapultati nel mondo degli adulti. Non c'era nessuna infanzia da proteggere e preservare. Nessun mondo dorato.

Le fonti di Ariès erano soprattutto di tipo iconografico e letterario (ad esempio analizzava l'evoluzione della figura del bambino Gesù, nei primi tempi disegnato come un ometto, poi con tratti via via più infantili). Il suo approccio metodologico quindi è stato molto criticato, per il fatto ad esempio che venivano trascurate le questioni squisitamente teologiche e dottrinali che contribuiscono all'evoluzione iconografica del Cristo, o quelle di mera sensibilità artistica.

È uno studio, per stessa ammissione di Ariès esplorativo, che però ha dato il via a una notevole messe di volumi sullo stesso argomento. I libri di Lloyd de Mause (1974), Edward Shorter (1975), e Lawrence Stone (1977) raggiungevano tutti conclusioni assai diverse fra loro e rispetto ad Ariès, sull'epoca in cui sarebbe iniziata la transizione e sulle cause, però avevano tutti un punto in comune: sposavano cioè la tesi "discontinuista" di Ariès, e indicavano un mutamento epocale, nel passato più o meno recente, nel modo di concepire l'infanzia e quindi nelle condizioni di vita del bambino, e nel modo in cui veniva trattato e accudito.

Si noti che le due cose (l'ideologia e la prassi) sono profondamente diverse, ma non sempre questa distinzione è stata delineata con sufficiente rigore in letteratura. Comunque nel saggio di de Mause in particolare (contenuto nel volume, da lui curato, The History of Childhood), la tesi discontinuista di Ariès diventa una vera e propria storia di magnifiche sorti e progressive. Ovvero, le cose per i bambini sono andate sempre meglio:

la storia dell'infanzie è un incubo dal quale solo recentemente abbiamo cominciato a svegliarci. Più si va addietro nel tempo, più basso appare il grado di attenzione per il bambino, e più frequentemente tocca a costui la sorte di venire assassinato, abbandonato, picchiato, terrorizzato, e di subire violenze sessuali.

In de Mause la tesi poi è collegata a una interpretazione "psicogenetica" della storia davvero difficile da prendere sul serio, nella quale ogni generazione di genitori, introiettando entro di sé i traumi subiti nel corso dell'infanzia e superandoli, realizza un modesto miglioramento rispetto alla generazione precedente, attraverso un lento processo graduale.

Per Shorter (The Making of Modern Family), invece

le cure materne ai figli sono un'invenzione del mondo moderno. Nella società tradizionale, lo sviluppo e la felicità dei neonati inferiori ai due anni erano considerati con indifferenza dalle madri – che invece, nella società moderna, pongono sopra ogni cosa il benessere dei bambini.

Anche Stone (The Family, Sex. and Marriage in England 1550-1800) parla di un notevole distacco affettivo fra genitori e figli, della "fiera determinazione a piegare la volontà del bambino per imporgli una totale soggezione all'autorità degli anziani e dei superiori, soprattutto degli anziani", e del frequentissimo ricorso alle punizioni corporali, prima che, a partire dal 1660 circa, si verificasse una trasformazione della teoria pedagogica e delle pratiche di allevamento dei bambini.

Non vi è dubbio che la cultura di una determinata società possa avere un profondo effetto sulle pratiche di allevamento, tuttavia è fondato pure il sospetto che questi storici le assegnino un'importanza troppo grande, considerato il ruolo essenziale dell'allevamento dal punto di vista della conservazione della specie. Sembrerebbe quasi, infatti, che solo attraverso la civiltà moderna e i moderni principi pedagogici l'uomo abbia imparato a trattare con una certa umanità i membri più piccoli della sua specie, mentre prima non si capisce neanche come i bambini potessero sopravvivere. E sono sempre sospette, le storie di progresso della nostra civiltà, anche per l'implicito giudizio negativo sulle altre culture, rimaste in uno stadio più arretrato. A meno che non si voglia dire che certi peccati sono propri solo dell'Occidente, mentre per qualche miracolo tutti gli altri popoli hanno subito scoperto, per magia, il modo corretto di allevare i bimbi (non mi stupirebbe, che si voglia dire questo: ho letto anche di peggio).

Linda Pollock col libro Forgotten Children, del 1983, provvide a fornire una critica articolata delle teorie precedenti, rifacendosi appunto a fonti, oltre che storiche, sociobiologiche, antropologiche, e allo studio dei primati. La conclusione, piuttosto scontata dal punto di vista del buon senso, è che non si rileva "nessun cambiamento nella quantità di dolore materno o paterno nel corso dei secoli e nessuna conferma alla tesi che i genitori, prima del XVIII secolo, fossero indifferenti alla morte della loro giovane prole".

Il dibattito è poi proseguito, fino ad oggi, con posizioni in genere più mediate rispetto al discontinuismo di Ariès e la sua negazione da parte della Pollock. Certo è che tesi come quelle di de Mause attualmente sono in netta minoranza. Il punto è: perché la gente crede a cose del genere, così in contrasto con la ragionevolezza? Perché ama raccontarsi incredibili storie dell'orrore a proposito della propria civiltà, e del proprio recente passato? O del presente, se è per questo. Perché, ad esempio, c'è gente che, oltre alle storie di pedofilia vera (che esiste), ama inventare storie sui pericoli corsi dall'infanzia e racconti popolati da potentissime sette di orchi satanici che organizzano traffici internazionali di bambini da seviziare? o di messaggi subliminali propinati ai nostri figli per propagandare in maniera subdola sesso e violenza? può sembrare un paragone azzardato, quello fra gli storici alla de Mause, e i complottisti della pedofilia (alla Max Frassi), ma secondo me c'è un collegamento.

Lloyd de Mause, raccontando la sua storia di progresso, vuole farci sentire più buoni, esaltando la cattiveria degli altri, in questo caso dei nostri antenati. Il male viene esorcizzato relegandolo nel passato. Nel caso dei professionisti dell'antipedofilia, il male è esorcizzato allontanandolo dalle famiglie (nelle quali avvengono la stragrande maggioranza dei casi di pedofilia) e relegandolo nelle oscure e alte sfere dei potenti e cattivi, totalmente al di fuori del nostro controllo e della nostra esistenza normale (fenomeno psicologico questo che spiega buona parte del complottismo).

In entrambi i casi i bambini sono visti come soggetti totalmente passivi e inerti, e proprio per questo come creature angeliche. Per de Mause la scoperta dell'infanzia, come qualcosa di autonomo e separato dal mondo dei grandi, coincide con un grande avanzamento della civiltà. Oggi, a differenza del passato, siamo in grado di riconoscere i bambini come creature sante, da proteggere dal nostro mondo corrotto e pieno di brutture. I bambini, per i professionisti dell'antipedofilia, possono avere un solo ruolo nello schema dell'universo: quello delle vittime. Sono incapaci di mentire, per loro costituzione, quindi qualsiasi cosa dicano è verità rivelata. Il prezzo da pagare è la loro passività, l'incapacità di essere agenti dotati di un'iniziativa e di poter influire in modo anche parzialmente autonomo sulla propria vita.

L'ironia è che questa è proprio la tesi opposta a quella di Ariès, che riprendeva un concetto elaborato qualche decennio prima da Norbert Elias ne Il processo di civilizzazione (1939). Pur all'interno della tesi discontinuista, infatti, Ariès intendeva deplorare come un fatto negativo la crescente distanza fra il mondo degli adulti e quello dei bambini. Conseguenza proprio del "processo di civilizzazione", e del controllo degli istinti ad esso collegato. Controllo degli istinti che tende appunto a far sì che gli adulti si distinguano dai bambini, ovvero che imparino le buone maniere e a comportarsi bene in società.

Quella di Ariès ed Elias era quindi una concezione romantica del passato medievale, nel quale i bambini venivano assorbiti in maniera del tutto naurale nella società adulta. Visione che aveva le sue pecche, ma che mirava a criticare la moralizzazione della società moderna, l'isolamento della famiglia all'interno di essa, la creazione di "quarantene" necessarie, come l'istituzione scolastica, prima che il bambino fosse ritenuto pronto ad integrarsi nel mondo adulto. L'imposizione dell'ordine e della disciplina, e la nascita del concetto di "infanzia fragile", in cui la protezione del bambino va di pari passo con la "correzione" e l'educazione di esso.

Insomma, proprio le stesse idee del Moige.