venerdì 11 maggio 2012

le brutte parole


Quando l'antropologo Napoleon Chagnon venne accusato, all'inizio del secolo, di condotta immorale nel suo lavoro sul campo e di alimentare i conflitti e l'aggressività fra gli indios yanomami che in teoria avrebbe dovuto osservare in maniera distaccata e neutra (chissà se una cosa del genere è possibile, poi), una parte delle accuse riguardava il suo modo di raccogliere i nomi proibiti e le parole "tabù" nei vari villaggi amazzonici. La questione è: un antropologo ha sempre bisogno di ricostruire i rapporti di parentela all'interno di una certa comunità, ma siccome le parole che designano i parenti sono spesso ambigue (mio zio, mio cognato, mio nonno, sì, ma quale?) ha bisogno anche dei nomi di persona per capire davvero chi diavolo è chi. Peccato che nominare una persona fra gli Yanomami sia proibito, e che farlo in presenza del nominato in questione possa essere pure pericoloso. Nella mentalità yanomami il nome personale infatti è qualcosa di sacro, e il suo uso da parte di persone ostili può essere percepito come una minaccia o comunque come una perdita di dignità, quindi va protetto.

Chagnon racconta appunto che aveva tentato di bypassare il problema grazie a un sapiente uso degli informatori, in un percorso graduale comunque costellato di errori: ovvero si rivolgeva spesso ai bambini (più disinibiti e corrompibili) oppure ai nemici della persona di cui voleva sapere il nome, e poi per controllare se era stato informato bene ne pronunciava il nome in sua presenza. All'inizio le sue vittime si limitavano a scoppiare a ridere, e in questo modo Chagnon si rendeva conto di essere stato preso in giro, e che le parole usate in realtà significavano nella lingua yanomami cose come "grande ano" o "vulva pelosa". Se invece l'indio si metteva a inseguire Chagnon con un machete tentando di decapitarlo probabilmente aveva ottenuto l'informazione giusta.

In realtà è un po' ingiusto utilizzare questi racconti come capi di accusa perché Chagnon racconta questi episodi appunto come esempio di errore che si può fare nella ricerca sul campo, e non proprio come modello da seguire: se ci si pensa, è quel genere di cosa che può capitare non solo agli antropologi, ma a chiunque sia trapiantato in un ambiente nuovo e non conosca la lingua degli indigeni. Infatti non sono soltanto i "primitivi" ad avere delle parole o dei nomi che sono "tabù", ma è qualcosa che accade in tutte le culture, compresa ovviamente la nostra, solo che noi non li chiamiamo "tabù" ma "buona educazione". È maleducato, ad esempio, chiamare col nome di battesimo una persona con la quale non si ha intimità. Se questa persona poi è particolarmente autorevole, come un Presidente della Repubblica, probabilmente non rischierei la vita a rivolgermi a lui con "ehi, Giorgio", ma insomma sarebbe "molto" inappropriato.

A parte i nomi di persona, è chiaro che pure noi occidentali civilizzati abbiamo tutta una serie di parole che uno straniero inconsapevole potrebbe usare maldestramente: pensiamo a cosa accadrebbe ad esempio a chi si rivolgesse a una persona di colore, in America, come a un "nigger" pensando che sia un termine accettabile. A queste parole, in un residuo di pensiero "selvaggio", è attribuito un potere quasi magico: ovvero, non avrebbe molto senso dire a qualcuno che odiamo "vaffanculo" o "stronzo" se non pensassimo che in questi suoni ci sia qualcosa in grado di influire negativamente sul suo benessere. Del resto non avremmo neanche paura di nominare Dio invano o addirittura di rivolgergli quelle brutte parole di prima, se non avessimo un residuo di superstizione che ci fa temere una possibile vendetta. D'altra parte qualcuno sostiene che vi è della superstizione religiosa anche nell'insultare le divinità (come si fa spesso per motivi catartici), e io non lo contraddirò. Insomma, voglio parlare delle parolacce.

Ci sono delle parole che non si possono dire, o almeno non in tutti i contesti (che la proibizione non sia universale è autoevidente: se il tabù fosse assoluto non avremmo neanche modo di sapere quali sono le parole da evitare e non potremmo evitarle). La questione è: perché? Cosa c'è che non va in queste parole? Oppure, cosa c'è in loro che invece le rende così utili? perché – parliamoci chiaro – alcune delle cosiddette parolacce sono le parole che usiamo più spesso, per motivi che però non sono chiarissimi. La sfera semantica delle parolacce, comunque, riguarda i seguenti argomenti: 1) la religione, ovvero le bestemmie, che però almeno in Italia ricadono nella regola già vista di non dare nomignoli irrispettosi a persone autorevoli (e Dio è molto autorevole, per chi ci crede); 2) secrezioni corporee (urina, feci, sperma, in misura minore il muco); 3) attività sessuale (fornicare e i suoi mille sinonimi, le parti del corpo coinvolte nell'attività e le secrezioni, già dette, più epiteti che alludono a chi svolge l'attività come professione o in maniera molto frequente) 4) gli epiteti politicamente scorretti rivolti a certe categorie ("negro", "frocio") per i quali rimando ad altri post passati.

In un mondo in cui le parolacce non fossero tabù la voce relativa a "apparato genitale femminile" su Wikipedia  si svilupperebbe così: "la fica è il canale antistante l'utero, e nella scopata è l'organo che accoglie il cazzo". Effettivamente potrebbe essere fastidioso. Siccome però non può essere il suono stesso della parola, del tutto convenzionale e arbitrario, a risultare fastidioso (e infatti a uno che non parla l'italiano non direbbe niente), dobbiamo per forza pensare che non siano le parole, ma le cose stesse nominate dalle parole a risultare fastidiose da pensare. Ma cosa ci sarà mai di fastidioso nel cazzo e nella fica? e perché allora "pene" e "vagina" non risultano altrettanto insultanti?

Per quanto riguarda le secrezioni corporee, almeno, è chiaro che proviamo schifo per le feci in quanto veicoli di malattie, o comunque in quanto trattasi di cose abbastanza ripugnanti alla vista e all'odorato. Allora probabilmente dire "merda" è diverso dal dire "feci" in quanto, sebbene la denotazione sia la stessa, cambia la connotazione. Ovvero, nella merda è necessariamente contenuta, nel suo significato, pure la sensazione di disgusto provata. Sebbene però non ci piaccia pensare alla merda o parlarne, è chiaro che ci sono dei contesti in cui si è costretti a farlo, come quando un dottore deve analizzare la merda del suo paziente per scoprire eventuali malattie, e allora gli dice "mi porti un campione delle sue feci". Questo perché "feci" è un tentativo di denotare lo stesso oggetto privandolo delle sue connotazioni più sgradevoli. E ci sono invece occasioni in cui quel che vogliamo è proprio richiamare alla mente dell'ascoltatore la sgradevolezza della cosa, per effetti comici o per rendere l'idea della esasperazione in cui ci si trova: "e così, sapete, quell'imbranato non solo mi ha pestato i piedi mentre ballavamo il tango, ma mi ha pure riempito le scarpe di merda di cane appena pestata". Naturalmente l'uso metaforico è molto frequente: "sono nella merda fino al collo" (non si è mai "nelle feci fino al collo").

Veniamo al cazzo e alla fica ("cazzo" è peraltro parola di origine ignota, essendo le etimologie finora proposte abbastanza improbabili, es. un peggiorativo di "oca"). Nella nostra mentalità libera ed emancipata facciamo forse fatica a comprendere perché le connotazioni legate all'attività sessuale, e quindi anche agli strumenti principali di tale attività, siano così negative da proibire addirittura di nominarli apertamente. "Cazzo" è parola che rientra anche in molti insulti come "testa di cazzo", "sei un cazzone", eccetera, così come "coglione". Curiosamente, in Francia è la parola che indica l'organo femminile, "con" (che però è maschile) ad essere usata come insulto, e le "conneries" sono le nostre "cazzate". L'inglese "cunt" a sua volta è (probabilmente) imparentato con "con", ed è pure quello un insulto. Il paradosso è che la fica è nell'immaginario di molti qualcosa di delizioso, di cui si va perennemente in cerca, non qualcosa che ripugna, e si spera che la stessa cosa sia vera per il cazzo (a seconda dell'orientamento sessuale, ovviamente).

Questo però significherebbe trascurare, in maniera abbastanza ipocrita, tutto ciò che di effettivamente negativo è associato all'atto sessuale, e questo sopratutto in epoche precedenti alla nostra, prive di metodi contraccettivi e spesso con minore attenzione all'igiene personale. In primo luogo, e ancora, gli organi genitali possono essere un veicolo di malattie infettive. Sono veicolo anche di cattivi odori, e insomma non è detto che l'incontro ravvicinato con essi debba per forza costituire una gradevole esperienza, per quanto gli ultimi decenni di erotismo patinato alla Playboy ne abbiano addomesticato molto la natura per certi versi brutale. Si pensi per esempio alla progressiva tendenza alla scomparsa della peluria: una volta la fica era associata all'immagine di una sorta di foresta selvaggia, oggi è al massimo una siepe da giardino, o un cespuglietto pulito e ordinato (rasa il pratino!). Poi, certo, è probabile che dipenda dalle differenze culturali se l'inglese "cunt" è molto ma molto più offensivo della nostra simpatica e sbarazzina fica (per cercare un termine che si avvicini all'inglese quanto a volgarità potremmo ricorrere a "fregna").

Il cazzo, oltre che spesso maleodorante e non sempre gradevole alla vista, può essere invece associato all'idea di una minaccia, di aggressione sessuale. E qui veniamo anche a tutti quei termini che, curiosamente, alludono alla fornicazione (e più spesso ancora alla sodomia) come a qualcosa di negativo e da evitare, invece che a qualcosa di ricercato e agognato: "mi hanno proprio inculato", "ammettilo, stavolta ti ho fottuto", "ma vai a farti fottere" (per quanto quest'ultimo sia probabilmente un esempio di doppiaggese). Steven Pinker nel suo libro The Stuff of Thought, che contiene un intero capitolo sul tema delle parolacce e di cui questo post costituisce un tentativo di localizzazione, individua uno schema ricorrente e interessante, nelle parole che si riferiscono appunto alla fornicazione: da un lato abbiamo "scopare", "trombare", "fottere", "chiavare" eccetera, che sono tutte "parolacce". Dall'altro lato abbiamo "fare l'amore" (o "all'amore"), "andare a letto", "dormire insieme", "giacere", o anche appunto "fornicare" che non è una parola bellissima ma si può dire.

C'è una cosa riguardante le parole "volgari" che salta subito agli occhi , e che manca nelle parole più "accettabili". I verbi non usabili nei contesti più formali sono tutti transitivi. Si scopa o si tromba qualcuno ma si va a letto "con" qualcuno, o si fa l'amore con qualcuno. Il modo in cui un verbo può essere usato per formare una frase può dirci molto sul significato recondito di una parola, cose che un semplice vocabolario non potrebbe dirci e che sfuggono anche all'etimologia. "Scopare" è transitivo, dicevamo, ma i verbi possono essere raggruppati in modi molto più sottili. Per esempio, ci sono tipi di verbo che accettano la doppia costruzione "ho spruzzato la vernice sul muro" e "ho spruzzato il muro di vernice", ma "scopare" non appartiene evidentemente a questo gruppo: "ho scopato Scarlett sul divano", ma non "ho scopato il divano di Scarlett" (oddio, l'ultima frase potrebbe anche essere grammaticale, ma ha un significato completamente diverso, e pure abbastanza orrendo). Ci sono verbi che accettano la doppia costruzione "ho morso il braccio di Scarlett" e "ho morso Scarlett sul braccio" e stavolta il verbo "scopare" potrebbe rientrare fra questi, ad esempio… no, l'esempio forse è meglio non farlo. Il libro di Pinker è praticamente tutto centrato su quello che la lingua – la grammatica – rivela riguardo ai nostri schemi concettuali, talvolta anche innati (seguendo una vecchia tradizione della filosofia analitica, del resto).

Si può anche notare che è più facile usare questi verbi quando il soggetto è maschile (come genere sessuale, non grammaticale) e l'oggetto femminile: Bob scopa Alice ma sebbene al giorno d'oggi possa anche capitare che Alice scopi Bob, e più facile che ci faccia l'amore. La prova del nove consiste nel fatto che un soggetto maschile può anche scopare un oggetto neutro: ovvero (e scusate), Bob può scopare una zucca, o una capra, ma è difficile che Alice scopi un cetriolo o un cavallo (semmai potrebbe farsi scopare dal cetriolo o dal cavallo). Insomma, per farla breve "scopare" appartiene a una classe di verbi in un cui un soggetto attivo fa un qualcosa a oggetto passivo, con o senza la sua collaborazione, alterandone la condizione originaria, spesso in peggio. Ovvero è affine a verbi come "rompere" (in inglese del resto "to bang" è uno dei sinonimi, mentre anche noi di una cosa rotta diciamo che è "fottuta"), "battere", "picchiare", "rovinare", eccetera. Per essere ancora più chiari, tocca dare ragione a certe femministe: "scopare" e "stuprare" sono pericolosamente vicini quanto a significato, e per questo probabilmente si tratta di una parola molto più sgradevole di "fare l'amore". È comunque possibile scopare insieme a qualcuno, che è certo una cosa più gentile: pregherei di notare la differenza di sfumature esistente fra "ma insomma, come va con Chiara, alla fine ci hai scopato?" e "ma insomma, come è andata con quella? te la sei scopata o no?".

Mi rimane un piccolo dubbio. Steven Pinker argomenta che in espressioni come "fuck off", "fuck yourself" eccetera, il paradosso di stare invitando qualcuno di odiato a sollazzarsi piacevolmente in ultima analisi è risolto dal fatto che in quel caso la parola "fuck" non è affatto un riferimento all'attività sessuale, ma in effetti non significa niente ed è lì solo come riempitivo, come una sorta di interiezione che può essere infilata dappertutto: "questo fottuto esame del cazzo" (cosa c'entra il cazzo? niente, evidentemente). Forse anche allo scopo di rimpiazzare altre parole in origine considerate anche più offensive (come quando diciamo "maremma maiala"). "Go fuck yourself" insomma non è invito alla masturbazione (come dice l'Urban Dictionary), ma è un eufemismo per "go to hell" o "damn yourself". Il dubbio è che, come dicevo, sto cercando di localizzare, però non saprei proprio se il nostro "vaffanculo" è davvero riferibile a un'attività che richiede l'uso del posteriore, oppure si tratta anche in questo caso di un modo eufemistico per dire altro. Quello che ho scoperto (tralasciando etimologie fasulle come quella secondo cui la "vaffa" era un palo) è che, nonostante l'ubiquità nel nostro parlato di tale espressione, potrebbe essere molto più recente di quanto pensassi. Lo Zingarelli ne indica l'origine addirittura nel 1953. Chissà, potrebbe anche essere nata sotto l'influenza dell'inglese. Lascio ai lettori ulteriori ricerche, sperando che siano così gentili da comunicarmene i risultati.