giovedì 18 marzo 2010

la dismisura dell'uomo


L'intelligenza: nessuno sa cosa sia, ma questo non ci impedisce di cercare di misurarla in qualche modo. Un articolo, molto interessante, di Gilberto Corbellini apparso sul "Sole 24Ore" del 14 marzo mi ha condotto a qualche riflessione sul tema.

L'intelligenza viene misurata di solito con un indice che è definito "quoziente" perché in origine si basava sulla divisione fra età mentale del soggetto ed età cronologica (moltiplicando il risultato della divisione per 100): ovvero, un bimbo di 10 anni che avesse ottenuto risultati ritenuti normali per un bimbo di 13, avrebbe ottenuto un quoziente di intelligenza di 130 (viceversa, un bambino di 13 anni con l'età mentale di un bimbo di 10, avrebbe avuto un QI di 77).

Per rendere i risultati confrontabili fra adulti, invece, si è ricorsi ad una distribuzione gaussiana, dove la normalità, o la media nella popolazione, è per definizione fissata a 100, e le persone vengono definite più o meno intelligenti a seconda di quanto si discostano da questa norma, cioè a seconda di quale punto della "curva a campana" occupano. I test d'intelligenza, che servono appunto a misurare il QI, sono di diverso tipo, ma i più comuni sono lo Wisc e lo Wais, sottoposti a continue revisioni, per vari motivi che vedremo più tardi.

La faccenda da sempre dibattuta è se e quanto i test d'intelligenza siano utili e affidabili nel misurare la qualità in questione (l'intelligenza) e la risposta non è semplice proprio perché l'intelligenza è una delle cose più difficili da definire. Si suppone che abbia a che fare con la capacità di risolvere i problemi e nell'adattarsi, grazie a questa capacità, all'ambiente e sopravvivere. Il problema è che, proprio perché l'ambiente può essere diverso, possono essere diverse anche le capacità di volta in volta più utili ad adattarsi. Una definizione basata puramente sull'esito non catturerà mai il significato del termine, perché è concepibile che in alcuni contesti sia proprio il contrario dell'intelligenza, l'ottusità, ad avere un maggior valore adattativo.

Uno sguardo ai compiti richiesti per superare un test d'intelligenza può farci capire meglio cosa intendiamo: ad esempio fanno parte della concezione comune d'intelligenza cose come la capacità di astrazione e di sintesi, il saper cogliere le similitudini, l'elaborazione delle forme tridimensionali (cosa nella quale ho scoperto di essere scarsino, ma ho la giustificazione della miopia, quindi come la mettiamo?), o il ragionamento di tipo matematico. In questo modo, però, rischiamo di definire l'intelligenza in maniera puramente circolare: l'intelligenza è quella cosa che viene misurata dai test d'intelligenza. Ci verrebbe a mancare, allora, qualsiasi termine di paragone in base al quale calibrare ed affinare i nostri test.

Questo non significa che i test non vengano, invece, continuamente calibrati ed affinati, solo che l'unica guida in questo è la nostra pre-comprensione intuitiva di ciò che è l'intelligenza, concetto che peraltro tende a modificarsi con l'evoluzione della cultura. Non daremmo, ad esempio, molto valore ad un test che attribuisse punteggi molto alti a chi non ha successo nella vita, e punteggi bassi a chi invece è pieno di gratificazioni personali. Per questo è un po' fuorviante dire che i test sono validi perché hanno successo nel predire il futuro delle persone: è normale che sia così, dato che sono stati costruiti proprio in base a questo criterio. Se al successo personale contribuissero anche fattori di tipo socio-culturale (come certamente capita), una definizione basata sui test rischierebbe in questo modo di cristallizzarli e perpetuare un ostacolo esterno alla realizzazione della persona.

Può far capire meglio il punto il fatto che alcune delle motivazioni dietro alle modifiche apportate ai test siano esplicitamente ideologiche e politiche. Ad esempio nei primi test le donne ottenevano regolarmente punteggi inferiori rispetto agli uomini. Questo inizialmente non poneva nessun problema: era tranquillamente accettato il fatto che le donne avessero un'intelligenza inferiore. Nel momento in cui le donne hanno ottenuto una considerazione sociale maggiore, quel risultato è divenuto inaccettabile, e il test è stato modificato in modo che le donne potessero far emergere, nei punteggi, le qualità in cui eccellono rispetto agli uomini. Lo stesso è stato fatto per alcune minoranze.

L'altro motivo per cui i test cambiano in continuazione (oltre a un necessario adattamento linguistico per i test di natura verbale, per tenere conto dell'evoluzione del linguaggio) è il fatto che la media, sorprendentemente, è in continua trasformazione. Ovvero, sembra che nell'ultimo secolo abbiamo guadagnato una trentina di punti, quindi i test devono essere resi sempre più difficili per non farci apparire tutti superdotati (il che sarebbe più che altro una contraddizione, visto il criterio con cui è assegnato il punteggio). È il cosiddetto "effetto Flynn", di cui parla nello specifico l'articolo di Corbellini, e le cui cause non sono state ancora del tutto chiarite, anche se ci sono varie ipotesi: è un tipo di risultato, comunque, che getta alcune ombre sul preteso carattere "innato" dell'intelligenza.

Un test si compone, di norma, di varie sotto-sezioni, che tendono a far emergere qualità di tipo diverso (ad esempio di verbalizzazione, oppure di logica). Ora, il fatto che i risultati in tutte queste sotto-sezioni siano fortemente correlati (ovvero una persona brava in un tipo di compito tende ad essere brava anche negli altri) è quello che fa pensare (nonostante la circolarità cui accennavo) ad un fattore generale d'intelligenza, che viene chiamato g: g sarebbe la realtà oggettiva dietro il test, ciò che viene effettivamente misurato. Può essere assimilato al talento musicale, che mette in grado di suonare non un solo tipo di strumento ma una certa varietà di essi. L'analisi multifattoriale è anche in grado di chiarire quali dei sottocompiti cognitivi messi alla prova in un test sono maggiormente influenzati da g: sono quelli in cui gli individui dal QI alto mostrano una maggiore deviazione dalla media (chi ha talento musicale, ad esempio, tende ad eccellere di più in uno strumento difficile come il violino che con la pianola Bontempi).

In effetti, l'esistenza di g (quale emerge dall'analisi) dimostra almeno che il nostro concetto d'intelligenza, che tentiamo di catturare in un test, non è del tutto vacuo o puro prodotto di artificio linguistico. Non si tratta cioè di capacità diverse amalgamate a casaccio, ma c'è effettivamente un qualcosa che ne viene catturato, anche se è difficile dire quanto precisamente. Questo è il motivo per cui tendo ad essere abbastanza d'accordo con le considerazioni svolte nell'ultima parte dell'articolo di Corbellini, dove viene fatta una critica alla "teoria delle intelligenze multiple" di Howard Gardner.

È una moda abbastanza recente, in psicologia e soprattutto in pedagogia, quella di liquidare il concetto di intelligenza generale per sostituirlo con una molteplicità di diverse "intelligenze", ciascuna dotata di una propria autonomia e dignità. Gardner ne individua almeno sette (poi diventate otto, forse nove):

1. Intelligenza logico-matematica, abilità implicata nel confronto e nella valutazione di oggetti concreti o astratti, nell'individuare relazioni e principi.

2. Intelligenza linguistica, abilità che si esprime nell'uso del linguaggio e delle parole, nella padronanza dei termini linguistici e nella capacità di adattarli alla natura del compito.

3. Intelligenza spaziale, abilità nel percepire e rappresentare gli oggetti visivi, manipolandoli idealmente, anche in loro assenza.

4. Intelligenza musicale, abilità che si rivela nella composizione e nell'analisi di brani musicali, nonché nella capacità di discriminare con precisione altezza dei suoni, timbri e ritmi.

5. Intelligenza cinestetica, abilità che si rivela nel controllo e nel coordinamento dei movimenti del corpo e nella manipolazione degli oggetti per fini funzionali o espressivi.

6. Intelligenza interpersonale, abilità di interpretare le emozioni, le motivazioni e gli stati d'animo degli altri.

7. Intelligenza intrapersonale, abilità di comprendere le proprie emozioni e di incanalarle in forme socialmente accettabili.

Cosa c'è che non va? Prima di tutto i motivi che stanno dietro l'accettazione di questa teoria sembrano avere a che fare più con la correttezza politica che con un genuino discorso scientifico. Essendo odiosa la discriminazione che viene operata sugli individui classificandoli in intelligenti e poco intelligenti, si cerca in questo modo di rendere qualunque persona un "diversamente intelligente", nella ragionevole speranza che ci sia almeno un qualche tipo di compito nel quale è in grado di cavarsela.

Ma la ragione principale per cui il discorso non mi pare che regga, è che in questo modo i vari concetti di "intelligenza" vengono davvero resi totalmente vacui e circolari, come la famosa virtus dormitiva di Moliére: "perché l'oppio fa dormire? perché ha dentro di sé una virtus dormitiva" (ovvero fa dormire perché fa dormire). E perché Tizio è bravo in matematica? perché possiede un'intelligenza matematica, ovvero è bravo in matematica perché è bravo in matematica. Scomporre l'intelligenza in tante abilità scollegate fra di loro, insomma, può sembrare inizialmente sensato, ma quel che otteniamo è solo una serie di banali e inutili tautologie. Meglio tornare a g, allora.

Il concetto di intelligenza presupposto da g non è affatto chiaro, e soffre anch'esso di una certa circolarità come abbiamo visto, ma non si può comunque dire che sia vacuo. Diciamo che si tratta di un grosso punto interrogativo, o una incognita nelle nostre equazioni. Dopotutto l'intelligenza non è una cosa inventata da qualche psicologo cattivo e razzista alla fine dell'Ottocento, come alcuni resoconti buonisti lascerebbero intendere, ma è concetto usato fin dall'antichità. Fuor d'ipocrisia, sappiamo tutti che ci sono persone più intelligenti e meno intelligenti, senza bisogno che venga a dircelo un signore in camice bianco.

Quello che gli antichi troverebbero strano, forse, è l'idea che la qualità oggettiva dell'intelligenza sia anche una quantità oggettivamente misurabile. Possiamo paragonarla al concetto di bellezza artistica. Esistono opere belle e opere brutte, libri bellissimi e boiate pazzesche, e non credo sia solo una questione di gusto soggettivo. Ciononostante, apparirebbe strana l'idea di dare ad una qualsiasi opera un punteggio in bellezza, e di poter confrontare fra di loro i capolavori della letteratura in base al punteggio ottenuto tramite una serie di parametri oggettivi.

Per questo, non sono del tutto sprezzante verso i test d'intelligenza. Potrebbero avere una qualche circoscritta validità in qualche ambito. Ma sono anche convinto che come misura del valore di una persona lascino il tempo che trovano. In fondo preferisco affidarmi al mio personale giudizio.

lunedì 8 marzo 2010

il principio di (ir)responsabilità


L'economia è “la scienza che studia il comportamento umano in relazione agli obiettivi e alle risorse limitate di cui dispone, le quali hanno usi alternativi" (Lionel Robbins).

Essendo in relazione ai fini che si pongono gli uomini, la scienza economica ha a che fare, in sostanza, con l'etica, con i valori, e non si tratta, come vuole una certa saggezza popolare, di due cose profondamente diverse e divergenti. Ma la stessa nozione di “valore” sarebbe difficile da comprendere, se vivessimo in un mondo dove vi fosse identità fra ciò che vogliamo e ciò che possiamo fare: è la scarsità di mezzi di cui disponiamo (citata nella definizione), ovvero la finitudine della condizione umana, che ci costringe a fare delle scelte, a volte dolorose, fra una linea d’azione e un’altra.

Qui entra in gioco, allora, l'altra faccia della scienza economica, quella più tecnica: una volta individuati i fini, quali sono quelli effettivamente realizzabili, e come realizzarli? come decidere fra piani d'azione alternativi? Gli strumenti tradizionali messi in atto sono quelli del calcolo delle probabilità, della valutazione dei rischi, e dell'analisi in termini di costo e benefici di un eventuale piano d'azione. Strumenti sempre validi, essendo semplicemente gli strumenti della nostra razionalità. Privarcene significherebbe rinunciare alla nostra facoltà di giudizio e decisione per abbandonarci passivamente alle forze dell'irrazionale.

Per questo sono un po' scettico, ogni qual volta mi capita di sentire che occorre aggiornare le nostre procedure di decisione alle nuove sfide globali che ci attendono, in particolare in relazione alle problematiche ambientali. Cominciò tutto, credo, con Hans Jonas, e il suo "principio di responsabilità". Citando Wikipedia, infatti,

Secondo Jonas al nuovo orizzonte inquietante che l'agire umano ha acquistato grazie alla tecnica moderna deve corrispondere una nuova teoria etica capace di inserirsi in questo orizzonte per valutare le possibili conseguenze catastrofiche dell'agire dell'uomo, che nell'epoca dell'alta tecnologia viene a coinvolgere l'intera biosfera.

Perché? Un conto è dire che chi ha molto potere deve stare particolarmente attento alle conseguenze delle sue azioni rispetto a chi invece conta poco, ma un altro conto è dire che esistono due teorie etiche differenti, una che va bene in certe circostanze, e un'altra da vestire nelle grandi occasioni. L'etica è universale.

Questa nuova e necessaria etica deve radicarsi nella chiara visione di ciò che è in gioco come conseguenza del progresso tecnologico e deve utilizzare la paura suscitata dalle sue possibilità “quasi escatologiche” per la formulazione di un “principio euristico” “capace di proibire certi 'esperimenti' di cui è capace la tecnologia”.

Fondare un'etica cosmica basata sul “dovere della paura” rispetto ai possibili esiti catastrofici delle nostre azioni e sul “coraggio della responsabilità” è un passo necessario per affrontare e cercare una soluzione politica ai grandi problemi del presente: sovrappopolazione, esaurimento delle risorse naturali, problema energetico e problema ambientale

Attenzione: qui viene tirata in ballo "la paura". La paura è un sentimento, un'emozione. Legittima e talvolta sacrosanta, ma non è un po' strano che si voglia creare una teoria etica della responsabilità sul fondamento, non della ragione, ma del sentimento della paura? E i grandi problemi del presente, non è che ci appaiono tali solo perché, appunto del presente? È sempre stata caratteristica del pensiero umano concepire la propria epoca come speciale e unica rispetto a tutte le altre, ma ha davvero senso dire che i problemi affrontati dalle generazioni passate erano piccoli e insignificanti in confronto ai nostri?

Hans Jonas è un filosofo di certo rilievo (pare), allievo di Heidegger. Ma il suo principio di responsabilità, che già mi pare piuttosto problematico, si è evoluto poi, nel pensiero ambientalista, in una delle più micidiali arme retoriche mai concepite, il cosiddetto "principio di precauzione", vero e proprio mantra di tutti i fuffari no-global-ambientalisti del mondo.

Non esiste una definizione chiara ed univoca del principio di precauzione (né, del resto, potrebbe esserci), ma in buona sostanza è quella regola d'azione che ci dice che di fronte all'ignoto è sempre meglio retrocedere. Per esempio, nel caso degli OGM, ci dice che non è opportuno legalizzarli e metterli in commercio finché esisterà anche il minimo dubbio che possano essere pericolosi per la salute o per l'ambiente. Ovvero, non dovremmo farlo mai, punto, perché qualunque rassicurazione venga dal fronte delle ricerche sarà sempre giudicata insufficiente.

Ma che il principio di precauzione soffra di una certa ambiguità, e anzi sia fondamentalmente contraddittorio, lo si evince dal fatto che viene evocato spesso e volentieri anche per raccomandare la linea d'azione opposta. Di fronte all'ignoto, fare sempre tutto quanto è necessario per risolvere l'eventuale problema che potrebbe presentarsi, a qualsiasi costo e per quanto l'evento temuto sia ritenuto improbabile. Ed è questo il caso di molti degli indirizzi in materia ambientale adottati anche dai governi, ad esempio per quanto riguarda il riscaldamento globale.

L'elemento comune ai due opposti indirizzi, come si vede, non risiede in nessun nucleo concettuale, ma è costituito dalla pura e semplice "paura" immobilizzante. Immobilizzante perché annulla la nostra capacità razionale di fare delle vere scelte, e quindi di vivere in una genuina dimensione etica. Un fautore del principio di precauzione potrebbe benissimo raccomandarci di costruire dei tetti per le nostre abitazioni a prova di meteorite. La probabilità di un impatto è bassissima, certo, ma la paura di perdere le nostre vite è maggiore. Peccato che in tal modo ci condanneremmo alla certezza di un'esistenza vissuta in balia degli elementi atmosferici, e che senza tetto ci pioverebbe in casa. Peccato, per fare un esempio più concreto, che il denutrimento (attuale) di grandi strati della popolazione mondiale sia considerato insignificante rispetto all'eventualità che i prodotti Ogm possano rivelarsi lievemente allergenici, o chissà che altro.

Il riscaldamento globale è una realtà ormai accertata a livello scientifico, e di probabile origine antropica. Non c'è dubbio che si tratti di un problema, dalle conseguenze potenzialmente molto gravi. Non per questo, però, uno deve sentirsi moralmente obbligato a dare la sua approvazione a qualsiasi delirante piano di salvezza del pianeta proposto dagli ambientalisti e che esca fuori dai trattati internazionali. Non senza valutare la realizzabilità del piano, i suoi costi, l'effettiva capacità di risolvere il problema, e le possibili alternative. Ma è quello che ci viene chiesto in nome del principio di precauzione, anzi in nome della semplice paura.

E non sulla base di campagne d'opinione che, invece di presentare i dati scientifici in maniera obiettiva e neutrale, come pure sarebbe possibile, stuprano la scienza (magari permettendosi pure di alterare i dati) in nome di una correttezza politica che non deve lasciare adito a dubbi, dove i buoni e i cattivi non possano confondersi agli occhi della pubblica opinione ma risultare in due netti e opposti schieramenti. Chi non è d'accordo, chi solleva dubbi, è un egoista che desidera la distruzione del pianeta.

Queste sono le considerazioni che tendono a fare di me un eco-scettico: non mi piacciono i ricatti morali. La paura può essere un'emozione sana, dicevo, ovvero può essere uno stimolo ad affrontare i problemi. Ma la scienza economica non può farne un principio epistemologico, come si sta facendo col principio di precauzione. Non senza rinunciare, in nome della bontà, al nostro status di agenti morali e responsabili. Buoni perché stupidi, buoni perché pavidi e inerti, non è mai un buon affare.

martedì 2 marzo 2010

il palazzo di Atlante

Non avendo molto da scrivere, in questi ultimi tempi, ne approfitto almeno per un piccolo post di approfondimento filosofico.

I cervelli in vasca di Putnam non mi hanno mai convinto, forse perché come esperimento immaginario è un po' troppo arzigogolato, eppure credo che ci sia qualcosa di fondamentalmente corretto nella teoria del riferimento su cui si basa.

Da Cartesio a oggi il pensiero occidentale è rimasto un po' come prigioniero di un incantesimo, e rinchiuso in un palazzo fatato, come quello messo su dal mago Atlante, descritto da Ariosto nell'Orlando Furioso: chi entra in questo palazzo crede di avere davanti a sé l'oggetto del proprio desiderio, ma in realtà si tratta solo di un'illusione dei sensi. Così Orlando insegue l'amata Angelica, senza poterla mai raggiungere in quanto lei non è realmente presente. Allo stesso modo, chiunque creda di aver quasi raggiunto la verità, o anche una piccola minuscola verità, è alla fine destinato a disilludersi di fronte alla sua inattingibilità ultima.

La possibilità che tutto quanto vediamo e sentiamo sia semplice apparenza, postulata da Cartesio, ha stravinto di fronte agli argomenti inadeguati con cui Cartesio stesso cercò di confutarla (ricorrendo a un intervento provvidenziale della divinità), condannandoci a un'era di scetticismo nei confronti della stessa nozione di verità, laddove il semplice andarne in cerca viene scambiato per dogmatismo e arroganza intellettuale. Non possiamo uscire da noi stessi e confrontare le nostre credenze sul mondo col mondo stesso, non avendo appunto altro che le nostre credenze, non possiamo scappare dalla prigione dell'io in cui Cartesio ci ha rinchiusi. A meno che.

Lo scetticismo cartesiano si appoggia, in fin dei conti, sulla comprovata indipendenza logica fra il contenuto di una credenza e la sua verità. Ovvero: il fatto che io creda ai cavalli alati non mi dà nessuna garanzia che i cavalli alati esistano veramente. Si tratta di due cose diverse: da una parte la rappresentazione dei cavalli alati, dall'altra i cavalli alati in persona. Può esserci la rappresentazione senza la cosa, e la cosa senza la rappresentazione.

E però, pensandoci meglio, è spesso vero anche il contrario: se non una relazione logica c'è spesso una relazione di tipo causale fra il sorgere di una credenza e il suo contenuto. Ovvero, è proprio la bianchezza della neve che mi spinge a credere che la neve è bianca. I miei pensieri non sorgono dal nulla, ma hanno delle cause, e non sono destinati a un'esistenza virtuale nel limbo della coscienza, ma hanno a loro volta degli effetti. Se la teoria "causale" è corretta, allora le nostre credenze sono effettivamente collegate al mondo, non isolate nella prigione dell'anima.

Il problema è solo che la catena causale può essere diversa da quella che crediamo: qualcosa, ad esempio una burla ben realizzata, può portarmi a credere che esistono i cavalli alati senza che i cavalli alati esistano davvero, però c'è almeno questo qualcosa che mi inganna. In generale, possiamo confidare che le caratteristiche del mondo sono rispecchiate abbastanza fedelmente nei nostri pensieri, anche perché altrimenti non avremmo potuto sopravvivere: chi crede all'esistenza dei cavalli alati potrebbe incontrare qualche difficoltà nel riprodursi.

Questo approccio naturalistico, non fenomenologico, ai nostri pensieri, non elimina qualsiasi tipo di scetticismo, non ci dà nessuna garanzia riguardo alla veridicità di una qualsiasi specifica credenza, ma può almeno ridurre l'attrattiva di un certo tipo di solipsismo. Un argomento di Putnam per sostenere questo punto, non meno fantascientifico di quello dei cervelli in vasca, ma secondo me un po' più convincente, è quello su Terra Gemella.

Si immagini un'astronave terrestre che capita, un giorno, su un pianeta molto simile al nostro, anzi, quasi identico. Ci sono più o meno le stesse specie animali e le stesse piante. C'è persino una specie del tutto simile agli esseri umani e, colmo dei colmi, parla la stessa lingua degli astronauti. Le conoscenze scientifiche di questi esseri sono però un po' meno avanzate delle nostre, arrestandosi all'equivalente del nostro diciottesimo secolo.

Su questo pianeta c'è anche una sostanza molto simile all'acqua, trasparente, liquida, commestibile, dissetante, eccetera. Solo, analizzandone la struttura microscopica, gli astronauti scoprono che non è vera acqua, ma una sostanza di struttura atomica diversa (che chiameremo XYZ) con caratteristiche superficiali identiche a quelle dell'acqua solo per coincidenza.

La questione è: quando una casalinga di Voghera e un abitante di Terra Gemella parlano dell'acqua, parlano della stessa cosa? L'immagine mentale è esattamente la stessa (si ricordi che gli abitanti di Terra Gemella non hanno accesso alle nostre conoscenze scientifiche, e nemmeno la casalinga di Voghera) quindi si sarebbe tentati di rispondere di sì, se diamo importanza alla sola rappresentazione mentale.

Secondo Hilary Putnam invece è chiaro che il riferimento dei due termini è diverso, per il semplice fatto che il pensiero della casalinga è causato dall'acqua (cioè da H2O) e quello degli extraterrestri da XYZ, che sono due cose diverse, nonostante tutto. E questo vuol dire che lo spettro di Cartesio, l'anima razionale così come lui la immaginava, non esiste. Non potrebbe, in effetti, pensare a niente, se non ci fosse niente fuori di lui a causare i suoi pensieri. Cosa che vale, mutatis mutandis, anche per i cervelli in vasca. Si potrebbe anche dire "io penso, e dunque qualcosa, oltre me, esiste".

P.S. Nell'Orlando furioso l'incantesimo viene spezzato proprio da Angelica, l'oggetto del desiderio di Orlando, grazie all'anello magico che la protegge da qualsiasi magia. Questo non consentirà comunque a Orlando di raggiungerla e conquistarla, ma consente almeno alla storia di andare avanti.