lunedì 23 marzo 2009

milionari e poveracci

Cos’avranno in comune l’abitante di una bidonville africana e un banchiere di Wall Street messo in difficoltà dalla crisi economica?

Secondo l’economista peruviano Hernando de Soto (da non confondere con l’omonimo conquistatore), entrambi soffrono di mancato accesso al credito dovuto alla non trasparenza dei loro titoli di proprietà. La differenza, enorme, fra i due, è che mentre la difficoltà del banchiere è di recente data e (si spera) transitoria, quella del povero africano data di secoli, ed è cronica.

Nel libro Il mistero del capitale de Soto aveva dato una sua spiegazione, piuttosto convincente, alla vecchia questione sul perché i paesi dell’Occidente sembrano avere avuto un maggiore successo di altri nella via alla ricchezza e alla prosperità. Parte della soluzione, ed è ovvio, sta nel sistema capitalistico e di libero mercato. Questo però non spiega perché molti paesi del terzo mondo ed ex comunisti che hanno adottato in tutta fretta le riforme economiche di stampo liberista consigliate dalle istituzioni finanziarie dell’Occidente non abbiano conosciuto l’immediato boom economico che molti si aspettavano, spesso andando incontro invece a tremendi contraccolpi.

L’idea di de Soto è che in questi paesi le riforme economiche non sono state adeguatamente coperte da riforme legali in grado far emergere il settore economico extra-legale, permettendo l’accesso a titoli di proprietà standardizzati, trasparenti, e fungibili. Il fatto è che spesso i poveri non sono poi così poveri quanto crediamo: l’ammontare del valore dei beni immobiliari detenuti dagli abitanti di alcune periferie fatiscenti del terzo mondo, se sommato, è enorme. Il problema è questi valori non possono essere trasformati in capitale, non hanno una rappresentazione simbolica standardizzata che permetta di farli viaggiare, di venire divisi o raggruppati, oppure essere usati come garanzia di credito, per il semplice fatto che non sono detenuti legalmente, o almeno non in una forma che possa essere riconosciuta da tutti.

Questa è la differenza fra il semplice “possesso” fisico di un dato bene e la proprietà legalmente tutelata, registrata in una forma astratta in un certo modo svincolata dall’oggetto materiale. La proprietà è ciò che permette l’esistenza del capitale vero e proprio, e quindi l’accesso al credito e l’esistenza di banche e istituzioni finanziarie funzionanti ed efficienti. Ciò che tiene lontano troppe persone dalla proprietà legale è, in una parola, la burocrazia. Ad esempio, secondo quanto scritto nel libro, a Manila per formalizzare un possesso urbano informale ci vogliono 168 passaggi burocratici e un tempo che va dai 13 ai 25 anni. Invece a Lima per aprire un laboratorio di abbigliamento occorre fare pratiche per 289 giorni e spendere 1231 dollari, trentanove volte il salario minimo mensile. I costi per uscire dall’illegalità e accedere ai vantaggi della legalità sono quindi troppo onerosi, e finiscono per privilegiare pochissimi individui tenendo alla larga la stragrande maggioranza delle persone che pure avrebbero le potenzialità per arricchire il paese.

Esistono quindi possessi, e anche imprese, destinati a rimanere capitale morto perché condannati a rimanere nell’illegalità. In mancanza di un sistema legale che formalizzi i possedimenti delle persone, detenuti extra-legalmente, i poveri si arrangiano ricorrendo a consuetudini e sistemi informali talvolta anche efficaci per risolvere le loro controversie, che però non sono integrati né col sistema legale internazionale né con altri sistemi informali concorrenti. Il compito, non semplice, delle riforme politiche e giuridiche nei paesi del terzo mondo sarebbe quindi quello di portare a galla questo capitale morto riuscendo a integrare tutti questi sistemi informali di tutela della proprietà, senza fare violenza all’esistente, un un’unica forma accettata da tutti, accessibile e funzionante.

Riforme economiche e giuridiche “calate dall’alto” delle massime istituzioni finanziarie non possono fare molto per risolvere la situazione, né gli aiuti umanitari offerti dai paesi avanzati possono essere considerati più che un palliativo. È ovvio che i paesi del terzo mondo soffrono per una molteplicità di carenze, ad esempio di infrastrutture. Costruire ponti, dighe, sistemi di irrigazione, reti fognarie, ferrovie e strade aiuta, ma non risolve finché non si trova il modo di far circolare il capitale morto detenuto più o meno legittimamente dalle persone che si desidera aiutare.

Il segreto dell’Occidente è proprio quello di aver costruito, nel corso dei secoli e in maniera quasi inconsapevole, un sistema legale di tutela della proprietà che è la vera linfa del capitalismo. Il problema è che, proprio perché mai esplicitamente teorizzata, l’importanza di un sistema formale e standardizzato di titoli di proprietà dove ogni nostro avere è registrato e al quale si possa accedere con facilità non è stata giustamente apprezzata, e proprio questo potrebbe essere alla base dell’attuale crisi finanziaria, secondo un recente articolo di De Soto pubblicato da Newsweek (qui l’intervista).

È successo infatti che in epoca recente accanto ai tradizionali e consolidati strumenti finanziari, che si basano tutti su titoli di proprietà trasparenti e le cui registrazioni sono facilmente rintracciabili, si sono moltiplicati in maniera selvaggia nuovi strumenti che rendono la contabilità sempre più difficile, per non dire impossibile. Sono i famosi “derivati”, titoli il cui valore dipende da altri beni o attività sottostanti e che possono essere impacchettati, frazionati, rivenduti e comprati un numero indefinito di volte, e poi diventare la base di nuovi titoli "derivati" da essi, fino a perdere qualsiasi legame visibile con l’originaria attività sottostante.

Non c’è nulla di male nello strumento in sé: il problema è la maniera assolutamente deregolamentata con cui questi strumenti sono stati creati, che hanno appunto creato una situazione di anarchia e confusione simile alla molteplicità dei sistemi informali di tutela della proprietà vigenti in quei paesi poveri dove la legge non fornisce un’alternativa praticabile, e nella quale a un certo punto non si è più capito chi aveva che cosa. Una relativamente piccola fluttuazione del mercato immobiliare ha allora determinato una sfiducia e una crisi del credito generalizzata e globale: nessuno sa a quanto ammontano e dove stanno i titoli tossici, chi li detiene, e chi invece è solvibile.

Il confronto fra i modi in cui i governi stanno cercando di uscire dalla crisi, e il modo tradizionale con cui i paesi avanzati tentano di dare una mano al terzo mondo, rafforza ulteriormente l’analogia. Quello che tutti si propongono di fare al momento, infatti, è ridare fiducia ai mercati investendo enormi somme statali e pompando liquidità nel sistema bancario. Questo può aiutare, ma forse non risolve, e non fa che rimandare il problema. Quello che occorre sono regole condivise che permettano di tenere traccia in maniera chiara di ogni titolo di proprietà detenuto dagli agenti economici e del suo effettivo valore. Senza un tale sistema rischiamo di avere un capitalismo senza capitale, fatto solo di carta straccia cui nessuno attribuisce più un valore, affiancato da capitale morto che non sapremmo come far rendere, proprio come accade in una bidonville africana.

Sulla crisi economica sono stati versati fiumi d’inchiostro: ho voluto segnalare questo contributo perché mi è parso inquadrare la situazione in una prospettiva particolarmente interessante, per l’analogia in un certo modo inaspettata fra le difficoltà affrontate oggi dai paesi più ricchi del mondo e quelle dei paesi da sempre più poveri. La globalizzazione ha davvero avvicinato fra loro tutti i popoli del pianeta, ma forse in un modo che nessuno aveva previsto.

martedì 17 marzo 2009

quid est veritas?

Galileo Galilei credeva fortemente nella validità del sistema copernicano, eliocentrico, ritenendolo superiore al sistema tolemaico, geocentrico. Ci credeva tanto che per superare alcune obiezioni alla teoria (obiezioni sensatissime rispetto alla conoscenza dell’epoca) dovette inventare da capo una nuova fisica, indipendente da quella aristotelica fatta propria dalla maggior parte degli uomini colti della sua epoca.

Una fisica davvero rivoluzionaria che arriva a ribaltare il senso comune riguardo ciò che deve essere spiegato e ciò che invece non richiede spiegazione. Nel sistema di Galileo, infatti, non è la persistenza del moto che ha bisogno di essere giustificata e compresa, come tenta di fare Aristotele con la sua teoria dell’impulso, ma solo le variazioni nel moto. Non si tratta semplicemente di una nuova ipotesi: la fisica galileiana cambia il concetto stesso di “evento”, fa saltare in aria le categorie ontologiche fondamentali del suo tempo.

È una fisica, anche, che si avvale sì del metodo empirico, ma col fine di scalfire e andare oltre il regno delle pure apparenze. La natura non va semplicemente osservata, nell’attesa che ci dica qualcosa: essa va interrogata, torturata, manipolata nel tentativo di estorcergli la verità. Gli strumenti di tortura impiegati sono due: gli esperimenti (“sensate esperienze”) e la matematica (“certe dimostrazioni”). Con gli esperimenti pieghiamo la volontà dell’interrogato e lo facciamo parlare, la matematica è il linguaggio che ci consente di interpretare quel che dice. Le qualità e le essenze di Aristotele devono poter essere tradotte nel linguaggio delle quantità e delle proprietà misurabili e controllabili, se non vogliamo che la natura continui a prenderci in giro.

Galileo aveva molta fiducia nel suo metodo per scoprire la verità, tanto da non ritenere la conoscenza raggiunta dall’uomo tramite questi strumenti qualitativamente diversa dalla conoscenza divina. La conoscenza di Dio e quella dell’uomo differiscono solo quantitativamente, vale a dire che Dio sa più cose di tutti noi, ma una proposizione come “2 + 2 = 4” è vera allo stesso modo per lui e per noi. Galileo quindi, pur genuinamente credente, seppe anche conferire una profonda dignità all’uomo e al suo posto nel cosmo, legata alla sua voglia e alla sua capacità di scoprire il vero.

Purtroppo queste idee di Galileo si scontrarono con quelle della Chiesa. Non la sua teoria copernicana, si badi bene, ché il motivo del contendere non era quello. Ciò in cui Galileo e la Chiesa si scontrarono fu proprio una diversa concezione della verità e della ragione. Alla Chiesa che la Terra girasse intorno al Sole o il Sole intorno alla Terra non importava poi molto, ed era prontissima ad abbracciare la nuova teoria copernicana, una volta che fosse stata trovata una inequivocabile dimostrazione (che Galileo cercò di trovare, ma oggettivamente senza successo).

La Chiesa però non poteva accettare che un semplice mortale, andando persino contro le Scritture, si arrogasse il diritto di determinare – o anche solo opinare – il Vero e il Falso, cose che appartengono solo a Dio (e naturalmente ai suoi rappresentanti sulla Terra). La scienza, agli occhi della Chiesa, non deve avere la pretesa di darci la conoscenza, ma è e deve rimanere un semplice strumento pratico. Va benissimo, allora, descrivere il moto dei pianeti “come se” girassero intorno al Sole, se in questo modo ci semplifichiamo i calcoli e ci rendiamo la vita più facile: non bisogna dire però che questa è la verità fisica delle cose, perché il sigillo della Verità non può essere dato da chiunque, e specie su materie così delicate.

Allora, le cose andarono più o meno in questo modo. Galileo, in odore di eresia, venne convocato dal cardinale Roberto Bellarmino (già esperto in proposizioni eretiche per aver partecipato in precedenza al processo contro Giordano Bruno poi conclusosi col rogo) che lo ascoltò pazientemente. Poi Bellarmino gli disse: “Caro Galileo, lei farà cosa saggia se si contenterà di parlare ex suppositione, come faceva Copernico, e non assolutamente. Perché una cosa è dire che una volta supposto il moto della Terra tutte le apparenze riguardo al moto dei pianeti e del Sole si spiegano molto più facilmente che non col postulare strane orbite epicicloidali, e in questo non c’è nulla di male, ma un’altra cosa è affermare che il Sole sia realmente al centro dell’Universo e che la Terra gli giri intorno, il che non solo è alquanto provocatorio e irritante, ma potrebbe anche recare danno alla Fede. E qvesto è qvanto”.

Bellarmino, come si può vedere dalle sue affermazioni, non era un rozzo fondamentalista ignorante, ma un intellettuale raffinatissimo, oggi venerato come santo e come Dottore della Chiesa (un circolo molto ristretto ed esclusivo). Galileo invece era in fondo un sempliciotto, e non capì molto bene il discorso di Bellarmino. Non riusciva a comprendere infatti come si potesse sostenere una cosa e il suo contrario al medesimo tempo. Però ringraziò Bellarmino e se ne andò: in fondo era stato momentaneamente scagionato dalle accuse, e poi aveva confusamente intuito che non gli si proibiva in assoluto di continuare le sue ricerche.

Mantenne comunque un profilo abbastanza basso negli anni seguenti, finché non capitò una cosa che era destinata a ricacciarlo nei guai. Venne eletto papa il fiorentino Maffeo Barberini (Urbano VIII), persona che in passato aveva già difeso Galileo in occasione di alcune polemiche, e quindi poteva essere ritenuta di atteggiamento più amichevole dei predecessori. Una conferma a questa supposizione arrivò quando Galileo dedicò al nuovo pontefice il libro Il Saggiatore, sui moti delle comete, ricevendone un aperto apprezzamento. Galileo credette finalmente di aver trovato un potente protettore quando Urbano VIII lo incoraggiò a scrivere un trattato che mettesse a confronto i due massimi sistemi del mondo (la teoria tolemaica e quella copernicana). Anche in questo caso, però, vi fu una grave incomprensione:

URBANO: Galileo, mi piacerebbe leggere un buon libro di astronomia. Perché non lo scrivi tu?
GALILEO: Sul serio, posso? Davvero davvero?
URBANO: Sì, ma mi raccomando, il libro dev’essere NPOV.
GALILEO: Dev’essere come?
URBANO: Ma dove vivi? NPOV, Neutral Point of View. Non deve contenere espressioni faziose e giudizi perentori, nemmeno quando chi li esprime è assolutamente convinto della loro verità, ma presenterà piuttosto le diverse opinioni in contrasto o la visione più condivisa ed accertabile, segnalando lealmente le ragioni dei sostenitori e quelle degli oppositori, col supporto di fonti autorevoli e dati attendibili.
GALILEO: Credo di aver capito. Scriverò il mio trattato in forma di dialogo, in modo di dare spazio a tutte le voci in capitolo.

Ma Galileo era rimasto un povero ingenuo, e proprio non riusciva a dissimulare le proprie idee. Poiché lui credeva nella teoria copernicana non riusciva a trovare argomenti altrettanto validi per quella tolemaica, anche perché forse se li avesse trovati avrebbe smesso di dubitarne. Così nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo il difensore dell’ipotesi geocentrica, l’aristotelico Simplicio, fa regolarmente la figura del cretino, mentre gli argomenti di Salviati appaiono sempre i più brillanti. Vi è un terzo personaggio, Sagredo, che dovrebbe fungere appunto da arbitro neutrale, solo che finisce sempre per dare ragione a Salviati. L’unica volta in cui Salviati è d’accordo con Simplicio, alla fine del libro, è quando questi afferma un’idea che era stata personalmente esposta a Galileo proprio dal papa, quella secondo cui Dio nella sua onnipotenza avrebbe potuto benissimo farci sembrare le cose in un modo mentre la vera spiegazione risiederebbe altrove. Urbano se ne risentì un pochetto, non si sa se perché credeva di essere stato preso in giro oppure perché non aveva piacere che Galileo spiattellasse a tutti discorsi fatti dopo un paio di bicchieri di buon vino.

Scoppiò un casino: Galileo venne accusato di aver agito in malafede e con l’inganno, e a dimostrazione di ciò venne rispolverato quel vecchio colloquio con Bellarmino, quello troppo intelligente per il provinciale Galileo che non ci aveva capito nulla. Per persuaderlo ulteriormente del suo errore gli vennero mostrati alcuni strumenti di tortura, ma non erano esperienze e dimostrazioni, erano corde e tenaglie. Insomma a Galileo non rimase altra scelta che chiedere scusa, dire di essersi sbagliato a pensare di poter esprimere un’opinione, e rimettersi alla clemenza dei suoi accusatori. Però si dice (secondo voci non confermate) che con lo sguardo rivolto in basso, mormorò sottovoce: “Eppur si muove”. Non aveva ancora capito.

Oggi pare che Galileo sia stato finalmente riabilitato: persino la Chiesa ha ammesso con Giovanni Paolo II che in effetti vi fu una "tragica reciproca incomprensione", e quindi in fondo Galileo non era cattivo, era solo un po’ ignorante. Non aveva saputo cogliere i preziosi suggerimenti di Bellarmino, che era addirittura un "Popper ante-litteram" come dice il Tg2 (peccato solo che Popper definisca la posizione di Bellarmino come un tradimento nei confronti della scienza). Ma le sue scoperte, quelle, non sono più in discussione. Infatti quest’anno si celebra il quattrocentesimo anniversario proprio delle prime scoperte celesti di Galileo. Se passate a Firenze uno di questi giorni andate a Palazzo Strozzi, dove è stata allestita una bella mostra per ricordare l’evento, intitolata a Galileo ma in realtà sulla storia dell’astronomia dall’antichità fino agli albori dell’epoca moderna (nata dall'ingenuità di Galileo). In una stanza della mostra, possiamo anche ammirare quella che dovrebbe essere considerata l’ultima risposta di Galileo, ai Dottori della Chiesa di ieri e di oggi. Qui.

giovedì 12 marzo 2009

rimescolamenti

Quello che mi fa arrabbiare, quando vedo gente in rete che si mette a delirare intorno a truffe immaginarie come quella del “signoraggio”, è che le stesse persone spesso non si accorgono di cose ben più evidenti che stanno proprio sotto il loro naso, ma alle quali non sono interessate semplicemente perché non c’è nessun misterioso complotto da scoprire. Ad esempio, non sento mai dire che la pressione fiscale nel nostro paese potrebbe essere ridotta di una buona ventina di punti, senza far star peggio nessuno, e anzi facendo star meglio tutti. Basterebbe eliminare il fiscal churning.

Il fiscal churning (rimescolamento fiscale) è la misura in cui le stesse persone vengono tassate e sovvenzionate nello stesso tempo. In pratica è quel che succede quando il governo preleva due euro a Tizio per darli a Caio, e contemporaneamente preleva due euro a Caio per darli a Tizio. Non è una mia invenzione: parrà strano, ma questo è quel che avviene ogni anno quando viene varata una nuova legge finanziaria.

Per dare un’idea dell’estensione del fenomeno, il livello di risorse economiche spostate in questo modo nel nostro paese, nel 1993, era dell’ordine del 22,7% del PIL. Considerando che l’intera spesa pubblica annuale ammonta al 55-60% del PIL, questo significa che la spesa pubblica potrebbe essere ridotta a poco più del 30% del PIL semplicemente eliminando il fiscal churning (cioè togliendo alle stesse famiglie sia le tasse che i sussidi) (Fonte). Questo non farebbe stare peggio nessuno, e anzi farebbe stare meglio tutti, a causa dei considerevoli costi amministrativi attualmente affrontati dal fisco, senza contare l’evasione fiscale e la distorsione del sistema economico dovute all’alto livello di tassazione. Per quale motivo, allora, un governo agisce in maniera così irrazionale? Questa domanda è forse troppo intelligente per sperare di ottenere una risposta dai nostri politici, per cui proverò a rispondere io.

Si fa così per questioni di “trasparenza”, nel senso che le politiche fiscali NON devono essere trasparenti. Tutti gli elettori devono credere di essere in qualche modo beneficiati dalla politica fiscale, e a tutti deve essere data una qualche misera soddisfazione: sì, caro padre di famiglia, ti abbiamo aumentato le tasse, ma non lamentarti, perché abbiamo pensato anche a te ed è già pronto un aumento degli assegni familiari per coloro che stanno nella tua situazione.

Questa stessa mancanza di trasparenza rende possibile anche fenomeni che altrimenti sarebbero difficili da spiegare, all’interno di un sistema democratico dove in teoria conta il parere della maggioranza dei cittadini, e non di qualche lobby minoritaria. Ci dovremmo aspettare ad esempio che nel corso della “redistribuzione del reddito”, la maggior parte delle risorse venga spostata da una minoranza privilegiata, e non produttiva, verso una maggioranza di bisognosi, mentre spesso avviene il contrario.

Ad esempio, che cosa succederebbe se la compagnia aerea di bandiera di un certo paese fosse sull’orlo del fallimento, e con un passivo spaventoso, ma il governo si rifiutasse di cederla ad una solida compagnia estera che si offrisse di rilevarla con tutti i debiti, per darla invece ad una improvvisata cordata di industriali autoctoni una volta scaricati i debiti sui contribuenti? Quale governo potrebbe conservare un minimo di credibilità dopo un simile smaccato esempio di favoritismo che danneggia la stragrande maggioranza dei cittadini? La risposta è facile: qualunque governo abbastanza abile e sfacciato da mascherare l’intervento dipingendolo come un gesto di patriottismo industriale.

Non che sia difficile, per un cittadino normodotato, capire cosa stia succedendo, ma occorre tener presente che pure il tenersi informati ha un certo prezzo, e riuscire a sollevare ondate di indignazione popolare ha un prezzo ancora maggiore. Chi perde, perde relativamente poco (anche se la cifra diventa consistente una volta sommati tutti i contributi) mentre chi vince ne trae enormi vantaggi, tanto da rendere conveniente per lui fare campagne d’informazione a suo favore e investire in opere di persuasione sugli organi di governo e di stampa.

Ma forse si tratta di un esempio troppo facile e demagogico: in fondo l’operazione Alitalia un certo rumore lo ha suscitato, e anzi vi è stato un periodo in cui non si parlava d’altro. Ma perché, allora, nessuno parla mai della Politica Agricola Comune? All’interno della Comunità Europea solo un cittadino su quattro abita nelle campagne, solo uno su venti lavora nel settore agricolo, ed ancora minore è il contributo dato dall’agricoltura all’economia europea. Eppure il 40% del bilancio comunitario è destinato alla PAC, ovvero 55 miliardi di euro l’anno (0,5% del PIL dell’UE). La PAC costa a ciascuno di noi 2 euro la settimana, cioè più di 100 euro l’anno (Fonte). Per quale nobile scopo?

Alle sue origini, 50 anni fa, l’accento era posto sulla necessità di produrre cibo sufficiente per un’Europa che usciva da un decennio di carestie dovute alla guerra. I sussidi alla produzione su vasta scala e l’acquisto delle eccedenze nell’interesse della sicurezza alimentare appartengono ormai al passato. L’attuale politica dell’UE è incentrata sull’obiettivo di far sì che i produttori di alimenti di ogni genere (cereali, carne, frutta e verdura o vino) siano in grado di competere in modo autonomo sui mercati dell’UE e su quelli mondiali (Fonte).


Traduco: se inizialmente l’obiettivo era quello di far fronte a una scarsità dell’offerta di fronte alla domanda, oggi lo scopo che ci si prefigge è l’esatto contrario: data la vastità dell’offerta a livello mondiale, noi paghiamo gli agricoltori non per produrre di più, ma anzi per produrre di meno garantendogli al medesimo tempo un decente tenore di vita e tenendo i prezzi più alti rispetto a quelli di mercato. I consumatori ringraziano, i contadini del terzo mondo esclusi dalla concorrenza pure. La cosa naturalmente viene mascherata con le parole d’ordine della sicurezza alimentare e della protezione dell’ambiente, ma il bello è che se fossimo davvero interessati all’ambiente, dovremmo agire esattamente in senso contrario. Dovremmo tassare chi si ostina a vivere in campagna, e favorire l’urbanizzazione.

Per un amante della natura è certamente più romantico vivere in un casolare situato a chilometri di distanza da qualsiasi avamposto della civiltà, solo che, dovendosi spostare, l’amante della natura userà un fuoristrada e consumerà molta più benzina di qualsiasi altro cittadino. Bisognerà allacciarlo alla rete elettrica, al gas e all’acqua, bisognerà portargli Internet e il telefono in casa, e inoltre è prevedibile che consumi molto di più in riscaldamento. Le metropoli saranno più brutte (per alcuni) ma sono, da molti punti di vista, dei paradisi ecologici.

Le città, inoltre, non sono semplici agglomerati di case e persone: sono degli agglomerati di idee. Ciò che spinge la maggior parte delle persone a concentrarsi in così poco spazio è, fra le altre cose, il fatto di poter incontrare altre persone e sfruttare le maggiori opportunità offerte da questi incontri. Trasferirsi in una città, quindi, non arreca vantaggio solo a colui che si trasferisce, ma produce una esternalità positiva. È un po’ come il telefono: non serve quasi a niente finché ci sono solo due o tre apparecchi in giro, ma ogni nuovo apparecchio installato aumenta esponenzialmente l’utilità dell’invenzione. Nelle parole di Colin Ward (pensatore anarchico):

La città è una proprietà comune dei suoi abitanti. È, in senso economico, un bene pubblico […] il valore astronomico assegnato al centro della città emerge solamente dal fatto che è al centro delle attività di milioni di persone. Loro, non i proprietari, hanno creato questi valori, che evidentemente appartengono ai cittadini.


Occorrerebbe quindi aiutare chi decide di trasferirsi in centro, contribuendo alla creazione di questo valore comune. Naturalmente, la politica dei piani regolatori va in senso esattamente contrario: tende a limitare la costruzione di nuovi alloggi in zone ad alta densità abitativa, favorendo i proprietari di immobili e penalizzando gli inquilini, facilitando le speculazioni, e aumentando vertiginosamente il prezzo degli affitti.

Questi sono i complotti veri. Non sono segreti, e infatti per saperne qualcosa basta andare a leggere qualche libro o rivista di economia. Non troverete accenni al fiscal churning o alla PAC, invece, sui vari siti dedicati alla contro-informazione: quelli che consigliano di curare il cancro col bicarbonato perché le terapie ufficiali sono una truffa sanitaria, che parlano di aerei che rilasciano scie chimiche allo scopo di sterminare i nove decimi dell’umanità, quelli per cui i terremoti e gli uragani sono telecomandati dagli americani, e quelli per cui i telefonini cuociono le uova.

Ma non è un complotto per danneggiare la democrazia. Anche per questo esiste una spiegazione del tutto razionale: informarsi e documentarsi costa. Persino lo scrivere questo modesto post mi è costato qualcosina. Riempirsi la testa di stronzate invece non costa nulla. Almeno, a breve termine. E i nostri politici lo sanno, per questo non mi preoccuperei troppo della libertà di parola su Internet. A chi conviene eliminare Beppe Grillo, finché continuerà a occuparsi delle bio-palle?

sabato 7 marzo 2009

ha mai visto un comunista bere acqua?

Un classico, ma oggi è un giorno un po' speciale.



RIPPER: Mandrake.
MANDRAKE: Generale.
RIPPER: Ha mai visto un comunista bere un bicchier d’acqua?
MANDRAKE: Beh… No, veramente non l’ho mai visto.
RIPPER: Vodka, ecco quello che bevono. Mai acqua.
MANDRAKE: Sì, adesso che ci penso mi pare proprio che bevono vodka.
RIPPER: Per nessuna ragione un comunista berrà mai acqua… e sanno bene quello che fanno.
MANDRAKE: Oh… Ah, e già… Però non vedo dove vuole arrivare, generale.
RIPPER: All’acqua. Ecco dove voglio arrivare. Mandrake, l’acqua è la base di tutta la vita. Sette decimi della superficie terrestre è acqua. Ma lo sa che anche lei per il 70% è acqua?
MANDRAKE: Caspita!
RIPPER: E come tutti gli esseri umani, io e lei abbiamo bisogno di acqua pura per rimpiazzare i nostri fluidi più preziosi.
MANDRAKE: Già.
RIPPER: Incomincia a capire?
MANDRAKE: Eh, eh, eh, eh… Sì. Eh, eh, eh, eh, eh.
RIPPER: Mandrake…
MANDRAKE: Eh, eh, eh, eh.
RIPPER: Mandrake, Lei non s’è mai domandato perché io bevo solo acqua piovana, o distillata? E solo alcool medicinale?
MANDRAKE: Beh, l’ho notato, veramente. L’ho notato, generale.
RIPPER: Lei sa cos’è la fluorocontaminazione? Fluorocontaminazione dell’acqua?
MANDRAKE: Eh… e sì, sì, ne ho sentito parlare, sì. Sì.
RIPPER: Ma lo sa che cos’è?
MANDRAKE: No, no, non credo di saperlo.
RIPPER: Quindi non sa che la fluorocontaminazione è forse il piano più mostruoso che i comunisti abbiano mai concepito ai nostri danni. Siamo in due a giocare a questo gioco! Questo sì che si chiama sparare! Mandrake, venga!
MANDRAKE: M’ha chiamato, generale?
RIPPER: Venga qui e mi tenga la cinghia.
MANDRAKE: Ah… Già, ma… ma… ma io… non ho… non ho una gran pratica, per così dire, di mitragliatrici. Anche durante la guerra sapevo solo spingere il bottone.
RIPPER: Mandrake, in nome di Sua Maestà e del vostro Parlamento, venga qui e mi tenga la cinghia!
MANDRAKE: Generale, io vorrei tanto venire, mi creda, ma il guaio è che sto già tenendo la cinghia. Quella della gamba. Sì.
RIPPER: La gamba?
MANDRAKE: E sì, la gamba. Lei non lo sa, ma io ho una gamba di legno e disgraziatamente me l’hanno colpita.
RIPPER: Mandrake, venga che arrivano le giubbe rosse. Presto!

RIPPER: Mi stia vicino, Mandrake. Forza, Mandrake, dai con la cinghia!
MANDRAKE: Generale, non sarebbe meglio metterci in un angolino della stanza un tantinello più tranquillo?
RIPPER: No, no, no, no, va benissimo qui.
MANDRAKE: Ah, ah…
RIPPER: Mandrake…
MANDRAKE: Eh, eh…
RIPPER: Lo sa che oltre a contaminare l’acqua stanno studiando anche il modo di contaminare il sale, la farina, i succhi di frutta, oltre allo zucchero, al latte… Ai gelati! I gelati, Mandrake! Quelli per i bambini.
MANDRAKE: Porca l’oca!
RIPPER: E lo sa quando hanno incominciato?
MANDRAKE: Eh… No, non lo so, generale.
RIPPER: Nel 1946.
MANDRAKE: Ah…
RIPPER: Nel 946, Mandrake… Lo vede come combina con il complotto comunista che ha seguito la guerra? È ovvio, non le pare? Una sostanza estranea viene introdotta nei nostri preziosi fluidi vitali senza che l’individuo se ne accorga o che vi si possa opporre. Ecco come lavora, questa gente senza scrupoli.
MANDRAKE: Generale, senta, mi dica, dica un po’: quand’è che lei ha cominciato a dare i nume… A dare segni… Insomma, a pensarla così?
RIPPER: Eh, beh, sa… Io ho incominciato ad avere i primi sospetti durante l’atto fisico dell’amore.
MANDRAKE: Eh?
RIPPER: Sì, sì. Insomma, come una sensazione di stanchezza, come un vuoto dentro di me. Fortunatamente io interpretai questi sintomi nel modo più esatto. Perdita di essenze. Ma le assicuro che non mi succede più, Mandrake. Le donne capiscono qual è il mio potere e cercano la linfa vitale. Io non evito le donne, Mandrake.
MANDRAKE: No?
RIPPER: Però nego loro la linfa vitale.
MANDRAKE: Eh, eh, eh, già, già, naturale.


Comandante Straker, mi dica un po': quand'è che lei ha cominciato a pensarla così? E anche lei nega la linfa vitale?

domenica 1 marzo 2009

Paperino contro Marx


"Finché la sua figura sorridente passeggerà innocentemente per le strade del nostro paese, finché Paperino sarà potere e rappresentazione collettiva, l'imperialismo e la borghesia potranno dormire sonni tranquilli".

C'è un libro che mi piacerebbe venisse ripubblicato da Feltrinelli, ma purtroppo ritengo la cosa piuttosto improbabile, dal momento che non riesco a immaginare niente di più inattuale. Tale inattualità d'altronde è proprio il motivo del suo fascino. Il libro è Come leggere Paperino di Ariel Dorfman e Armand Mattelart.

I due autori, cileni, scrissero il libro nella breve stagione in cui Allende era al potere, prima del colpo di stato organizzato da Pinochet, e in un momento in cui il Cile sembrava avviarsi a diventare un paese socialista. In quella stagione gli intellettuali marxisti si interrogavano sulla perniciosa influenza culturale dell'imperialismo americano sui paesi poveri, e i fumetti di Disney erano il bersaglio perfetto in questa prospettiva. Le splendide tavole di Carl Barks diventano, sotto l'analisi di Dorfman e Mattelart, i veicoli dell'ideologia borghese al servizio dell'imperialismo americano. Può sembrare l'apoteosi del ridicolo, ma il bello invece è che le argomentazioni dei due autori sono tutt'altro che sciocche, e anzi piuttosto acute (anche tenendo presente la natura pionieristica del loro studio).

Il mondo dei paperi è un mondo dove i rapporti economici che regolano il nostro universo continuano a esistere ma vengono regolarmente occultati e mistificati. È un mondo, ad esempio, dove esiste la ricchezza, dove esistono i beni materiali, ma non esiste nessuno che produca tale ricchezza, e dove la classe dei lavoratori è scomparsa, tranne forse che per il settore terziario. È un mondo dove si vende e si compra, in continuazione e con ritmo forsennato, ma dove nessuno produce.


Qual è, dunque l'origine della meravigliosa ricchezza di Paperone? Semplice, il denaro di cui è pieno il deposito di Paperone era in origine oro (oppure qualche manufatto antico), e l'oro viene trovato sottoterra, in genere grazie a una mappa del tesoro fortuitamente capitata nelle mani di uno dei protagonisti. È l'oro degli Inca, degli Aztechi, o qualche altro antico popolo dimenticato dalla storia, il cui legame col presente si è dissolto. È una condizione necessaria, perché non deve porsi il problema riguardo la legittima proprietà del tesoro: il tesoro è una sorta di prodotto naturale della terra, ed è del primo che lo trova, colui che è stato baciato dalla Grazia e dalla Provvidenza. Una volta arrivato nel deposito di Paperone, però, anche questo residuo attaccamento al passato deve sparire, e il tesoro viene immediatamente convertito in moneta, in "liquidità". Non vediamo tracce di manufatti, nel deposito, che possano disturbare il corso delle allegre nuotate di Zio Paperone. L'oro di Paperone è puro, innocente, neutro.

I proletari, in Disneylandia, vengono trasformati in "buoni selvaggi". Sono coloro che calpestano le terre a cui viene sottratto l'oro, ma non dobbiamo immaginarceli come i discendenti degli originali possessori-produttori. Sono, anch'essi, una sorta di prodotto naturale, popoli che vivono nella beata condizione dell'infanzia innocente. Sono creature alle quali non si può far del male sottraendogli il tesoro, perché non ne conoscono il valore, l'utilità. I paperi sono buoni, e non si permetterebbero mai di rubare qualcosa (anche se la tentazione c'è). Loro non rubano, al massimo scambiano: qualche perlina di vetro, o un orologio rotto, per una cassa piena di gioielli.


L'altra trasformazione del proletariato è proprio nella figura del ladro. Il destino del ladro, del Bassotto, è inscritto nei suoi geni, o nel suo aspetto, goffo, mal rasato, mal vestito. A lui non capita mai di trovare una mappa del tesoro cui possa legittimamente aspirare perché il suo destino, la sua funzione, è proprio quella di sancire la legittimità della proprietà altrui, tentando di sottrargliela. Ogni altra possibilità di rivendicazione, o di conflitto d'interessi, è inconcepibile nell'universo Disney: o l'oro ti appartiene perché l'hai trovato (senza che tu debba porti il problema della sua origine e provenienza), o non ti interessa ("buon selvaggio"), oppure vuoi rubarlo a qualcuno.


Ma la riproduzione delle merci non è l'unica cosa che venga mistificata: analogo destino tocca alla riproduzione sessuale, essendo Paperopoli una città di zii e nipoti, dalla quale sono banditi figli e genitori, e dove l'eterno fidanzamento non è mai coronato dal matrimonio conclusivo. Le relazioni di potere non sono basate sul sangue, ma sono arbitrarie, e basate su una specie di contratto. Abbiamo cioè un rovesciamento della realtà dove la produzione delle merci appare come legata al ritmo della natura, mentre i rapporti di parentela appaiono invece come convenzionali e stipulati su base volontaria. Paperino non ha nessun obbligo nei confronti di Paperone, e Paperone non ha nessun obbligo verso Paperino, l'unica coercizione essendo rappresentata talvolta dalla minaccia di diseredarlo (ineffettiva, dato che i personaggi di Disney non nascono e non muoiono mai, e quindi Paperino non avrà mai la sua eredità). Rapporti che ricalcano i legami dell'impero americano con i paesi sottosviluppati alle sue dipendenze: lo "zio" Sam e i suoi nipotini.

Se i proletari appaiono nelle vesti infantili del buon selvaggio, i personaggi infantili (Qui, Quo, Qua) prendono invece il posto degli adulti: saggi, maturi, e assuefatti alla disciplina militare delle Giovani Marmotte. Rappresentano la coscienza, il super-io dell'ideologia colonialista, che ha bisogno di rammentarsi della propria superiorità morale rispetto ai Bassotti (visto che il comportamento a volte può risultare quasi indistinguibile). Sono loro, spesso, a rammentare ai personaggi principali i loro doveri morali.


La donna (Paperina) è invece condannata a un ruolo subalterno, passivo: impossibilitata a riprodursi, a portare a termine il fidanzamento, è costretta ad un eterno flirt, ad una eterna richiesta di favori in cambio di una promessa mai mantenuta. Alternativamente, le è aperta la carriera della strega (Amelia), in un dualismo ben noto alla società pre-emancipazione femminile. In ogni caso le donne sono escluse dall'avventura vera e propria, dalla ricerca del tesoro: la creazione e la messa in circolazione del capitale rimane una prerogativa maschile, e le donne possono solo aspettare la ricompensa per le loro civetterie.


Queste sono solo alcune delle suggestioni che provengono dall'opera di Dorfman (il quale è poi diventato famoso come autore del dramma La morte e la fanciulla, da cui è stato tratto il film di Polanski) e Mattelart. Da allora sono stati pubblicati altri studi sociologici sull'universo Disney, sicuramente più sottili, meno pervasi da furore manicheistico, e anche più filologicamente corretti (occorre tener presente che Dorfman e Mattelart avevano accesso solo alle traduzioni dei fumetti). Ma nessuno a parer mio raggiunge l'immediatezza e l'efficacia di questo piccolo studio, il quale deve essere letto con particolare spirito critico, ma può anche servire a risvegliare quello stesso spirito critico nei confronti di ciò che ci appare più innocente.

Il mondo dei valori espresso in quel libro è oggi desueto (il capitalismo come male da combattere in ogni sua forma ed espressione) ma c'è qualcosa del marxismo che rimane secondo me attuale, ed è la sua capacità di svelare i messaggi nascosti di un testo, di andare oltre l'apparenza della favola, e scoprire il mondo reale e concreto di cui le favole si nutrono: una capacità che la psicanalisi invece non ha, sostituendo le creature dell'immaginazione con parti immaginifici ancora più fantastici e mostruosi.