venerdì 30 dicembre 2011

una cosa abbastanza facile




Qualche anno fa, quando c'era un governo di centrosinistra e Bersani aveva tentato di liberalizzare qualcosa, riuscendo più o meno solo ad eliminare i costi fisse delle ricariche telefoniche, fui abbastanza stupito di sentire quello che era stato il Ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, criticare questa iniziativa in Parlamento come una "finta liberalizzazione" che non avrebbe comportato nessun vantaggio per i consumatori, in quanto le compagnie telefoniche avrebbero semplicemente alzato le tariffe per compensare le perdite.

Certo che l'avrebbero fatto, pensavo. È nel loro diritto, e infatti che liberalizzazione sarebbe quella che impedisce di alzare le tariffe, o impone un prezzo massimo a un dato prodotto o servizio? Pensai allora che Tremonti si stava approfittando (poiché non credo che fosse così ignorante delle più elementari nozioni economiche) di una certa carenza di comunicazione da parte dei politici di centrosinistra, che forse non avevano spiegato bene ai loro elettori in cosa consistevano i vantaggi per i consumatori di certe "riforme" (se così vogliamo chiamarle). E che allora ogni tanto bisogna smetterla di fare i superiori e adattarsi a spiegare l'ovvio, anche a costo di apparire banali.

Forse finché paghiamo un euro per una ricarica telefonica da 20 euro (un costo quindi del 5% sul servizio) oppure quando al ristorante paghiamo un coperto di 3 euro per una cena da 60 euro, ovvero quando le cifre sono relativamente modeste, non ci accorgiamo di nulla. Possiamo quindi pensare che non ci sia nessuna differenza fra il pagare 20 euro + 1 di costi di ricarica o il pagare 21 euro di ricarica, oppure tra il pagare 60 euro + 3 di coperto e il pagare 63 euro di conto, e invece c'è una differenza che apparirebbe evidente se solo provassimo a gonfiare i costi di ricarica (o del coperto). Perché, che accadrebbe se al ristorante il coperto fosse di 50 euro? O se per entrare in un negozio di vestiti ci obbligassero a lasciare 100 euro all'ingresso?

Accadrebbe che tutti quelli che entrano nel negozio sarebbero praticamente forzati a spendere qualcosa come 2000 euro in vestiti, se volessero mantenere la percentuale del 5% di costi fissi. Se intendessi comprare solo una sciarpa che costa 20 euro non potrei farlo a meno di non essere disposto a spendere 120 euro, che magari per quella sciarpa è un po' troppo, oppure a comprare ancora più cose nel tentativo di ammortizzare i costi di ingresso. Il coperto del ristorante, per quanto possa apparire una cifra modesta, è un volgare trucco per obbligarvi a spendere ancora di più di quanto non avreste fatto se non ci fosse stato il coperto, a mangiare di più, e quindi ingrassare e rendervi obesi, maggiormente soggetti a malattie cardiache e circolatorie, e conseguentemente con gravi danni anche alla spesa sanitaria nazionale. Tutto per 3 euro di pane e coperto.

Naturalmente accadrebbe anche che molte persone non entrerebbero mai in quel negozio perché non potrebbero affrontare quei costi, infatti avrebbero potuto permettersi la sciarpa ma non l'ingresso. Questo non è un problema per il ristorante che ha un numero di posti limitato, e finché si riempie può permettersi di fissare il prezzo del coperto a qualunque cifra desideri (può anche prendere a frustate i clienti se questi continuano a venire), mentre potrebbe trasformarsi in una grave perdita di opportunità per il negozio, ovvero in meno sciarpe vendute. Non è un caso che di solito i negozi di vestiti non hanno costi fissi d'ingresso, e che si paghi solo la merce acquistata, e che siano in questo diversi dai ristoranti. Anzi, se qualcuno li obbligasse a mettere questi costi la cosa si trasformerebbe in un danno doppio, ovvero sarebbe un danno sia per i clienti (non potrebbero comprare la sciarpa che desiderano oppure dovrebbero adattarsi a spendere cifre esorbitanti per acquistarla), sia per i negozianti (venderebbero meno sciarpe).

C'è anche un altro sacrificio che viene fatto, anche questo a danno del consumatore, ed è nella perdita di trasparenza dei prezzi. Se spendo 100 euro per entrare in un negozio la sciarpe da 20 possono anche regalarmele come omaggio. Naturalmente non si tratterebbe di un vero regalo, ma io comunque potrei non venire mai a sapere quanto mi sarebbe costata quella sciarpa, e percepirlo come tale. In questo modo non riesco nemmeno a capire qual è il "vero valore" delle cose che acquisto, quanto sono davvero convenienti, e quindi quanto mi costano davvero. Il che mi rende assai complicato scegliere fra questo negozio e quello accanto, che invece di regalarmi sciarpe offre un consistente sconto sulle giacche. Il successo o l'insuccesso di un prodotto possono così dipendere da dinamiche in realtà estranee alle preferenze dei consumatori, o alle logiche di mercato, ma dalle decisioni del direttore del negozio. È un po' come se al ristorante il cameriere trovasse il modo di rifilarci, fra i piatti "consigliati dallo chef", lo spezzatino avariato della settimana prima.

Si tratterebbe insomma di un sistema altamente inefficiente, dove per "efficienza" si deve intendere il concetto paretiano, quello per cui un sistema di allocazione delle risorse è efficiente quando l'unico modo di fare stare meglio qualcuno è far stare peggio qualcun altro, ed è inefficiente in caso contrario. In questo caso il sistema è inefficiente perché levando i costi fissi dell'ingresso nel negozio e mantenendo solo quelli per gli acquisti faremmo stare meglio tutti senza fare stare peggio nessun altro. Avremmo solo delle opportunità in più. I costi fissi distruggono delle risorse preziose, non sono neanche un gioco a somma zero, ma un gioco a somma negativa.

Ora, come esercizio mentale, potremmo immaginare che non sia il negoziante a obbligare il cliente a pagare 100 euro ogni volta che entra in un negozio di vestiti, ma che sia lo Stato a farlo, per finanziare le sue spese. Avremmo così spiegato per quale motivo le tasse sono un male, cioè un danno per tutti, per i consumatori, per i negozianti, per la comunità nel suo complesso. Che poi era lo scopo che mi proponevo in questo post. Perché ogni tanto pure noi liberali dobbiamo cercare di far capire le nostre idee e di comunicarle agli altri, anche quando ci sembrano così ovvie. Infatti, da molte conversazioni avute negli ultimi mesi, anche online, ho dovuto prendere atto che c'è un sacco di gente che non capisce per quale motivo le tasse sono un male (non che le paghino volentieri, altrimenti non ci sarebbe bisogno di costringerle e magari donerebbero addirittura più di quanto è richiesto, ma forse credono sinceramente che siano "bellissime" come diceva qualcuno).

Naturalmente la tassazione non funziona proprio così: lo Stato non obbliga i consumatori a versare nelle sue casse una determinata quota ogni volta che entrano in un negozio, ma si può dimostrare comunque che qualsiasi tassa o imposta è inefficiente, nel senso paretiano che dicevamo prima, ovvero che non è un mero trasferimento di ricchezze da una mano a un'altra (il che sarebbe un gioco a somma zero), ma è un modo di distruggere delle ricchezze potenziali. Lo Stato ad esempio potrebbe obbligare i consumatori a versare non una quota fissa di 100 euro, ma il 21% del valore dei beni acquistati in ogni negozio, ma è chiaro che l'effetto sarebbe, anzi, è, più o meno lo stesso: un danno per i consumatori, un danno per i negozianti, un danno per tutti. Spiego: supponiamo che io sia disposto a spendere un massimo di 110 euro per una sciarpa che ne costa 100 (prezzo di mercato) e che al negoziante è costato 90 euro produrre (quindi sarebbe disposto a vendermi la sciarpa per qualunque cifra superiore a 90 euro). Adesso che mi viene a costare 121 euro a causa dell'imposta non compro più la sciarpa. Io perdo un affare di 10 euro (la differenza fra il valore che io attribuisco alla sciarpa e il suo prezzo). Il negoziante perde 10 euro (la differenza fra il costo di produzione della sciarpa e il suo prezzo). E pure lo Stato non vince, perché non incassa i 21 euro che sperava di avere da me. Le tasse quindi sono sempre un gioco a somma negativa, non vince mai nessuno.

Ora, e per non generare equivoci, quando dico che le tasse sono un male e che lo sono sempre, in realtà non intendo dire che siano un male assoluto. Potrebbero essere un male necessario. Diciamo che se uno Stato deve esistere, e intravedo una certa utilità dello Stato nel proteggere i diritti essenziali dei cittadini, ad esempio nel far rispettare la legge e la proprietà privata, e nel garantire il rispetto dei contratti, allora è chiaro che per esistere deve affontare delle spese, e queste spese devono essere pagate per forza dalla comunità. Oltre a garantire i diritti dei cittadini e la sua stessa esistenza (cosa che comporta presumibilmente anche spese militari) una funzione essenziale dello Stato potrebbe essere quella di venire incontro a certe esigenze di solidarietà particolarmente importanti. Io personalmente sono contento che lo Stato soccorra chi è stato particolarmente sfortunato, o che non permetta che qualcuno muoia di fame e di sete. Certo, sarebbe bello se il soccorso agli altri non fosse imposto e arrivasse sempre spontaneamente, ma dato che non possiamo essere sicuri che ciò accada adattiamoci pure. Posso essere persino disposto a riconoscere, fra le funzioni utili e le spese necessarie, la promozione della cultura e la tutela del patrimonio ambientale, quando non vi siano garanzie che il settore privato possa provvedere adeguatamente.

C'è solo una cosa che mi fa arrabbiare, ed è quando si dice che le tasse servono a "redistribuire la ricchezza". Perché, anche ammesso che tale redistribuzione sia una cosa eticamente corretta (ma io davvero non vedo come potrebbe esserlo, in quanto incompatibile col diritto alla proprietà privata), in realtà credo di aver appena dimostrato che non si tratta di una mera "redistribuzione" dove la ricchezza viene semplicemente trasferita. In tale processo, già eticamente dubbio, vi sono delle ricchezze, delle risorse, delle opportunità che vengono sistematicamente distrutte. È una finalità che non ha nulla di moralmente buono, ma che soprattutto non ha nulla di "utile", da nessun punto di vista, essendo un modo per impoverire la comunità (e tralascio le spese che dovrebbero essere affrontate per gestire appunto il trasferimento di risorse, che sarebbero anche quelle una perdita netta).

Allora, essere contrari alle tasse (nel senso che le consideriamo al limite un male necessario, ma sempre un male) non c'entra nulla con l'essere di destra, per piacere, e l'essere a favore della redistribuzione della ricchezza non è necessariamente di sinistra, perché è semplicemente irrazionale. La logica non è né di destra né di sinistra. Tanto dovevo.

mercoledì 14 dicembre 2011

la figlia del tempo


Mi piacerebbe parlare della passione per la ricerca, quella cosa bizzarra che spinge alcuni di noi – a volte blogger più o meno oscuri e anonimi, a volte invece fortunati che della ricerca sono riusciti a fare il loro mestiere, a volte semplici curiosi che mai comunicheranno a qualsiasi pubblico il risultato delle loro ricerche – a perdere ore, giorni, mesi, anni alla risoluzione di un enigma, all'approfondimento di un tema, e senza naturalmente altra ricompensa che la soddisfazione intellettuale.

Ma non trovo un modo migliore, di parlarne, che citare quello che hanno scritto altri, e il libro che maggiormente esemplifica ed esalta questa passione, secondo me, non è l'autobiografia di un qualche scienziato premio Nobel che ci racconta di quando da ragazzo cominciava a osservare la natura e fare i suoi primi esperimenti. Si tratta invece di un libro poliziesco, anche se anomalo.

Josephine Tey (pseudonimo di Elizabeth MacKintosh) scrisse fra la fine degli anni Venti  e la fine degli anni Cinquanta del Novecento una serie di romanzi polizieschi aventi per protagonista l'ispettore Grant, un caparbio investigatore scozzese. La figlia del tempo è il penultimo di questi romanzi, e meritatamente il più famoso. In questo strano giallo l'ispettore Grant si ritrova sfortunatamente in un letto d'ospedale con una gamba rotta, e quindi con molto tempo libero in cui annoiarsi. Un'amica per distrarlo gli porta delle stampe di famosi ritratti, fra cui quello di Riccardo III, ed è su costui che Grant inizia a riflettere.

Riccardo III d'Inghilterra è noto ai più per essere il protagonista di uno dei drammi storici di Shakespeare, il quale narra le macchinazioni del gobbo e deforme Riccardo per salire abusivamente al trono, al costo di qualunque crimine sia necessario. Compreso l'assassinio dei due nipotini, i famosi "principi nella torre", che la tradizione storica vuole appunto rinchiusi dallo zio nella Torre di Londra per assicurarsi la successione al trono del loro defunto padre e poi fatti assassinare.

Grant comincia appunto a interrogarsi su quanto di vero ci sia dietro questa consolidata narrazione tramandata soprattutto da Shakespeare e dalla propaganda dei Tudor (i vincitori nella guerra delle due Rose in cui gli York, di cui faceva appunto parte Riccardo, vennero sconfitti). Arrivando infine, grazie alle sue indagini da branda e con l'aiuto di un ricercatore storico, a riabilitare del tutto la figura di Riccardo, che non solo, secondo Grant, non fu un despota ma un sovrano saggio e amato dal popolo, ma viene anche assolto dall'infamante accusa relativa ai due nipotini (e comunque non era né gobbo né deforme ma pure un bell'uomo).

Alla fine del libro subentra anche una piccola delusione, quando Grant e il suo amico storico si accorgono di non avere fatto la grande scoperta del secolo, ma che dubbi sulla colpevolezza di Riccardo III, e tentativi di riabilitarlo, ce ne sono già stati fin dal XVII secolo (la storiografia contemporanea, per la cronaca, tende pure essa alla riabilitazione della sua figura complessiva, ma permangono i dubbi sull'assassinio dei nipotini; sulla questione si può consultare la Ricardian Society). Ma questo non sembra turbare Grant più di tanto, in fondo. Si è divertito, in ospedale, più di quanto non si divertisse a dare la caccia ai criminali suoi contemporanei. Quanto al suo collaboratore, Carradine: "è la prima volta in vita mia che mi accade qualcosa di veramente eccitante […] ho trovato qualcosa che vale la pena di fare. E sarò io a farlo. È questo che è meraviglioso", alludendo all'idea di scrivere un libro sulla vicenda di Riccardo III.

Un termine ricorre sovente nell'opera: "tonypandy". Tonypandy è una località dove nel 1910, secondo il racconto dell'ispettore Grant, una scaramuccia fra i minatori gallesi in protesta e gli agenti di polizia metropolitana (disarmati) è diventata nel ricordo dei locali una crudele repressione effettuata con le truppe dell'esercito inviate da Winston Churchill. Nel libro diventa un po' il simbolo della bufala storiografica: un esempio di tonypandy è per i protagonisti del libro il massacro di Boston, mentre a a un certo punto ci si chiede addirittura se la maggior parte degli episodi descritti dai libri di storia non siano tonypandy.

L'essenziale […] è che tutti quanti, dal primo all'ultimo, tra quanti si trovavano lì, sanno benissimo che quella storia è tutta una frottola, e tuttavia nessuno l'ha mai contraddetta. E ormai la smentita non verrà più. Una storia completamente falsa è cresciuta fino a diventare leggenda, mentre quelli che sapevano quanto era falsa sono rimasti a guardare senza aprire bocca.

È strano, ma se racconti a qualcuno la verità su una bugia diventata leggenda, quello non s'indigna con chi l'ha raccontata, ma con te. La gente non vuole che si buttino all'aria le sue idee. Prova un vago senso di disagio, secondo me, e te ne serba rancore. Così respinge la verità e si rifiuta di pensarci. Si mostrasse soltanto indifferente, la cosa sarebbe naturale e comprensibile. Ma si tratta di una reazione molto più forte, molto più decisa. È un vero e proprio fastidio.

Tutti gli studiosi (di professione e non) si sono imbattuti in qualche tonypandy, e non solo gli storici, ma anche i filosofi, i linguisti, gli antropologi, e chissà, forse anche i fisici e i matematici. In questo blog a volte mi sono divertito a raccontare i tonypandy che ho scoperto. Non io personalmente, ci mancherebbe, anche se a volte ho avuto conferma, dalle mie ricerche, di intuizioni che avevo già avuto. Quel che è certo è che di fronte a un tonypandy uno può appunto reagire in due modi: o accoglierlo con gioia, provando il brivido dell'investigazione e della scoperta, o con fastidio, in quanto elemento dissonante e disturbatore.

Sarebbe bello poter dire che ciò che contraddistingue il vero ricercatore è il fatto di avere sempre la prima delle reazioni sopra descritte, ma in realtà credo che in ciascuno di noi convivano i due atteggiamenti, a seconda delle opinioni che vengono messe in discussione. Alcune delle nostre opinioni più solide fanno decisamente parte della nostra identità, e ci è molto difficile abbandonarle, mentre per tutto il resto ci possiamo lasciare andare ad una sorta di estasi distruttrice. Del resto si potrebbe notare che i due esempi principali di tonypandy descritti da Josephine Tey, ovvero i tumulti di Tonypandy, appunto, e il massacro di Boston, denunciano forse una certa mancanza di oggettività da parte della scrittrice scozzese.

E c'è del buono, anche, in entrambi gli atteggiamenti: non tutto può sempre essere messo in discussione, e non per il puro gusto di farlo, o il rischio è quello della deriva complottistica, della paranoia, o di un certo scetticismo che sconfina nel relativismo e quindi nel vuoto culturale, nella completa mancanza di appigli. L'atteggiamento conservatore fa parte della ricerca allo stesso titolo dell'atteggiamento iconoclasta e rivoluzionario, ed è altrettanto rispettabile. E però è inutile nasconderlo: la gioia e la felicità provengono dal tonypandy, dallo smascheramento di una bufala, dalla sensazione di stare esplorando sentieri mai percorsi. E quella è una cosa con la quale, forse, nemmeno il sesso può competere.


P.S. Ehm, "qualcuno" mi ha chiesto di rettificare l'ultima frase, che, credevo fosse evidente, era ovviamente un artificio retorico, un'iperbole. Figuriamoci se.

martedì 25 ottobre 2011

l'uovo e la gallina



Alla base del concetto di prestito a interesse, che insieme al commercio è in fondo il motore dell'economia mondiale, è il semplice fatto che molto spesso una gallina domani non vale un uovo oggi. Se vinceste alla lotteria e vi chiedessero se preferite avere dieci milioni di euro adesso oppure venti milioni tra dieci anni, molti di voi risponderebbero che vogliono i dieci milioni subito. Dopotutto fra dieci anni potreste anche essere morti, e magari proprio in conseguenza della mancanza dei soldi che non avete ancora incassato.

Il denaro incassato oggi quindi ha maggior valore della stessa quantità nominale di denaro incassata domani, e se vogliamo che la somma incassata oggi equivalga, in valore soggettivo o percepito, a quella incassata domani, occorre aggiungere a quest'ultima una percentuale che dipende da vari fattori (quali lo stato di bisogno). Questo è l'interesse. Non capisco quindi cosa ci trovi di tanto strano la gente nell'attività delle banche: molti sembrano considerare immorale il fatto che una banca sia disposta a rinunciare al possesso di una certa somma oggi solo in cambio di una somma maggiore l'indomani, eppure sono gli stessi che magari giocano alle lotterie, che in fondo si basano tutte sullo stesso principio (rinuncio a una piccola somma oggi per avere la possibilità di ottenerne una molto più grande domani, laddove l'interesse però è moltiplicato a causa della mancanza di certezza).

Eppure si tratta di un concetto di fronte al quale menti certamente molto più grandi della mia hanno trovato insormontabili difficoltà. Ad esempio Aristotele condannava pure lui il prestito a interesse (o usura, nell'antichità i due termini sono equivalenti) perché riteneva non "naturale" che il denaro potesse essere usato per "generare" altro denaro. Nella sua visione il denaro non può mai essere un fine in sé, ma il suo valore consiste semplicemente nel permettere gli scambi: sono le cose che il denaro può comprare a essere desiderate, non il denaro per il denaro. Da qui la – a dire il vero non conseguente – conseguenza che usare il denaro per comprare altro denaro è sbagliato (non conseguente perché niente impedisce che la maggiore somma ottenuta sia desiderata a sua volta per comprare beni materiali).

Le idee di Aristotele germogliarono nel pensiero cristiano medioevale. Tommaso d'Aquino le fece proprie e attraverso di lui la cristianità tutta condannò il prestito a interesse, considerandola pratica non gradita agli occhi di Dio o addirittura un modo di appropriarsi e far lavorare per noi il "tempo", che appunto appartiene solo al Creatore. Come noto la condanna cristiana del prestito fece sì che a gestire e specializzarsi in questo tipo di attività fossero gli Ebrei (che nell'Antico Testamento potevano trovare passi in cui tale pratica era persino incoraggiata, se svolta a "danno" dei non ebrei), con tante conseguenze storiche di lunga portata che non staremo ad analizzare tutte. 

Questa è la spiegazione storica diciamo consueta, ufficiale, ma mi sembra difficile considerarla completa ed esaustiva. Diciamo infatti che trovo poco plausibile l'idea che un sistema di espansione della ricchezza così pratico ed efficiente sia stato ostacolato solo per qualche scrupolo teologico di un paio di filosofi scolastici. La verità è quasi sicuramente un'altra. Il prestito e l'attività bancaria, il denaro stesso, erano giustamente percepiti come forze rivoluzionarie, in grado di trasformare la società e rimuoverne i fondamenti tradizionali, come effettivamente è stato. Coloro che avevano posizioni di potere e privilegio e che volevano mantenere tali posizioni attraverso l'autorità e la forza non potevano che vedere una minaccia mortale nei soldi, che potevano girare in mano a chiunque e comprare degli eserciti contro di loro. Il denaro andava fermato, o perlomeno regolamentato.

I cristiani che volevano svolgere attività di prestito dovevano quindi ricorrere a degli espedienti, a delle forme di prestito mascherato che non li facessero incorrere nelle ire dei preti. Un sistema piuttosto ingegnoso fu quello, perfezionato dai banchieri fiorentini del Rinascimento, della "lettera di cambio". Originariamente la lettera di cambio serviva ad evitare i rischi connessi al trasporto di ingenti quantità di monete e preziosi. Il mercante che voleva recarsi a Parigi, poniamo, versava una certa quantità di denaro nella casse di una banca fiorentina e riceveva una lettera di cambio. Con quella lettera poteva recarsi a Parigi, e presentandola allo sportello di una filiale parigina della banca di Firenze (o altra banca con cui erano stati stipulati accordi) ottenere l'equivalente della somma versata a Firenze, in valuta locale.

La trasformazione di questo strumento, già di per sé prezioso, in vero e proprio meccanismo di prestito a interesse (assai conveniente), passava attraverso la reiterazione della procedura e sfruttando i diversi tassi di cambio delle valute. Stavolta era la banca che consegnava il denaro (i fiorini) al creditore. Una somma equivalente di denaro veniva in un secondo tempo versata, in valuta parigina, negli sportelli di Parigi. A questo punto, a Parigi, veniva fatta una seconda lettera di cambio per mezzo della quale il creditore si impegnava a versare, nelle casse della banca fiorentina, l'equivalente in fiorini sempre di quella stessa somma. Il trucco consisteva nel fatto che il cambio era sempre favorevole alla moneta locale, quindi alla fine la banca fiorentina si trovava nelle casse una quantità di fiorini superiore a quella che aveva originariamente prestato. Il tutto era però ufficialmente presentato come un'operazione di cambio di valute e il guadagno giustificato dai rischi connessi alla volatilità dei tassi di cambio.

Come noto, molte famiglie fiorentine costruirono la loro fortuna su questo meccanismo, a cominciare dai Medici. Oggi i Medici sono ricordati certamente come una famiglia che diede lustro alla città di Firenze, e che la riempì di bellezze artistiche e architettoniche. Non ci sarebbe l'arte del Rinascimento (né quello italiano né quello nordico) se non fosse per quella che allora veniva chiamata, senza troppi infingimenti, "usura" (oggi  chiamiamo usura solo il prestito che ha interessi particolarmente alti, ma senza troppa chiarezza e precisione riguardo alla linea di confine). Eppure non è che le loro attività teologicamente ed eticamente sospette all'epoca non venissero notate da nessuno, e talvolta anche disprezzate e osteggiate. In primo luogo c'erano le leggi suntuarie a mettere un freno, non alla ricchezza, ma almeno all'esibizione di essa. Molte di queste leggi che regolavano ad esempio il vestiario erano pensate, oltre che per combattere il lusso sfrenato e la dispersione dei patrimoni familiari, per impedire a membri dei ceti inferiori di "confondersi" con le classi superiori. Arricchirsi va bene, ma ognuno resti comunque al suo posto e non osi disturbare.

Poi arrivarono il frate Girolamo Savonarola e i "piagnoni", approfittando della momentanea caduta in disgrazia dei Medici, a riportare davvero un po' di ordine e moralità. Inizialmente fu decretato anche l'allontanamento degli Ebrei, ma quando ci si accorse che erano troppo utili anche alle casse del governo fiorentino si dovette rinunciare a questo progetto, ma non all'ambizione di ripulire la città dal vizio, generato dal denaro. Ci si rivolse quindi agli effetti del denaro, agli oggetti di lusso, che vennero  raccolti, ammucchiati e bruciati all'aperto: libri licenziosi, vestiti, strumenti musicali, gioielli, specchi e, pare, anche alcuni quadri di Sandro Botticelli. L'avventura comunque non durò molto, i Fiorentini si stancarono presto e qualche tempo dopo fu Savonarola che venne legato, condotto in cima a una catasta di legna, e pubblicamente bruciato. Sic transit gloria mundi.

Oggi non abbiamo i piagnoni ma abbiamo gli indignati, ovvero persone che attribuiscono la colpa di ogni cosa che va male nel mondo alle "banche" cattive e agli "speculatori", alla finanza. Fare i soldi con i soldi, che come abbiamo visto è in realtà una delle cose più naturali del mondo, è ancora oggi visto come un atto profondamente contro-natura. Come si permettono le banche di prestare in giro i soldi che noi depositiamo presso di loro? e di incassare pure degli interessi? ehi, ma questo è immorale. Ancora più bizzarra, al neoluddista, pare l'attività delle Borse: un balletto di numeri che salgono e scendono, immense ricchezze che vengono create e distrutte nel giro di minuti e alle quali non sembra corrispondere niente di "concreto". Ve lo dico io cosa c'è di concreto: il culo di chi rischia il proprio capitale. I soldi, i liquidi, servono anche a chi produce oggetti concreti come le automobili, servono a pagare gli stipendi degli operai. Ma se nessuno è disposto a scommettere sull'attività della fabbrica di automobili investendo del denaro anche gli operai rischiano di rimanere senza uno stipendio; non è difficile.

Eppure gli indignati, che si ritrovano nella morsa del debito pubblico e della crisi economica internazionale, hanno trovato la soluzione a tutti i loro problemi. È colpa dei ricchi se stiamo così male, è colpa dei soldi. Ogni somma incassata non "lavorando", non producendo qualcosa di concreto, è sostanzialmente rubata al popolo (si trascura evidentemente che esiste il settore altrettanto fondamentale dei servizi, e che pure quelli finanziari sono servizi, di cui difficilmente si potrebbe fare a meno). Il debito non è nostro, è "loro": degli strozzini, degli speculatori. Non solo: è colpa di chi produce oggetti inutili come gli iphone e gli ipad. A cosa servono? Bisogna tornare alla frugalità dei bei tempi andati, quando per essere felici e in armonia con la natura ci si accontentava di un tozzo di pane, del sorriso di un bimbo, e della contemplazione del tramonto.

Presto i nuovi Savonarola convinceranno la gente a fare pubblici falò dei gadget firmati Apple, delle macchine di lusso, del calendari con le veline (veicoli di immoralità!), delle scarpe con il tacco 12, delle borse Prada, gli orologi Rolex, e magari anche di qualche opera di artista contemporaneo degenerato. Poi, passata la moda, saranno loro a finire sul rogo e tutto tornerà come prima. Io cerco di rimanere tranquillo e aspetto, tanto non sono ricco e rischio poco.

Se volete approfondire alcuni degli argomenti trattati in questo post, comunque, vi consiglio caldamente la mostra Denaro e Bellezza in corso a Firenze dentro Palazzo Strozzi.

venerdì 30 settembre 2011

la rivincita di Zenone


Tra i paradossi di Zenone di Elea, l'allievo di Parmenide famoso per aver ideato il rompicapo di Achille e la tartaruga e che voleva dimostrare l'impossibilità del movimento, quello meno famoso e ricordato – del quale non si parla quasi mai – è quello detto "delle masse nello stadio" (ma non parla di tifosi di calcio e ricordo che lo stadio per i Greci era anche un'unità di misura, pari a 185 metri). Paradosso che però ha qualche speciale motivo di interesse legato anche all'attualità.

Aristotele lo riassume nel capitolo 14 del VI libro della Fisica, in realtà in modo piuttosto criptico. Io avrei voluto riportare il passo di Aristotele nella sua integrità, piuttosto che una parafrasi, e anzi mi accingo a farlo, ma mi accorgo che si tratta di un testo molto difficile, e il cui senso difatti viene pure reso in maniera diversa a seconda delle diverse lingue in cui è tradotto. Qui mi affido alla traduzione in italiano di Luigi Ruggiu:

"[…] Il quarto argomento concerne corpi uguali che si muovono nello stadio in senso contrario a corpi uguali, gli uni considerati a partire dalla fine dello stadio, gli altri a partire dalla metà, entrambi con uguali velocità. Zenone ritiene, con questo argomento, di conseguire il risultato che la metà del tempo è uguale al doppio".

Il paradosso, o meglio l'antinomia di Zenone dunque consiste in questo, che una stessa cosa sia al medesimo tempo la metà e il doppio di una certa misura. Per comprendere come sia possibile dobbiamo immaginarci tre gruppi di masse contigue, o tre segmenti, A, B, e C.  

"[…] Ad esempio, siano AA corpi uguali che stanno fermi, mentre BB siano corpi uguali ai primi per numero e per grandezza, che partono dalla metà di A, i corpi CC uguali a questi per numero e per grandezza, e con velocità uguale a B, partono invece dagli estremi".

Ovvero, nella mia interpretazione: A si trova in riposo più o meno al centro dello stadio e non si muove. B si muove verso destra ed il suo estremo di sinistra si trova a metà di A, mentre C, parallelo ad A e B, si muove in direzione opposta, ma il suo estremo di sinistra tocca l'estremo destro di A. Così:

    BBBB ---->
AAAA
 <----CCCC

"Accade pertanto che il primo B giunge all'estremità nello stesso tempo in cui vi è il primo in C, in quanto si muovono l'uno accanto all'altro. Sicché capita che C abbia compiuto il percorso lungo tutti i B, mentre B ha percorso la metà della lunghezza degli A; dunque anche il tempo è metà, perché v'è ugualianza di ognuno di essi in rapporto a ciascun corpo. Ma nello stesso tempo accade che B avrà compiuto il percorso lungo tutti i C: saranno infatti nello stesso tempo agli estremi opposti il primo C e il primo B, in quanto un tempo uguale sarà impiegato per ciascuno dei B e per ciascuno degli A, come egli sostiene, dal momento che entrambi si muovono lungo gli A in un tempo uguale". 

La parte in corsivo è quella che mi ha creato i maggiori problemi, perché non riuscivo a trovare un modo di disporre le masse e farle muovere in modo da farle combaciare con quelle parole, ma penso infine di aver trovato una soluzione soddisfacente con la disposizione di cui sopra. Ovvero partendo da quello schemino, e definendo t come il tempo impiegato da un B (o da un C) a percorrere lo spazio di un elemento di A, dopo un t la situazione dovrebbe essere questa:

        BBBB ---->
   AAAA
 <----CCCC

"Il primo B giunge all'estremità nello stesso tempo in cui vi è il primo in C" ovvero il primo B e il primo C sono allineati con l'estremo degli A (e anche fra se stessi). Adesso però notiamo una circostanza singolare. Ovvero che prima B e C erano distanziati da uno spazio corrispondente a due A, mentre adesso sono allineati ("Sicché capita che C abbia compiuto il percorso lungo tutti i B"), e però B, nello stesso intervallo di tempo t ha superato un solo A ("mentre B ha percorso la metà della lunghezza degli A"). Quindi sembrerebbe che uno stesso intervallo di tempo (t) percorso alla stessa velocità faccia percorrere contemporaneamente un dato spazio (un A) e il suo doppio (due A).

Quello che Zenone ha scoperto, insomma, è la relatività del moto, il fatto che un oggetto può dirsi andare a una certa velocità solo in riferimento a un altro oggetto, e questo anche se Zenone non si spinge fino a mettere in dubbio la realtà dello stato di quiete delle masse A, cosa che del resto non avrebbe avuto senso dal punto di vista dalla filosofia eleatica, per la quale il movimento non esiste e tutto è immobile. Oggi, abituati come siamo alla relatività galileiana, nessuno si stupisce più tanto del fenomeno, e a dirla tutta nemmeno Aristotele sembra particolarmente impressionato. C'è anche da dire che noi conosciamo il paradosso appunto solo attraverso le parole di Aristotele, il quale però potrebbe anche non aver capito quel che intendeva Zenone (come se già non fosse difficile capire Aristotele), quindi alcuni studiosi propongono anche interpretazioni più fantasiose, ed è tutto bellissimo. Ma io non vedo perché l'argomento di Zenone dovrebbe essere più sottile di questo, essendo del tutto in sintonia col maestro Parmenide, per cui è una contraddizione in termini anche semplicemente dire che "il non essere è".

Soprattutto, e questa è in fondo l'utilità della filosofia, è giusto stupirci di quello che sembra ovvio (in questo caso il fatto che la velocità di un oggetto è relativa) perché ci prepara a percepire quello che non ci sembra affatto ovvio. Ad esempio che anche il tempo non è un assoluto ma è relativo, cosa che è stata intuita solo agli inizi del XX secolo grazie agli sforzi di un certo signor Einstein. Insomma, se Zenone trovava strano che un oggetto potesse andare a due velocità diverse – contemporaneamente e in riferimento a diversi osservatori –, quello che agli scienziati parve strano, quando scoprirono le onde elettromagnetiche, fu che la luce non sembrava affatto comportarsi così (una buona e sintetica spiegazione si trova anche in questo post di Amedeo Balbi).

La luce si propaga nel vuoto sempre alla stessa velocità, qualunque sia la direzione verso la quale si muove e per qualunque osservatore. Il che significa che se al posto di quelle masse nello stadio dell'esempio di Zenone mettessimo dei treni di fotoni non avremmo più alcun paradosso riguardo alle velocità. Quel che accadrebbe è che, tenendo ferma la velocità della luce, costante, sarebbero tutti gli altri parametri a diventare relativi, a partire dal tempo. Ecco quindi che dal punto di vista di B l'orologio di C sarebbe più lento, e viceversa dal punto di vista di C sarebbe l'orologio di B ad essere più lento. Non potremmo neanche più disegnare uno schemino come quello di prima – che mostra gli spostamenti dei vari oggetti dopo un tempo t – valido per tutti, proprio perché non c'è un unico t al quale far riferimento. Al limite dovremmo disegnare degli schemi differenti per A, per B e per C.

Ora, l'ideazione della teoria della relatività potrebbe sembrare uno smacco per la filosofia degli eleati. Si direbbe, a prima vista, che a Parmenide garberebbe molto di più un universo newtoniano con spazio e tempo assoluti e uguali per tutti rispetto all'universo einsteniano dove l'unica costante è la velocità della luce e tutto il resto dipende dall'osservatore. In realtà per Parmenide non solo il movimento, ma anche tempo e spazio erano illusioni, quindi non è che avrebbe dovuto necessariamente preferire una teoria all'altra. Ma c'è di più.

Le teorie scientifiche tendono all'economia, e sono quindi delle buone teorie quando riducono i fenomeni da spiegare. Prima di chiedersi "perché accade questo" ci si dovrebbe sempre chiedere "questo accade davvero"? Ne abbiamo un buon esempio proprio con la rivoluzione galileiana che fa piazza pulita della fisica aristotelica semplificandone l'ontologia stessa. Se Aristotele infatti cercava una spiegazione della "persistenza" del moto dei corpi e quindi doveva elaborare una complicata teoria dei vortici che spiegasse per quale motivo un sasso lanciato in aria continuasse a muoversi, per Galileo quel che c'è da spiegare è semplicemente la variazione del moto. Corpi in riposo e corpi in movimento per lui pari sono (e proprio perché non esiste un punto di vista privilegiato per dire chi è in riposo e chi in movimento) e le uniche cose che richiedono una spiegazione sono le accelerazioni, i cambiamenti di moto.

Con la relatività ristretta che abbiamo appena visto viene compiuto un ulteriore passo, perché la relativizzazione di tempo e spazio rende ancora più illusoria ed evanescente la realtà del movimento, ma è con la teoria della relatività generale, supremo sforzo intellettuale di Einstein, che l'universo comincia davvero a somigliare a un sogno parmenideo, e che ciò che a noi appare come disordine e caos diventa quiete e armonia nella descrizione spaziotemporale e non-euclidea fornita dalla teoria einsteiniana. Laddove, ad esempio, la linea di universo corrispondente ad un satellite in orbita (moto circolare, accelerato), diventa una geodetica se si considera la curvatura dello spazio tempo, e quindi espressione della tendenza generale a seguire il percorso più breve tra due punti.

Abbiamo visto quindi come Aristotele sbeffeggiava Zenone, ma anche come Zenone e Parmenide abbiano infine avuto la loro rivincita.

Un ringraziamento agli utenti di Friendfeed, in particolare Azioneparellela, Fabrizio Venerandi, e Milla, che mi hanno aiutato con Aristotele.

domenica 4 settembre 2011

wild boys



Fra tutti i mammiferi, le femmine dei canidi sono quelle più facilmente soggette a quel disturbo noto come "gravidanza isterica". Fra i lupi, solo la femmina dominante ha il diritto di accoppiarsi col capo-branco, ma quando questo avviene tutte le altre femmine manifestano i sintomi della gravidanza, come il seno ingrossato e la secrezione di latte. In questo modo una qualunque femmina del branco può prendersi cura della cucciolata qualora la vera madre dovesse morire.

Occasionalmente, una lupa può sviluppare una versione particolarmente "sregolata" di tale disturbo (che nella sua modalità consueta, come abbiamo visto non può nemmeno essere considerato un disturbo ma una funzione essenziale alla sopravvivenza del branco) tale da spingerla ad adottare comportamenti anomali, come allattare e prendersi cura di piccoli di altre specie (o addirittura pezzi di legno e oggetti inanimati).

Questo fatto biologico dev'essere all'origine delle molte leggende che riguardano bambini abbandonati nei boschi e poi sopravvissuti graze all'intervento provvidenziale di una lupa, come nella storia di Romolo e Remo. È indubbio che nonostante l'improbabilità statistica di un tale evento la sua semplice possibilità logica, unita al grande numero nel corso dei secoli di abbandoni, per non parlare di pestilenze e carestie, rende più che verosimile che qualche volta si sia effettivamente verificato.

Ciononostante, lo scetticismo riguardo almeno ai dettagli che contornano la maggior parte dei resoconti legati a simili ritrovamenti è obbligatorio. Anche se è possibile che un neonato o un bambino rimandi l'attimo della propria morte grazie al soccorso di una lupa, è assolutamente da escludersi una successiva adozione da parte del branco e la sopravvivenza di lungo corso nella foresta in sua compagnia. Il destino più probabile di un bambino allatato da una lupa è quello di essere divorato, o dalla stessa lupa o dai compagni di branco, a meno che non venga prima ritrovato da qualcuno.

Anche mettendo da parte i lupi, c'è la questione della pura e semplice sopravvivenza nella foresta. Per quanto tempo un fanciullo può sopravvivere, magari addirittura in buona salute, nella foresta, e cibandosi di cosa? di erba? di foglie e radici? di terra? di insetti? di carne cruda? Il ragazzo selvaggio dell'immaginario collettivo, il piccolo Tarzan che gode di ottima salute in compagnia degli animali della foresta e cibandosi di selvaggina, è un puro parto della fantasia. I veri ragazzi selvaggi, quelli che ogni tanto vengono trovati ai margini di qualche centro abitato, sono esseri decrepiti alle soglie della sopravvivenza. E dei quali è molto difficile stimare l'effettiva durata della permanenza allo "stato di natura". Spesso hanno anche gravi problemi mentali, non si sa se pre-esistenti e magari alla base dell'abbandono, o dovuti appunto alle gravi carenze alimentari.

L'esistenza vera o presunta dei ragazzi selvaggi ha però sempre esercitato un certo fascino su pensatori, moralisti, e filosofi, che talvolta hanno creduto di vedere in loro lo strumento per penetrare il mistero delle origini dell'umanità e della sua vera natura, non ancora contaminata dalla civiltà. I ragazzi selvaggi rappresentano per alcuni finestre sul passato della nostra specie, prima che l'uomo si desse alla coltivazione e si associasse in villaggi e città, e provvedesse a circondarsi di cose superflue, come vestiti, abitazioni, e altre comodità. Spesso il ragazzo selvaggio è una delle tante incarnazioni del "buon selvaggio", che continua ancora oggi a essere una categoria del pensiero occidentale.

Jean-Jacques Rousseau nel suo Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini cita alcuni casi di ragazzi selvaggi noti in letteratura: uno di questi è "il ragazzo che fu trovato nel 1344 presso Hesse, dove era stato nutrito dai lupi [notare il plurale] e che diceva presso la corte del principe Enrico che se fosse stato per lui avrebbe preferito tornare fra i lupi che restare tra gli uomini" (vedere anche qui). Viene poi citato il ragazzo trovato nel 1694 nelle foreste lituane in compagnia degli orsi, un ragazzo di Hannover che venne portato alla corte inglese (trattasi di Peter il ragazzo selvaggio, di cui parla anche il libro Né giusto né sbagliato di Paul Collins), e infine vengono citati altri due selvaggi trovati nei Pirenei nel 1719. Questi casi vengono portati da Rousseau come esempi per indagare se la postura umana "naturale", originale, è quella eretta o a quattro zampe (ma alla fine si rigetta l'ipotesi della locomozione quadrupede).

Fra gli altri casi famosi, non si può non ricordare Victor, il ragazzo selvaggio dell'Aveyron trovato nel 1797 che venne preso in cura dal dottor Jean Marc Gaspard Itard (che lasciò una importante memoria sui tentativi di educare il ragazzo), celebre per il bellissimo film di François Truffaut. Gli scritti di Itard e le sue riflessioni, che prendono atto della estrema debolezza e non adattamento dell'uomo che vive allo stato di natura, costituiscono già una critica approfondita del mito rousseauiano del buon selvaggio. L'impossibilità di comunicare con i propri simili può compromettere per sempre le capacità linguistiche di un fanciullo (con buona pace della capacità di "automiglioramento" e perfettibilità che secondo Rousseau caratterizzava l'uomo selvaggio). Osservazioni che sono state successivamente confermate, anche se nel caso di Victor compromesse dai dubbi sulle cause effettive (forse congenite) dei suoi handicap.

Oppure Kaspar Hauser, apparso in una piazza di Norimberga nel 1828, anche se atipico nella casistica dei ragazzi selvaggi, in quanto a dire il vero non si è mai supposto essere vissuto nella foresta per anni o addirittura in compagnia dei lupi (anche prendendo per buona la sua storia senza supporre che fosse un semplice impostore). Ma che cionostante venne addiritura identificato, nella tradizione teosofica, come "l'individualità che avrebbe dovuto impedire la decadenza dello spirito del tempo" e che se non fosse stato ucciso (secondo alcuni per una trama dei Gesuiti) ci avrebbe salvato dai campi di sterminio nazisti. E sul cui conto, anche, esiste un bel film di Werner Herzog.

Nel nostro secolo, fece scalpore il ritrovamento di Amala e Kamala, due bimbe indiane (8 anni e 18 mesi) trovate dal reverendo Singh nel 1920 dentro la tana di un branco di lupi fra cui una femmina che arrivò a proteggerle, insieme alla sua cucciolata, al costo della sua vita. "Forse per le lunghe braccia e per il modo di alzare le ginocchia da terra, correvano velocissime, come fossero scoiattoli. Anche i loro sensi erano animaleschi. La loro vista era acutissima e i loro occhi sembravano risplendere nell’oscurità come quelli dei lupi. L’olfatto non era da meno: il più piccolo odore di carne, anche di un animale morto, le faceva accorrere subito. Non furono mai viste cacciare, tuttavia un giorno Kamala, alla vista della signora Singh, scappò con delle penne di uccello che le spuntavano tra i denti". Fallito ogni tentativo di rieducarle, da parte del reverendo che le aveva in cura presso il suo orfanotrofio, Amala morì dopo pochi mesi ("Kamala, che non aveva mai mostrato emozioni, annusò la compagna e pianse due lacrime"), Kamala una decina di anni più tardi.

Per venire a una vicenda più recente, nel 1997 Misha Defonseca pubblicò il bestseller Sopravvivere con i lupi (da cui venne poi tratto un film), storia che combina una tipica narrazione in prima persona dell'Olocausto e delle persecuzioni antisemite insieme appunto a un'improbabile avventura nei boschi in compagnia dei lupi. Storia che attirò l'attenzione dello studioso (un eclettico chirurgo) Serge Aroles, che denunciò la frode, poi confessata come tale (la si può assimilare a Frammenti di Wilkomirski, altro celebre fake olocaustico). Aroles aveva in precedenza pubblicato un ampio studio dedicato al debunking di molti casi, famosi e meno famosi, di "ragazzi selvaggi". Fra i casi studiati da Aroles, e denunciati come falsi, ci sono appunto il ragazzo selvaggio dell'Aveyron e le due bambine-lupo indiane, Amala e Kamala.

Victor era con tutta probabilità un ragazzo le cui cicatrici (descritte da Itard) non erano affatto il frutto di morsi o graffi di animali selvatici, ma l'effetto di più prosaici maltrattamenti dovuti a una mano umana (questo a dire il vero è accennato pure nel film, a proposito di una vasta ferita alla gola). Molti dei segni di Victor erano difatti delle bruciature, difficili da procurarsi in una foresta. Se confrontato con uno dei rarissimi casi autentici di "ragazzo selvaggio", ovvero Maria-Angélique, bambina amerindia di eccezionale intelligenza che riuscì a vivere per dieci anni nelle foreste francesi (Aroles ha dedicato una intera monografia al suo caso), Victor non presenta nessun segno di adattamento alla "vita selvaggia", risultando drammaticamente inadatto alla sopravvivenza. Quello che sappiamo di lui è che quando venne catturato gravitava intorno alle fattorie rubando verdure, poco che dimostri una lunga permanenza nella foresta. Più probabile il più recente abbandono di un fanciullo già disabile (molti studiosi odierni riconoscono in lui i sintomi dell'autismo, diagnosi comunque non facile).

Ben più grottesca e tragica la storia delle bambine indiane, non solo per la scarsa credibilità a priori della vicenda come viene tradizionalmente narrata, ma per l'orrore reale che si cela dietro la fantasia, una storia di maltrattamenti, umiliazioni e crudeltà inflitte dal presunto "benefattore", ovvero il reverendo Singh. Un ciarlatano smentito, oltre che dai documenti d'archivio, dalle mille contraddizioni contenute nei suoi stessi scritti, che rivelano una frode disgustosa. Le bambine secondo alcune testimonianze venivano picchiate per costringerle ad esibirsi nella camminata a quattro zampe. Le foto più famose che le rappresentano (e che si possono facilmente trovare sul web) sarebbero dei falsi scattati anni dopo la loro morte (quindi altre orfanelle costrette ad assumere pose umilianti, come il mangiare da una ciotola per terra). Secondo Aroles le bambine, lungi dall'avere sviluppato delle caratteristiche "lupesche" in seguito alla vita in compagnia di questi animali, erano affette da un grave disturbo neurologico (sindrome di Rett), cinicamente sfruttato dal reverendo per farsi pubblicità.

La stragrande maggioranza dei bambini-lupo o ragazzi selvaggi apparsi nella storia, insomma, per quanto possano a prima vista sembrare affascinanti, ha ben poco da dirci sull'annosa questione natura-società e sulle caratteristiche della specie umana nel suo habitat naturale pre-civiltà. Da questo punto di vista il loro studio è un completo fallimento, soprattutto per i ricercatori della originaria innocenza, visto che quando dimostrano qualcosa dimostrano appunto l'essenziale dipendenza dell'uomo dagli altri membri della sua specie per sviluppare delle normali facoltà mentali e per la sopravvivenza. Queste storie hanno però da dirci qualcosa sul nostro immaginario, sulla nostra capacità di ingannarci e di credere, e a volte anche sulla nostra capacità di ingannare e fare del male.

mercoledì 13 luglio 2011

Sall-Y


"È ben noto che l'uomo, che il popolo si è compiaciuto di onorare, mantiene e ha mantenuto per diversi anni, come sua concubina, una delle sue schiave. Il suo nome è Sally. Il nome del suo figlio maggiore è Tom, la fisionomia del quale si dice che abbia una straordinaria somiglianza con quella del presidente".

James T. Callander, il giornalista di non limpida fama autore di queste righe pubblicate nel 1802, aveva un conto in sospeso con Thomas Jefferson, il quale impressionato dal suo stile lo aveva in precedenza assoldato per applicare quello che oggi chiameremmo "metodo Boffo" contro i suoi avversari politici (come John Adams), ma si era poi dimenticato di mostrare sufficiente "gratitudine" e ne diventò quindi una vittima. Fu così che nacque una controversia storica destinata ad essere risolta solo due secoli più tardi. Thomas Jefferson fu o non fu il padre dei figli di Sally Hemings, sua schiava di colore?

La retorica razzista usata dallo stesso Callander ("la sgualdrina nera e la sua cucciolata mulatta") ha sempre reso l'argomento piuttosto sensibile e forse un po' imbarazzante per gli storici. Dare credito alle voci messe in giro da un giornalista evidentemente privo di scrupoli per distruggere la reputazione di un presidente usando l'arma del pregiudizio razziale, oppure liquidare la faccenda come priva di fondamento e magari anche di interesse storico? Beh, bisogna almeno riconoscere che l'interesse storico c'è tutto.

La tendenza più diffusa fino a qualche anno fa era quella "innocentista", se così si può definire, nonostante le testimonianze del figlio di Sally Hemings (James Madison Hemings) e di altri confermassero invece la storia, ovviamente negata dai familiari di Jefferson. In realtà i rapporti sessuali fra gli schiavi e i loro padroni erano piuttosto comuni all'epoca, se è vero che la stessa Sally era figlia e anche nipote di schiavisti, ma una vera e propria relazione sentimentale, protrattasi per un lunghissimo periodo di tempo (38 anni!) e che avrebbe dato luogo alla nascita di ben sei (e forse più) figli con una schiava di colore, era semplicemente ritenuta impensabile, un tabù dell'epoca che Jefferson non sarebbe mai stato capace di infrangere.

C'è da dire che Sally Hemings, che fra l'altro era probabilmente la sorellastra di Martha Jefferson, moglie del presidente, dal quale egli l'aveva ricevuta in eredità quando era morta, non era proprio una donna di colore, o almeno non sarebbe probabilmente stata considerata tale oggi, essendo figlia di una mulatta e di un bianco, e quindi per tre quarti di origine europea. I figli di Sally e Thomas (se la sua paternità fosse stata riconosciuta) erano bianchi pure per le leggi del tempo, ma una cosa era la questione della razza, che prima della guerra civile era vista in modo più rilassato, e una cosa era la questione della schiavitù, o della proprietà legale, visto che i figli di una schiava erano considerati sempre proprietà dello schiavista, indipendentemente dal colore.

In seguito all'abolizione della schiavitù, invece, la società americana divenne per certi versi molto più razzista, e quindi molto più discriminatoria nei confronti di chiunque avesse anche una sola goccia di sangue nero nelle vene. Si tratta della cosiddetta one-drop rule che vuole che la discendenza di una unione mista venga automaticamente assegnata al gruppo etnico che gode del minore prestigio socio-cultural-economico. Si tratta anche di un residuo di pensiero "essenzialista" applicato alla questione della razza, fenomeno che ho analizzato in un precedente post. Come curiosità storica, si può menzionare anche il fatto che la one-drop rule, introdotta per legge in Virginia nel 1924, prevedeva un'eccezione per chi aveva un sedicesimo di sangue indiano, in virtù della pretesa di alcune famiglie influenti di essere discendenti di Pocahontas e John Rolfe.

Quanto a Jefferson, egli si trovava nella contradditoria posizione, forse all'epoca non percepita come tale, di essere un abolizionista, nonché il principale autore della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d'America dove l'uguaglianza di tutti gli esseri umani è definità una "verità auto-evidente" ed è scritto che tutti gli uomini possiedono il diritto inalienabile alla libertà, e al tempo stesso uno schiavista. Gli storici hanno sempre sottolineato come Jefferson, nonostante nei suoi scritti dichiari talvolta la sua ripugnanza nei confronti dell'istituzione della schiavitù, non abbia all'atto pratico mai fatto niente per combatterla davvero, né in pubblico (tramite i suoi incarichi politici) né in privato (non affrancando tutti i suoi schiavi). D'altronde nel pensiero liberale-illuminista, di cui Jefferson è stato senza dubbio uno dei migliori interpreti, il diritto alla proprietà privata è sempre stato considerato altrettanto sacro del diritto alla libertà personale.

Bisogna dire che quegli schiavi che venivano liberati dai propri padroni erano costretti da una legge della Virginia del 1806 ad abbandonare lo stato entro un anno, pena il rientro in schiavitù. Questo per impedire la coesistenza, considerata minacciosa per lo status quo, di neri liberi e schiavi, e questa legge costituiva un impedimento non da poco per chi, come forse lo stesso Jefferson, avrebbe voluto liberare i propri schiavi. Ma anche lui in ogni caso temeva che la liberazione improvvisa degli schiavi avrebbe potuto portare a una "guerra razziale" dalle conseguenze devastanti, e che bianchi e neri non avrebbero potuto mai convivere facilmente e pacificamente, e per questo motivo era prudente nell'auspicare la fine dello schiavismo. Per quanto riguarda la questione della razza vera e propria invece Jefferson aveva i pregiudizi della sua epoca: considerava i neri poco intelligenti, poco affidabili, e in generale inferiori ai bianchi.

Se della personalità e delle idee di Jefferson comunque, e indipendentemente dall'affaire, sappiamo moltissimo, di Sally Hemings invece non è rimasto niente. Di lei non abbiamo un ritratto, non abbiamo una parola scritta di suo pugno, in pratica per noi è solamente un nome, il che è già qualcosa per chi come lei appartiene alla razza (non biologica) di coloro che non hanno voce nella storia. Il che non ci deve far ritenere automaticamente, senza nessun indizio in questo senso, che Sally Hemings sia stata senza voce in capitolo anche nella sua vita privata e nella sua relazione con Jefferson. Per quanto ne sappiamo poteva anche essere lei a condurre le danze.

I due si conobbero in Francia, dopo che Sally accompagnò la figlia minore di Thomas da lui quando era ambasciatore a Parigi, ed è proprio a Parigi che i due iniziarono presumibilmente la loro relazione. Ne è indizio il fatto che Thomas non la rimandò indietro, come inizialmente progettato. Questo comportava anche dei rischi per la sua proprietà, dato che in Francia Sally avrebbe potuto affrancarsi dalla schiavitù e rimanere lì. Secondo la tradizione, concepirono un primo figlio proprio a Parigi, e nella testimonianza di Madison Hemings (figlio di Sally) lei si fece promettere la liberazione dei figli nati dalla loro unione (promessa che, se ci fu, Thomas mantenne solo dopo la morte nelle sue volontà testamentarie). Un altro forte indizio della relazione tra i due è nel fatto che tutti i figli della Hemings, stando ai movimenti di Jefferson ricostruiti dagli storici, vennero concepiti proprio in momenti nei quali Jefferson si trovava nella tenuta di Monticello, dove la Hemings viveva in pianta stabile. Inoltre sia la Hemings che i figli vennero esentati dal duro lavoro degli schiavi nelle piantagioni.

Ma tanti indizi non fanno ancora una prova ed è quindi solo nel 1998 che si è avuta finalmente una conferma piuttosto autorevole della paternità di Thomas Jefferson, e il modo in cui si è riusciti a stabilirlo è appunto ciò di cui volevo parlare, in realtà, perché c'entra il cromosoma Y.

Il cromosoma Y è posseduto solo dagli uomini, e quindi viene trasmesso solo per via maschile e non subisce ricombinazione. Questo, analogamente a quanto accade per il Dna mitocondriale che è trasmesso solo per via femminile, permette di facilitare le ricerche genealogiche. Se io sono un discendente per via maschile, poniamo, di Pinco Pallino, significa che ho il suo stesso cromosoma Y (salvo mutazioni intervenute nel frattempo). Se quindi io e Tizio abbiamo il cromosoma Y molto simile o identico, ciò dimostra che abbiamo un progenitore comune piuttosto vicino nel tempo, mentre nel caso siano diversi la quantità delle mutazioni intervenute può servire a stabilire in che epoca approssimativamente è vissuto il nostro più vicino progenitore comune (di Dna mitocondriale e di cromosoma Y avevo parlato in questo vecchio post).

Nel nostro caso, quindi, sarebbe stato sufficiente analizzare il Dna dei discendenti per pura linea maschile di Thomas Jefferson col Dna dei discendenti per pura via maschile di Sally Hemings, e vedere se i 19 marcatori su determinate regioni del cromosoma Y presi in esame sarebbero risultati tutti compatibili. Purtroppo non esistono discendenti di Thomas Jefferson per via maschile (i suoi figli legittimi morirono tutti e le figlie non portavano il cromosoma Y). Si sarebbe potuto utilizzare il Dna dei discendenti del fratello di Thomas, Randolph, ma l'ultimo discendente per via maschile è morto nel 1920. L'unica possibilità rimasta era usare lo zio (fratello del padre) di Thomas, Field Jefferson. Furono così individuati sette discendenti, cinque dei quali si dichiararono favorevoli al prelievo del loro Dna per gli scopi della ricerca.

Per quanto riguarda la famiglia Hemings, l'analisi è stata fatta su John Weeks, nato nel 1943, discendente di Eston Hemings, figlio di Sally Hemings. Venne anche analizzato il sangue di un discendente di Thomas Woodson, che una certa tradizione tramandata all'interno della famiglia Woodson di generazione in generazione identificava proprio con quel Tom di cui parlava James Callander, ovvero il primogenito di Thomas Jefferson e Sally Hemings nato a Parigi, del quale però non abbiamo altre notizie (la famiglia Woodson ha un sito web, nel quale la discendenza da Jefferson viene tuttora rivendicata). Venne prelevato anche il Dna dei discendenti di Samuel e Peter Carr, figli della sorella di Jefferson (alcune tradizioni indicavano i nipoti del presidente come possibili padri dei figli di Sally), e infine, come campione di controllo, anche di vecchia famiglie della Virginia (questo per eliminare le potenziali similarità dovute alla vicinanza geografica).

Ebbene, i risultati della ricerca, pubblicati su «Nature» in uno studio firmato da Eugene A. Foster intitolato Jefferson fathered slave's last child, individuò una perfetta compatibilità in tutte le 19 regioni esaminate fra il discendente di Eston Hemings e quelli di Field Jefferson. I cromosomi Y dei discendenti della sorella di Jefferson, e quello di Thomas Woodson, presentavano invece differenze in varie regioni (quattro e cinque, rispettivamente), il che escludeva sia l'ipotesi della discendenza della famiglia Woodson da Jefferson, sia l'ipotesi che il vero padre fosse in realtà Samuel o Peter Carr.

Lo studio permette quindi di ritenere come fortemente probabile (anche se non assolutamente certo) che Thomas Jefferson fu il padre di almeno uno dei figli di Sally Hemings (ma non di Thomas Woodson). Le probabilità che un membro della famiglia Jefferson (anche se non necessariamente Thomas) fosse il progenitore di John Weeks sono state infatti stimate come maggiori del 99%, essendo quel particolare tipo di cromosoma Y giudicato "non comune" a seguito dei confronti con i campioni di controllo (appartenenti alle famiglie virginiane). È teoricamente possibile che il padre di Eston Hemings sia stato il fratello di Thomas o un altro parente, ma questa è un'ipotesi che in precedenza non era mai stata formulata e che non vi è motivo di ritenere plausibile a posteriori. Un'altra possibilità teorica è che un discendente della famiglia Jefferson abbia avuto una relazione illegittima con, poniamo, la madre o la nonna o una delle antenate di John Weeks, e che quindi vi sia stata sì una discendenza dalla famiglia Jefferson, ma più recente. Anche di questo però non abbiamo nessun riscontro storico.

La verità della testimonianza di Madison Hemings, quale egli l'aveva ricevuta dalla madre, è stata infine riconosciuta e vendicata. L'analisi di un pezzo di Dna ha permesso di amplificare la voce di chi nella storia è di solito condannato a rimanere silenzioso e invisibile, e anche di aprire uno squarcio interessante nella vita di un ex presidente americano. Poi dice perché uno ama la scienza.

ResearchBlogging.org
Foster, E., Jobling, M., Taylor, P., Donnelly, P., de Knijff, P., Mieremet, R., Zerjal, T., & Tyler-Smith, C. (1998). Jefferson fathered slave's last child Nature, 396 (6706), 27-28 DOI: 10.1038/23835

giovedì 30 giugno 2011

miseria dello (psico)storicismo


Karl Popper scrisse Miseria dello storicismo per una serie di letture tenute nel 1936 a Bruxelles, il testo venne poi raccolto in volume solo nel 1957, ma prima ancora pubblicato in parti, nel 1944-45, all'interno della rivista "Economica" (allora diretta da Friedrich von Hayek). In quelle pagine Popper denunciava la vanità di voler prevedere e spiegare il corso della storia secondo "leggi" affini a quelle delle scienze naturali (come nel materialismo storico di ispirazione marxista). Tentativo, secondo Popper e Hayek, proprio delle società "chiuse" e ad ispirazione totalitaria.

Più o meno in quegli stessi anni (tra il 1942 e il 1950), curiosamente, Isaac Asimov stava pubblicando per la rivista "Astounding Magazine" diretta da John W. Campbell, il famoso Ciclo della Fondazione, che è basato proprio sul concetto di "psicostoria", una disciplina matematica, inventata da Hari Seldon, che permetterebbe di prevedere il corso degli eventi futuri, considerando il comportamento delle moltitudini umane affine a quello dei gas (imprevedibile a livello individuale, o della singola molecola, ma statisticamente controllabile a livello globale).

L'ispirazione per il ciclo era venuta ad Asimov dal celebrato testo di Edward Gibbon Storia del declino e della caduta dell'Impero Romano. Nella saga di Asimov si parla infatti di un impero galattico in declino da milioni di mondi abitati, con al centro il pianeta Trantor, e guidato dall'Imperatore. Secondo un cliché storiografico abbastanza comune, la psicostoria prevede appunto che la conseguenza del crollo dell'Impero siano trentamila anni di imbarbarimento, di medioevo su scala galattica, che però potrebbero essere ridotti solo a mille facendo un sapiente uso delle leggi della psicostoria (disciplina che quindi non permette solo di prevedere il futuro, ma anche una raffinata opera di ingegneria sociale).

Il fatto che Asimov pensando al futuro della galassia colonizzata dagli esseri umani lo concepisca come un "impero" rigidamente centralizzato, facente capo alla figura di una specie di monarca assoluto, sembra dare ragione alle preoccupazioni di Popper e Hayek riguardo alla visione poco liberale degli ingegneri sociali. In effetti il piano di Seldon non lascia nessuno spazio alle iniziative individuali in grado di cambiare il corso della storia, che anzi vengono duramente represse. Accanto alla Prima Fondazione, infatti, il cui compito è quello di costituire alla periferia della galassia il germe per la rinascita del nuovo Impero, è affiancata una Seconda Fondazione (clandestina), che invece deve assicurarsi che tutto proceda effettivamente secondo i piani di Seldon e grazie ai poteri mentali dei suoi membri "aggiusti" la volontà di chiunque rischi di intralciarne il cammino.

La Seconda Fondazione dev'essere segreta perché uno degli assiomi della psicostoria è proprio che essa non funziona più quando gli agenti dei quali viene predetto il comportamento vengono a conoscenza delle previsioni che li riguardano. Vi è una sorta di autoriferimento goedeliano, nel progetto psicostorico, che rischia di metterlo in contraddizione con se stesso. Così, quando la Seconda Fondazione è costretta a venire allo scoperto per fermare il Mulo (un personaggio facente parte del secondo libro del ciclo, Fondazione e Impero o Il crollo della galassia centrale), in seguito deve anche ordire un piano per fingere di venire debellata dai suoi oppositori all'interno della Prima Fondazione, che mal sopportano l'idea di essere eterodiretti.

La visione di Asimov, insomma, è inquietante: gli eroi positivi della storia sono delle eminenze grigie che lavorano nell'oscurità manipolando gli esseri umani a loro insaputa, reprimendo i loro slanci di creatività ma facendo al contempo loro credere di essere liberi e autodeterminati. Una sorta di incubo orwelliano, anche se messo in opera per il bene dell'umanità. Purtroppo si prevedono sacrifici, una guerra là, una rivolta lì, ma tutto è progettato per minimizzare le perdite, e comunque finalizzato a un bene maggiore.

La cosa interessante di Asimov, comunque, è che si sente pure lui a disagio con le implicazioni della psicostoria: il bello della fantascienza in fondo è questo, che permette di immaginare vividamente le conseguenze concrete e ultime di una certa idea o progetto utopico. Così quando negli anni '80 Asimov decide di continuare la saga introduce delle significative variazioni rispetto alle originali tappe forzate verso la rinascita dell'Impero previste dalla psicostoria, e un nuovo tipo di soluzione alternativo alle due Fondazioni, che vedremo più tardi.

Un simile conflitto morale è rintracciabile anche nell'altra saga famosa di Asimov, quella dei robot. Quando scrive le sue prime storie di robot Asimov si preoccupa innanzituto di rassicurare il lettore, spaventato dalle storie alla Frankenstein, e di presentare i robot come creature a tutti gli effetti benefiche, degli umili servi al nostro servizio, non degli abomini destinati a ribellarsi ai loro creatori, colpevoli di aver voluto sostituirsi a Dio. Quindi inventa le Tre Leggi della Robotica, una specie di codice etico inscritto in maniera incancellabile nei cervelli positronici dei robot:

1) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.


Asimov insiste in continuazione sul fatto che sia impossibile violare le leggi della robotica (anche se non si capisce bene, in realtà, perché dovrebbe essere difficile progettare un robot che ne è privo), tanto che la maggior parte dei suoi racconti hanno una struttura che si ripete, quella di una apparente violazione delle tre leggi alla fine spiegata e ricondotta alla normalità.

Questa visione dei robot come guardiani benevoli perché impossibilitati a fare del male però non è del tutto soddisfacente per Asimov, che vorrebbe i suoi robot appunto come simili a degli esseri umani, dalla psicologia altrettanto complessa, e non dei semplici automi. È per questo che i suoi personaggi robotici trovano sempre più difficile obbedire tout court alle leggi della robotica, e si ingegna così tanto di trovare delle situazioni-limite, nelle quali è inevitabile stiracchiare le regole (cosa succede quando un robot considera se stesso come un essere umano? oppure se manca di riconoscere un essere umano come tale?).

A un certo punto, sempre quando Asimov riprende a scrivere fantascienza negli anni '80, uno dei suoi robot inventa la Legge Zero della robotica:

0. Un robot non può recare danno all'umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l'umanità riceva danno.

Le altre 3 leggi vengono modificate di conseguenza:

1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. Purché questo non contrasti con la Legge Zero
2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Legge Zero e alla Prima Legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Legge Zero, la Prima Legge e la Seconda Legge.


La Legge Zero rende i robot a tutti gli effetti dei personaggi etici, e cioè tragici, perché devono continuamente fare i conti con le imprevedibili conseguenze di una eventuale violazione della Prima Legge. In quali occasioni è previsto che si possa fare del male a un essere umano, ma per il bene dell'umanità? Il robot Giskard de I robot e l'Impero, muore proprio perché, dopo aver applicato la Legge Zero, è incapace di affrontare le conseguenze del suo atto, la morte di esseri umani (mentre maggior fortuna avrà il robot Daneel Olivaw, più complesso).

È ovvio a questo punto per quale motivo Asimov abbia sentito l'esigenza di unificare i suoi due cicli, quello dei robot e quello della Fondazione. Per poter applicare con serenità la Legge Zero, infatti, è necessaria almeno la conoscenza della psicostoria, è necessario saper calcolare con ragionevole certezza le conseguenze anche su larghissima scala dei propri atti (una cosa che Hayek non riteneva possibile, e per questo criticava i governi socialisti che reprimevano l'iniziativa individuale in nome del bene comune). Nel prequel del Ciclo della Fondazione, Preludio alla Fondazione, si viene addirittura a scoprire che è proprio un vecchissimo Daneel Olivaw (la cui prima comparsa è in Abissi d'acciao, ambientato decine di migliaia di anni prima), sotto le spoglie del Primo Ministro Eto Demerzel a indirizzare Hari Seldon verso la psicostoria (in un universo in cui la esistenza dei robot è tenuta nascosta).

Ma il problema che si era presentato con le tre leggi si ripresenta appunto con la psicostoria: se le Tre Leggi della Robotica rendono i robot troppo simili a marionette, la stessa cosa può dirsi per la psicostoria e gli esseri umani (mentre i robot, da semplici assistenti privi di una loro volontà, diventano addirittura guardiani occulti dell'umanità). C'è forse un altro modo, allora, per rendere applicabile, e non vacua e nemmeno eccessivamente complessa, la Legge Zero.

Il modo, nel Ciclo della Fondazione, si chiama Gaia, o Galaxia. Gaia è un "pianeta vivente", la cui creazione ancora una volta è riconducibile a Daneel Olivaw e ai suoi tentativi di risolvere i problemi creati dalla Legge Zero. Un essere umano è qualcosa di concreto, ed è relativamente facile evitare di nuocergli o impedire che gli venga fatto del male. La "umanità" è invece un'astrazione, ed è molto difficile, se non impossibile, capire quale possa essere considerato il "bene dell'umanità". Dieci persone diverse avranno probabilmente dieci opinioni diverse su questo.

Ma Gaia, sebbene composto da moltissime creature senzienti, può essere considerato come un singolo organismo, così come un essere umano è fatto di miliardi di cellule. Tutti gli abitanti del pianeta, pur conservando una loro identità, fanno parte di questa entità dotata di una memoria e un'intelligenza collettiva, e sono impossibilitati ad agire in modo da danneggiare quest'entità. Mentre Galaxia non è altro che il progetto di rendere l'intera galassia simile a Gaia, cioè di renderla, con i suoi milioni di pianeti abitati, una cosa sola, un'unica intelligenza.

L'esistenza di Galaxia quindi renderebbe più facile l'applicazione della Legge Zero. E questo sembrerebbe risolvere anche il dilemma etico rappresentato da un'umanità di burattini privi di libero arbitrio e autodeterminazione. Oppure lo accentuerebbe e non farebbe altro che rendere più esplicito ed evidente il disegno disumanizzante della psicostoria? il suo lato totalitario, comunista all'estremo (l'interesse del singolo è l'interesse della collettività)?

Purtroppo la morte di Asimov gli ha impedito di continuare la saga. Non sappiamo se il progetto Galaxia sarebbe stato portato a termine, e in che modo, oppure se nuovi ostacoli e soprattutto nuovi dilemmi e contraddizioni si sarebbero presentati alla mente di Asimov. Mi piace pensare che, col tempo, e continuando a sviluppare le conseguenze delle proprie idee, Asimov avrebbe finito per rinunciare del tutto ai suoi progetti di ingegneria sociale, e sarebbe diventato finalmente un liberale. Chissà, forse il ciclo della Fondazione si sarebbe concluso col suicidio di Olivaw e la decisione di liberarci finalmente dalla sua ingombrante presenza, che nel Ciclo coincide con tutta la storia dell'umanità futura.

sabato 11 giugno 2011

l'odore della carta


Non ho mai voluto parlare del presunto complotto relativo al signoraggio bancario perché lo ritenevo un argomento un po' troppo complesso per le mie capacità, e del resto già smontato effficacemente da altre persone più competenti (segnalo l'ottimo blog signoraggioinformazionecorretta.blogspot.com). Solo che l'insistenza con cui il tema si ripropone negli ultimi tempi grazie agli ormai leggendari video su Youtube di Alfonso Luigi Marra e Ruby Rubacuori, nonché una recentissima interrogazione parlamentare di Antonio Di Pietro (ahimè) mi hanno infine spinto a studiare la questione. Non tanto e non solo per demolire la teoria del complotto (una teoria idiota sulla quale non varrebbe la pena di spendere neanche due righe): il fatto è che come in fondo tutte le teorie complottiste, questa può rivelarsi l'occasione per scoprire aspetti della realtà che in precedenza conoscevamo solo superficialmente. In questo caso si tratta della misteriosa natura del denaro, e in virtù di quale arcano processo esso abbia un valore. Quanto segue quindi è utile soprattutto per me, appunto come tentativo di spiegarmi le cose.

Bisogna dire che ci sono alcuni aspetti del modo in cui tratto la questione che qualcuno potrebbe trovare un po' controversi, o che almeno non mi soddisfano del tutto nella versione rilasciata ad esempio su Wikipedia (vox populi). Per esempio, noto che la voce "Moneta" su Wikipedia comincia la trattazione della storia della moneta contrapponendola al precedente sistema del baratto. Allora cerchiamo innanzitutto di fare chiarezza su un punto: il sistema del baratto non è mai stato abolito e non è mai cessato. Con il che non intendo dire semplicemente che ancora oggi è possibile scambiarsi delle uova per una focaccia, o una focaccia per una prestazione sessuale. Intendo dire che quando scambiamo una focaccia con del denaro non facciamo in realtà nulla di diverso di quando scambiamo focaccia per uova.

Il denaro è un bene come gli altri, e come tutti i beni può avere sia un valore d'uso che un valore di scambio. Diciamo che la caratteristica principale del denaro è quella che, per alcune sue caratteristiche, vuoi intrinseche legate alla sua natura (ad esempio al materiale di cui è fatto), vuoi per motivi storici-giuridici-legali, il suo valore di scambio è quasi sempre preponderante rispetto al valore d'uso. Ovvero, è prodotto proprio in vista di tale fine, e non altri, ed è garantito da qualche autorità sempre in vista di tale fine (nulla però impedisce che qualcuno lo collezioni o lo conservi per una sua forma di feticismo, o addirittura che usi le banconote per accendere il camino, cioè che gli attribuisca un valore d'uso).

Questo accade soprattutto in tempi recenti, ma è bene ricordare appunto che praticamente qualunque cosa può assumere le veci del denaro, specie se possiede alcune caratteristiche che lo rendono adatto a tale scopo. Deve trattarsi di un bene che non si deteriora troppo facilmente, ad esempio. Deve essere un bene né troppo scarso e difficile da procurarsi (il che ostacolarebbe gli scambi), né troppo disponibile (il che ne annullerebbe il valore). Deve inoltre essere un bene facilmente divisibile (anche se una gallina viene scambiata per un chilo di sale non vuol dire che mezza gallina equivalga esattamente alla metà di un chilo di sale) e misurabile in maniera oggettiva.

In diversi periodi storici, quindi, sono state usate come denaro cose come semi di cacao, conchiglie (il wampum dei pellirosse), sale, o sigarette. O pezzi di metallo prezioso, come oro e argento. La distinzione tra la "merce" e la "moneta" che si usa per pagare la merce è una distinzione relativa a quale aspetto, di volta in volta, privilegiamo rispetto alle cose che scambiamo, ma non è una distinzione "ontologica". Tutto può essere moneta, tutto può essere merce.

Quindi, se si è d'accordo su questo, dovrebbe essere chiaro che è in un certo senso ingannevole anche l'altra distinzione, presente nella stessa voce di Wikipedia: quella fra "valore nominale" e "valore intrinseco". In realtà, e almeno finché la moneta ha corso legale, esiste solo il valore intrinseco, reale, della moneta, come di qualsiasi merce. Se io scambio una banconota da 50 euro con un oggetto del valore di 50 euro, vuol dire che quella banconota vale davvero 50 euro, e non si tratta affatto di un valore solo "nominale", "simbolico". Lo scambio avvenuto è la prova della realtà concreta, effettiva, del valore. Quel che si vuol dire è che in circostanze diverse quella banconota, dati i materiali poveri di cui è fatta, non avrebbe nessun valore, cioè potrebbe accadere che nonostante quel che è scritto sulla banconota qualcuno si rifiuti di accettarla come pagamento, ma anche questo è valido per qualsiasi altro tipo di moneta. Pure i miei lingotti d'oro potrebbero, in circostanze molto particolari, perdere di qualsiasi valore.

Dato che i teorici del complotto del signoraggio spesso definiscono il "reddito da signoraggio" come la differenza (percepita da chi stampa la moneta) fra il suo valore nominale e il suo valore intrinseco, comprendere l'illusorietà di una simile distinzione può già essere utile a smontare la teoria. La Banca Centrale non può incassare nessuna "differenza" del genere, perché non esiste. Una differenza siffatta potrebbe essere ammessa nel caso dei falsari, che stampano carta effettivamente priva di valore e la cedono al prezzo del valore nominale, ma così danneggiando chi entra in possesso della banconota. Le banconote false non valgono nulla proprio perché, al contrario del denaro vero, non abbiamo il diritto di esigere niente in cambio della loro cessione, e non è ragionevole aspettarsi che qualcuno le accetti consapevolmente (se non per truffare altre persone, però mentendo appunto sul loro valore).

Veniamo quindi al terzo punto: la moneta non ha valore solo in quanto viene accettata come forma di pagamento della comunità, ovvero solo per il tramite di una convenzione condivisa, della "fiducia", o di una decisione delle autorità preposte (si veda il paragrafo, sempre su Wikipedia "La fiducia come fondamento del valore di una moneta"). Il corso forzoso della moneta serve, beninteso, a proteggere un tale valore, ma non lo crea in origine, e al contrario si potrebbe dire che tale convenzione (di accettare il denaro come forma di pagamento) e tale fiducia derivano piuttosto da un interesse oggettivo, cioè dal fatto che la moneta ha valore. Altrettanto chiaramente l'emissione di moneta non è "creazione di ricchezza dal nulla", e questo rimane valido anche in un regime di cosiddetto fiat money, dove cioè la moneta non è obbligatoriamente convertibile in oro o metalli preziosi.

Per comprendere l'origine del valore del denaro (il nostro denaro, emesso dalle Banche Centrali), occorre quindi comprendere per quale motivo la Banca Centrale non è un falsario. Innanzitutto la Banca Centrale, al contrario dei falsari, non possiede il denaro che stampa, non ne ha la disponibilità, ma si limita a "emetterlo", a metterlo in circolazione. Ovvero il denaro emesso è registrato fra le passività nella contabilità della Banca, non è un attivo che può essere utilizzato per acquistare altri beni. Il che non significa che il denaro venga regalato: viene dato alle banche commerciali (o in forma di vere e proprie banconote o in forma di conto corrente aperto presso la Banca Centrale) in cambio di titoli che poi saranno nuovamente restituiti alla banca commerciale alla loro scadenza, mentre la banca commerciale dovrà restituire alla Banca Centrale il denaro più gli interessi. Questi interessi costituiscono appunto il vero reddito da signoraggio, e anche l'unica ricchezza "creata" dall'operazione dell'emissione di moneta.

Ovvero, supponiamo che io abbia una ricchezza immobiliare particolarmente consistente ma che abbia bisogno di liquidità. Il modo migliore per ottenerla è semplicemente quello di chiedere un prestito, forte del fatto che grazie alle mie proprietà posso garantirne la restituzione. Se il denaro che mi viene prestato (in cambio di un documento nel quale appunto mi impegno a restituirlo entro una certa data e con gli interessi) viene stampato ex novo da un ente apposito, non sarebbe ricchezza in più che viene creata dal nulla, ma solo un espediente per rendere "liquida", capitalizzabile, la ricchezza che già posseggo. Se tutto va bene, estinguerò il debito (grazie al modo in cui avrò fatto fruttare il denaro prestatomi) e il denaro tornerà all'origine pronto per essere emesso nuovamente. Il denaro quindi non è mai veramente "fiat" ma è sempre (o meglio dovrebbe essere sempre) riconducibile a un titolo di proprietà (attenzione, non si limita a "rappresentare" la proprietà, ma diventa esso stesso proprietà, la cui utilità consiste nel permettere gli scambi).

Criticità. Il sistema monetario così descritto funziona abbastanza bene: non ha nulla di truffaldino come vogliono i teorici del complotto del signoraggio, e in realtà affronta abbastanza bene anche certe critiche che arrivano dal fronte libertario, permettendo una certa flessibilità che non sarebbe possibile con la parità aurea. L'emissione di moneta ha la funzione di trasformare la proprietà "morta" in capitale fungibile sul mercato, e le Banche Centrali cercano (non sempre riuscendoci) di regolarne il volume in circolazione adattandolo alle esigenze della crescita economica, aumentando l'offerta in caso di previsione di forte crescita o riducendo l'offerta per evitare il rischio dell'inflazione (ricordo che secondo la definizione della scuola austriaca l'inflazione È l'aumento della massa monetaria in circolazione).

Tuttavia dobbiamo notare che il particolare sistema che è stato adottato da praticamente tutte le nazioni industriali, se da un lato non può togliere al denaro la sua natura di "merce", di bene scambiabile al pari di altri beni, dall'altro lato fa di tutto per occultare questa natura, e per trasformare il denaro in una sorta di entità astratta, semplice "misura" e simbolo del bene reale. Da sempre, da quando cioè è stato inventato per sostituire le forme di baratto meno comode, il denaro è stato scambiato per un puro significante, e per questo considerato una sorta di violazione delle leggi naturali, osteggiato e assunto come radice di tutti i mali (si veda anche un recente post di Eschaton). Una teoria "dualistica" del denaro, insomma, cui occorrerebbe rispondere con un sano monismo, ricordando che non si può veramente estrarre e isolare il valore incorporato negli oggetti.

La visione dualista è incoraggiata anche dal fatto che, se in effetti lo sganciamento del valore dalla merce non è possibile, i meccanismi di produzione del denaro ne fanno comunque una merce particolare, che non ubbidisce del tutto alle leggi della domanda e dell'offerta. Questo, in primis, in quanto si tratta di un monopolio. La Banca Centrale, unico ente autorizzato ad emettere moneta, ha anche una quasi totale discrezionalità riguardo alla quantità di moneta che può emettere. Questo non significa, naturalmente, che può creare ricchezza a piacimento (immettendo troppo denaro non si fa altro che creare inflazione) ma può in effetti agire al di fuori delle logiche di mercato. L'inflazione, del resto, se nel lungo periodo non fa che diminuire il valore del denaro e quindi vanifica i tentativi di aumentare la ricchezza stampandolo, ha effetti diseguali nel tempo su persone diverse, e fasce diverse della popolazione, quindi può davvero trasformarsi in uno strumento occulto di accaparramento di risorse reali (una sorta di "signoraggio"), ovvero una tassazione indiretta sulla popolazione a beneficio delle banche e degli Stati.

L'altro problema è che il corso forzoso, pur non creando il valore dal nulla, lo protegge, ancora una volta, in maniera slegata delle logiche di mercato, interferendo sulle libere decisioni degli agenti razionali, che potrebbero avere motivi per non accettare la moneta come forma di pagamento, come del resto accade nelle transazioni internazionali (posso rifiutare la dracma e pretendere di essere pagato in dollari). L'altro effetto nefasto del corso forzoso è appunto l'eccessiva "fiducia" nel sistema economico così delineato che conduce a investimenti incauti: le banche commerciali si indebitano troppo perché le Banche Centrali piuttosto che farle fallire le finanzieranno oltre il dovuto per evitare conseguenze politicamente indesiderate, e nessuno potrà rifiutare quel denaro.

Una vera "sovranità monetaria" del popolo (di cui tanto cianciano i signoraggisti) potrebbe allora passare non dal controllo dello Banca Centrale da parte dello Stato (che per motivi ovvi sarebbe peggio), ma piuttosto dalla restituzione al mercato, e alla concorrenza, della produzione di moneta. Ovvero non dalla nazionalizzazione delle Banche Centrali come vorrebbe Marra (non tenendo conto del fatto che la Banca Centrale è già pubblica), ma dal suo esatto contrario: dalla loro completa privatizzazione.

lunedì 30 maggio 2011

amiche formiche (by cozla)


Il post odierno è stato scritto su commissione da un'illustre filosofa del diritto di origini partenopee, Cozla, che ringrazio sentitamente

Ho mangiato una mela. Ho aperto il bidone e gettato le bucce nell’umido mentre dei ragazzini giocano a pallone. Stasera devo gettarlo: è domenica. Nel mentre, ricordo che da piccola giocavo con le formiche. Una frase che svela il suo vero carattere appena ci si rende conto che “con” non indica solo la compagnia, ma anche il mezzo. E diciamolo pure che questa cosa può ingenerare confusione. Eppure, questo approccio alla natura – tentativo di nobilitare il mio precoce sadismo – mi ha permesso di imparare tante cose. Soprattutto quelle di cui non mi rendevo conto di imparare. Quindi, sì, erano decisamente un mezzo. Ma anche una compagnia. Una compagnia del mezzo. Un mezzo sublimato dalla presenza contestuale. Che poi, compagnia e presenza contestuale pure sono concetti diversi, diciamo pure questo.

Chi trova un amico trova un tesoro. Un motto che ha avuto sempre molto successo, almeno finché sono durate le singole amicizie a cui è stato riferito. Trovare un tesoro. Un tesoro. Che già se ti fermi un attimo ti rendi conto che il concetto di tesoro implica quello di possesso, sennò è solo un ritrovamento fine a se stesso. Roba che se non sei un pallido boyscout dovrebbe risultarti finanche incomprensibile. E se non lo sei ti fa venire i brividi, tanta è la potenza ipocrita della sovrapposizione implicita.

Eppure, anche se fuggivi dal catechismo o, ragazzo fortunato, non ti ci portavano proprio, questa frase ti suona comunque familiare. Puoi farmi notare che un effetto simile te lo provoca “il cane è il miglior amico dell’uomo”, e che questa è una negazione dell’assunto precedente, giacché non c’è nessun cane che tu possa rivendere per ottenere le utilità economiche che ti fornirebbe un tesoro. Ma non lo farai, perché dovresti ammettere che hai associato il concetto di tesoro ad una chiave prosaica e materialistica. E questo ti fa sentire in colpa. (Vedi? Ci sono riusciti. Anche se eri a nuoto).

Mi piacerebbe trovare qualcuno che ragionasse, per amore dell’assurdo, progredendo con “e se anche potesse portarlo a casa, l’amico tesoro/ il cane tesoro, non potrebbe certo reimpiegarlo per comprare un nuovo iphone, o un’automobile, una barca. A meno che non lo vendesse al mercato degli organi, ma la manifattura verrebbe a impegnarlo eccessivamente. Tant’è che la gente abbandona i cani invece di cercare di inserirli in una strategia di marketing”. Ma, evidentemente, sarebbe troppo.

Tuttavia, senza voler scomodare il piccolo etico che è in te, possiamo dire che ‘tesoro’ si riferisca a qualcosa di sproporzionato rispetto all’aspettativa (misera) di vita (in quanto umana, in quanto mortale). Con ciò dando valore (spesso sublimato) alla scoperta. Il trovare. Il tesoro.

Lo stupore. Il farsi percorrere dal brivido che “d’ora in poi qualcosa cambierà”. Il nuotare nel proprio fabbisogno pensando che, da quel momento, le tue necessità saranno soddisfatte per sempre. E non solo. Che i tuoi sforzi sono stati premiati. La tua costanza nel camminare con lentezza, la tua pervicacia nell’inserirti in spazi angusti, che spesso ti sono preclusi e interdetti, è tutta in quel premio che ti circonda: il tesoro.

E questo è quello che credo pensino le formiche che percorrono le bucce di mela che ho gettato nell’umido. Ignare. Amiche formiche.