lunedì 6 gennaio 2014

Babele


La dannazione – se tale si può considerare – della proliferazione dei linguaggi e della conseguente incomunicabilità tra i diversi popoli trova una spiegazione mitica nell'Antico Testamento (Gen 11, 1-9), nel racconto relativo alla costruzione della Torre di Babele. Conviene leggersi tutto il passo:

Or tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole. E avvenne che, mentre si spostavano verso sud, essi trovarono una pianura nel paese di Scinar, e vi si stabilirono. E si dissero l'un l'altro: «Orsù, facciamo dei mattoni e cuociamoli col fuoco!». E usarono mattoni invece di pietre e bitume invece di malta. E dissero: «Orsù, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo, e facciamoci un nome, per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra». Ma l'Eterno discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. E l'Eterno disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti la medesima lingua; e questo è quanto essi hanno cominciato a fare; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare. Orsù, scendiamo laggiù e confondiamo la loro lingua, affinché l'uno non comprenda più il parlare dell'altro». Così l'Eterno li disperse di là sulla faccia di tutta la terra, ed essi cessarono di costruire la città. Perciò a questa fu dato il nome di Babele, perché l'Eterno colà confuse la lingua di tutta la terra, e di là l'Eterno li disperse sulla faccia di tutta la terra.

La confusione delle lingue sembra essere in primo luogo una punizione per qualcosa che gli uomini hanno fatto e non avrebbero dovuto fare, in secondo luogo è un ostacolo alla costruzione della torre. Analizziamo le due cose separatamente: per cosa vengono puniti i costruttori? Probabilmente il peccato che Dio intende ostacolare e punire è l'arroganza, o l'orgoglio. È l'atto di edificare qualcosa che parte dalla terra per congiungersi al cielo, quindi di diventare a sua volta creature non più terrene ma celesti. Insomma non voler più essere uomini ma sostituirsi a Dio, e questo tramite un atto di creazione del tutto umano, positivo (nel senso di "posto", cioè stabilito dall'uomo tramite una sua decisione e il suo arbitrio).

La proliferazione delle lingue quindi è insieme la punizione e anche l'espediente tecnico tramite il quale i piani degli uomini vengono ostacolati. Per agire di concerto, per edificare, occorre una lingua comune, occorre stabilire (o "porre") dei termini convenzionali grazie ai quali nominare le cose che ci servono. Quando Wittgenstein, all'inizio delle Ricerche filosofiche, parodizza la teoria agostiniana sull'acquisizione del linguaggio (ovvero la teoria dell'acquisizione del linguaggio per "blocchi da costruzione") ricorre proprio ad esempi mutuati dall'edilizia.

Immaginiamo un linguaggio per il quale valga la descrizione dataci da Agostino: Questo linguaggio deve servire alla comunicazione tra un muratore, A, e un suo aiutante, B.
A esegue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastre e travi. B deve porgere ad A le pietre da costruzione, e precisamente nell'ordine in cui A ne ha bisogno. A questo scopo i due si servono di un linguaggio consistente delle parole: "mattone", "pilastro", "lastra", "trave". A grida queste parole; - B gli porge il pezzo che ha imparato a portargli quando sente questo grido. - Considera questo come un linguaggio primitivo completo.

Immediatamente dopo Wittgenstein confuta questa teoria del linguaggio come pura convenzione, secondo me con un argomento convincente (in realtà le convenzioni richiedono un linguaggio preliminare, quindi avremmo un circolo vizioso):

Funziona questo linguaggio di comunicazione. Essenziale e diretto, molto pratico. Ma come fa il muratore B a sapere cosa fare quando sente il grido "lastra"?
È evidente che questo linguaggio funziona ma non è autosufficiente: i due muratori devono prima essersi messi d'accordo sull'uso delle parole. Solo a quel punto B saprà cosa fare. Quindi: per usare questo linguaggio i due devono conoscere altre parole, molte altre. Per comprendere l'uso delle parole i due devono sapere già parlare.

Ma quel che intendo sottolineare, per ora, è come sembri esserci un nesso molto forte tra l'idea di "comunicazione", che etimologicamente significa "mettere in comune", "condividere" (qualcosa che già esiste), e quella di costruzione, di edificazione, di creazione. Basti aggiungere che gli iniziati ai misteri, quelli che conoscono il linguaggio e la cifra segreta grazie ai quali elevarsi o addirittura sostituirsi a Dio, si chiamano massoni, cioè "muratori". Ancora, l'argot è in francese il linguaggio della malavita, più in generale è qualsiasi gergo specialistico e da iniziati: secondo un'etimologia immaginaria (che però qualcuno ha preso sul serio) può anche essere letto come art got, o art gotique, ed è allora la lingua dei costruttori delle grandi cattedrali del Medio Evo, quelle che appunto si slanciano verticalmente verso il cielo fino a toccarlo. Potrebbe essere la lingua adamitica, precedente all'impresa babelica.

Quella che vorrei proporre è una revisione del racconto biblico, in cui il fallimento dell'impresa è sì una conseguenza della proliferazione dei linguaggi, ma in cui non è necessario alcun intervento divino, perché il fallimento è insito e connaturato al tentativo stesso. Che tentativo? Quello di essere artefici del proprio destino, della propria natura, quello di ignorare l'esistenza di leggi divine (o naturali, per chi non crede in Dio come il sottoscritto) che occorre almeno conoscere e tenere presente prima di poter cominciare a costruire, a "porre" le fondamenta di un proprio edificio.

L'idea che le leggi che regolano la convivenza civile ("la città") siano in qualche modo preesistenti alla loro codificazione (e che i giuristi si limitino a scoprirle, annotarle, e a limite sistematizzarle e razionalizzarle) e non create ex novo grazie all'arbitrio del legislatore, oggi appare addirittura paradossale, immersi come siamo nella mitologia giuridica positivista e statalista secondo cui la legge è sempre emanazione – diretta o indiretta ma secondo una precisa e rigorosa gerarchia – del potere, della volontà del sovrano, che viene a sostituire perfettamente Dio e la natura.

Mitologia, occorre dirlo con forza, tutta moderna e che anzi coincide con la stessa modernità, che nasce con la Rivoluzione Francese, trionfa lungo tutto il corso dell'Ottocento, e a dire il vero entra già in crisi nel secolo scorso. Secondo questa visione il giudice è mero esecutore della volontà del legislatore, sovrano assoluto, e il giurista mero interprete della sua volontà, non un indagatore di fatti storici e/o naturali riguardanti le relazioni umane. Visione che, ovviamente, ribalta millenni di storia del diritto concepito in maniera completamente diversa.

Affermare la naturalità del diritto, in opposizione alla sua "positività", non significa affermare la sua eternità ed immutabilità (come poteva essere presso i primi giusnaturalisti), non significa nemmeno dire che esso sia anteriore all'esistenza dell'uomo, ma significa affermare che invece di essere "posto" con atto arbitrario e volontaristico, esso "emerge" appunto naturalmente dalla vicenda delle relazioni umane e storiche, dall'incontro fra esseri umani e i loro tentativi di convivenza, e dalla loro natura biologica e sociale.

Ma allora qual è la punizione per chi non riconosce la supremazia del diritto naturale (o divino, per chi crede)? Più che la proliferazione dei linguaggi, fatto anch'esso naturale, direi la loro incomunicabilità reciproca e il chiudersi nella loro autoreferenzialità. Quando la legge è pura e semplice emanazione della volontà sovrana non ha bisogno di niente che sia al di fuori di se stessa. La ricerca scientifica partecipata ne viene esclusa, non c'è una verità oggettiva da scoprire insieme con uno sforzo comune, c'è solo bisogno, al massimo, di imporre la propria decisione con la forza. Il risultato finale, paradossalmente, è proprio lo "stato di natura" come teorizzato da Hobbes, la guerra di tutti contro tutti, che rende impossibile edificare un qualcosa di durevole.

Quando Ivan Karamazov afferma che "se Dio non esiste allora tutto è possibile", intende proprio dire che all'uomo è consentito di affermare la sua volontà senza limiti di sorta e stabilirsi come legislatore assoluto. Ma il racconto della Genesi ci insegna qualcosa di profondamente diverso: ci dice che se Dio non esiste allora niente è possibile. O che se anche Dio non esistesse non saremmo comunque autorizzati a sostituirci a lui.