giovedì 23 settembre 2010

la verità e la legge


Nel celebre romanzo di pseudo-fantascienza Mattatoio n. 5, di Kurt Vonnegut, a un certo punto viene citato, fra gli studiosi che hanno scritto del bombardamento di Dresda, niente meno che David Irving, lo storico inglese oggi famoso soprattutto per le sue teorie negazioniste. Per questo motivo, e per il fatto che nel romanzo accetta la stima fatta da Irving sul numero delle vittime del bombardamento (135.000 persone invece delle 30-40.000 conteggiate da altri studiosi), ho scoperto di recente che Vonnegut è stato criticato da Deborah Lipstadt, studiosa ebrea americana, in un post del suo blog risalente al 2007.
Deborah Lipstadt, autrice del saggio Denying Holocaust, è invece famosa soprattutto per la vicenda giudiziaria che l'ha vista opporsi, in un tribunale inglese, proprio a David Irving, il quale l'aveva denunciata per diffamazione in seguito alle pagine a lui dedicate nel libro della Lipstadt (dove veniva descritto come uno dei più pericolosi negazionisti). Il processo fece un certo scalpore per il fatto che la verità storica sull'Olocausto per una volta non sarebbe stata semplicemente appurata in sede accademica, ma sancita in un'aula di tribunale. Per vincere la causa di diffamazione Irving infatti avrebbe dovuto dimostrare che le sue "negazioni", piuttosto che più o meno volontarie distorsioni della realtà corrispondevano a legittime opinioni sostenute da fatti concreti, cosa per la quale però avrebbe dovuto avere l'appoggio di qualche altro storico autorevole, oppure argomentazioni molto solide. La sua sconfitta era quindi prevedibile.
Tuttavia, e nonostante il trionfalismo che seguì la sentenza, ci sarebbe da chiedersi se il "distorcere deliberatamente la realtà per adattarla alla propria visione ideologica" non è una critica che può essere mossa, oltre a Irving, a migliaia di accademici altrimenti considerati più che rispettabili ma che si occupano di argomenti meno controversi o hanno la fortuna di aver adottato le opinioni più corrette, e se in particolare non si adatti bene anche all'approccio della Lipstadt nei confronti dell'Olocausto e di chiunque ne parli, come a mio parere è evidenziato dalle sue critiche a Vonnegut.
In alcuni paesi (come Austria, Francia, Germania e Belgio), come noto, sono state approvate delle leggi che definiscono come reato negare pubblicamente la realtà dello sterminio degli Ebrei. David Irving (ancora lui) nel 2005 fu arrestato in Austria e condannato a tre anni di carcere, per le sue idee. Naturalmente sono leggi che fanno discutere, e la cui opportunità viene contestata da molti (a onore della Lipstadt, ad esempio, va detto che si è detta contraria alla detenzione di Irving, anche se per motivi di opportunità e non tanto a difesa della libertà d'espressione). Anche perché sembrano lasciare al magistrato un margine di interpretazione eccessivo, riguardo a cosa debba essere considerato "negazione o ridimensionamento dell'Olocausto" tale da cadere sotto la censura della legge.
Cosa significa esattamente essere negazionisti? Il mestiere dello storico comporta, per definizione, una certa distanza critica dal racconto tradizionale degli avvenimenti. Lo storico è sempre un "revisionista". Certo, esiste un limite, dato dal buon senso, oltre il quale il legittimo sospetto e la critica nei confronti della "versione ufficiale" o quella più comunemente accettata diventano palese malafede e cecità ideologica. Ma il problema è capire se sta alla legge piazzare dei paletti, e in che modo potrebbe farlo senza trasformare le verità storiche in dogmi e inquinare il lavoro e la serenità dello storico.
Un negazionista dell'Olocausto di solito fa una di queste tre cose, spesso tutte insieme ma non necessariamente: 1) ridimensiona il numero delle vittime (non erano sei milioni ma appena quattro, o due, o centomila); 2) nega la volontarietà dello sterminio e la sua realizzazione tramite lo strumento delle camere a gas, ovvero i milioni di morti, se ci sono stati (vedi 1) furono solo un effetto collaterale della guerra e delle dure condizioni nei campi di prigionia; 3) nega che Hitler fosse al corrente dello sterminio, che fu progettato a sua insaputa dai suoi cattivi subordinati, per fargli una sorta di dispetto.
È evidente che sebbene tutte queste cose, soprattutto se prese insieme, delineano in effetti un approccio inquietante, ci sono però dei margini di ambiguità tali per cui qualsiasi storico serio rischia di essere additato come negazionista, se preso di mira: ad esempio, per quanto riguarda il punto 1, il conteggio delle vittime è una materia delicatissima e difficile, continuamente sottoposta a revisioni. Di quanto, esattamente, è possibile scendere, prima di essere considerati negazionisti (ricordo che Eric Hobsbawm, che è forse il più autorevole storico vivente, nel suo celebratissimo Il secolo breve accetta la conta di quattro milioni)? Per quanto riguarda il punto 2, è difficile negare la realtà delle camere a gas e dello sterminio sistematico, ma credo sia comunque legittimo chiedersi quale sia la percentuale di vittime del gas in rapporto al totale (in effetti, quando venne fuori che il numero delle vittime di Auschwitz era stato sovrastimato, il numero totale venne poi nuovamente ritoccato al rialzo per comprendere le vittime dei rastrellamenti delle Einsatzgruppen). Per quanto riguarda il punto 3, è abbastanza ridicolo sostenere che Hitler non ne sapesse niente, ma in mancanza di documentazione chiara è materia di dibattito quali furono le modalità esatte con cui i piani dello sterminio vennero comunicati: vi fu un ordine esplicito, formulato dal Fuhrer, oppure fu più un lasciar intendere, o addirittura un lasciare che accadesse, delegato ai subordinati?
Ma c'è un altro problema, evidenziato dalla questione Vonnegut cui accennavo all'inizio: "ridimensionare l'Olocausto" potrebbe anche significare fare delle affermazioni che non hanno nulla a che fare, direttamente, con lo sterminio degli Ebrei. Ridimensionare l'Olocausto può anche significare semplicemente contestare la sua unicità, relativizzarne l'importanza rapportandolo ad altre tragedie. Potrebbe addirittura significare il semplice ricordare o menzionare altre tragedia. E allora sarebbe davvero la fine per ogni seria pretesa di ricerca storica su qualsiasi argomento, dalle guerre persiane all'11 settembre.
Deborah Lipstadt afferma che Vonnegut, anche se involontariamente, ha contribuito a propagandare delle "bugie". Il termine scelto è indicativo: non si vuole semplicemente correggere quello che è ritenuto un errore nel libro di Vonnegut (preso da quella che all'epoca era forse la fonte più importante sul bombardamento di Dresda, e cioè proprio la monografia di Irving), ma lo si denuncia in quanto falsificazione eseguita con dolo allo scopo di minimizzare l'Olocausto. Questo atteggiamento ha ovviamente un che di ricattatorio: è senz'altro corretto dire che le cifre fornite da Irving sono state contestate da altri studiosi, ma perché non dovrebbe essermi concesso almeno di sospendere il giudizio su chi ha ragione? perché non dovrei, inoltre, ritenere Vonnegut un giudice abbastanza affidabile nella controversia, considerando che lui era là sotto, mentre Dresda bruciava? E soprattutto perché dovrei pensare che dalla risposta a tali questioni dipende anche il mio giudizio nei confronti dello sterminio? Che c'entra?
L'approccio ideologico della Lipstadt viene confermato dal fatto che nel libro di Vonnegut è presente un altro errore, un altro difetto di approssimazione storica che però la Lipstadt non sente il dovere di correggere: si parla, in Mattatoio n. 5, delle saponette fatte con il grasso degli ebrei, secondo quello che è un mito assai diffuso riguardo alla atrocità naziste ma la cui veridicità viene oggi contestata da quasi tutti gli storici (casi isolati di sadismo vi furono senz'altro, ma non esiste alcuna prova o documentazione riguardo un uso industriale siffatto, che non è nemmeno plausibile da un punto di vista economico). Tra i due errori, la Lipstadt sente di dover denunciare solo il primo (e nemmeno in quanto errore, ma in quanto infame bugia), il che la dice lunga sulla sua obiettività.
Molti altri esempi di parzialità del genere si possono trovare sul web, la maggior parte dei quali, ahimè, provenienti da siti discutibili e dalle finalità a loro volta assai sospette. Dovessi essere costretto a fare una scelta di campo, mi schiererei senz'altro più volentieri dalla parte della studiosa ebrea che da quella dei neonazisti, ma il punto è che io non vorrei essere costretto a fare scelte del genere, come vorrebbero costringermi a fare certe proposte di legge liberticide. Viene persino da pensare che la cosiddetta "industria dell'Olocausto" (dal famigerato opuscolo di Finkelstein) e il negazionismo siano due fenomeni complementari e in realtà interdipendenti, che invece di negarsi a vicenda si sostengono l'un l'altro (ci si chiede ad esempio quanto risalto verrebbe dato a certi personaggi pittoreschi se non fosse per l'attenzione che viene loro rivolta da professionisti dell'indignazione).
Io non voglio che l'Olocausto diventi, piuttosto che una verità storica acclarata ma comunque e sempre passibile di approfondimento, un dogma indiscutibile e una pedina di un'agenda politica e ideologica. In quanto potenziale insegnante di storia (abilitato all'insegnamento in attesa di tempi e politiche più favorevoli) vorrei un giorno poter dire che i nazisti uccisero sistematicamente sei milioni (o cinque, o quattro) di ebrei, parte dei quali nelle camere a gas dei campi di sterminio, solo perché è vero, e non in quanto costretto dalla legge a farlo.

mercoledì 15 settembre 2010

i simboli e le persone


Un libro in fondo è solo un oggetto fatto di carta, colla e inchiostro. Ha valore (se lo ha) per quello che è scritto dentro, che però è spesso replicato in moltissime copie identiche, in modo che la perdita di una sola copia si può dire che raramente costituisca un grande danno sia economico che culturale per l'umanità.
Ciononostante vi è attaccato un grosso valore simbolico all'idea di bruciare libri o danneggiarli; è un tabù della nostra civiltà in parte derivante dallo shock culturale del nazismo e dei suoi roghi purificatori, d'altra parte eredi di una ricca tradizione storica. In effetti è persino sorprendente quanto questo tabù sia ormai consolidato, considerata la diffusione di una tale consuetudine fino a tempi recenti, praticata dalle varie Chiese e i vari regimi assolutisti.
Siamo al punto che se una biblioteca o una qualsiasi istituzione decide di mandare al macero alcune copie di volumi che detiene in eccesso, in modo da poter continuare a svolgere con efficienza la sua missione, qualcuno protesta, si indigna, organizza sit-in e magari si mette a citare a sproposito Ray Bradbury (che in un suo romanzo immaginava una società distopica dove leggere è proibito e i libri vengono sistematicamente bruciati dalle autorità).
E c'è anche il fatto che il libro è spesso reliquia, vero e proprio oggetto sacro, come la bandiera della nazione o la maglia della squadra di calcio. Cose, in realtà, che andrebbero bollate come superstizioni da qualsiasi persona razionale, qualunque siano le opinioni in merito a ciò che sta dietro il simbolo: posso essere tifoso della Fiorentina, ma francamente non me ne importa nulla se bruci la maglia viola, al massimo ti guardo con compassione.
Non si capirebbe quindi tutta l'importanza che i giornali hanno dato nei giorni scorsi al fatto che un pastore evangelico americano (omonimo di un Monty Python) aveva manifestato l'intenzione di bruciare pubblicamente il Corano, se non fosse per la nota legge secondo cui la madre dei cretini è sempre incinta. Cretino il pastore, cretini i musulmani che si sono fatti provocare e hanno minacciato sfracelli (come al solito regalando all'Occidente un'immagine dell'Islam assai arretrata), piuttosto cretini i media che hanno dato risalto alla notizia.
Il gesto simbolico del pastore voleva essere la risposta a un altro evento di significato simbolico la cui effettiva rilevanza nel mondo materiale è altrettanto nulla, ovvero l'eventuale presenza di una moschea nelle vicinanze di Ground Zero, a riprova ulteriore del fatto (che personalmente sostengo da tempo) che con buona pace di Marx le guerre e i conflitti vengono più facilmente scatenati dai simboli e dalle ideologie che da motivazioni concretamente materiali ed economiche (in fondo è facile mettersi d'accordo sul denaro, mentre è impossibile mettersi d'accordo sull'unico vero Dio).
Un gesto indubitabilmente poco rispettoso quello del pastore, il quale da come si presenta dà l'idea di non avere una grande dimestichezza con qualsiasi libro e di non conoscere nemmeno il contenuto di quel che vuole distruggere. Anche se forse c'è da notare che bruciare un testo sacro, se denota sicuramente una certa ostilità verso il libero pensiero, non sempre può essere associato all'ostilità verso una data religione, ma che il testo può venire bruciato proprio per difendere la religione.
I più grandi bruciatori di Corani sono stati proprio gli islamici, all'inizio della loro storia, i quali nello sforzo di pervenire ad un unico canone di riferimento cercarono di distruggere tutte le versioni non conformi. Ma anche i cattolici non scherzano affatto, e non solo riguardo ai Vangeli apocrifi e i testi eretici. Forse non tutti sanno che nell'Indice dei libri proibiti erano presenti anche la Bibbia e i Vangeli, almeno quelli in volgare che potevano essere letti anche dalla gente non troppo colta, e questo fino al 1965 (ovvero fino al Concilio Vaticano II). Nei secoli passati occorreva uno speciale permesso per entrarne in possesso, altrimenti i libri rischiavano di finire al rogo, e il suo proprietario con essi.
Tornando a noi, intolleranza, superstizione, oscurantismo: sono tre forme di stupidità, aventi tutte lo stesso esito, però c'è anche una forma di stupidità più pura, essenziale, che può portare a bruciare un Corano. Supponiamo, ad esempio, che un certo giornalista debba fare un servizio sulla moda americana di bruciare i Corani. Supponiamo anche che il suddetto giornalista abbia difficoltà a trovare del buon materiale video con cui confezionare il servizio. Che cosa dovrebbe fare il buon diavolo?
Non gli resta che entrare in una libreria, comprare una copia del Corano, e realizzare un filmino casalingo nel quale si vedono solo le sue mani che accendono un cerino e iniziano a dare fuoco al libro. Fatto, servizio realizzato e pubblicato su una delle principali testate online con grande soddisfazione di tutti. Benpensanti di sinistra indignati conto i fondamentalisti cristiani, islamici arrabbiati con l'Occidente tutto, malpensanti di destra indignati contro gli islamici violenti, e giornalisti che si arricchiscono su tutto questo.
Supponiamo però che io veda il filmato e me ne accorga, che sia certo al 99% che sia un tarocco. Cosa potrei fare? In fondo si tratta di una grave violazione della deontologia professionale, e non sarebbe giusto che la passasse liscia. Potrei forse denunciare il tutto a Striscia la Notizia, o ancora meglio a un acchiappa-bufale come Attivissimo. Oppure potrei scrivere un post indignato e tentare di sollevare la rabbia della blogosfera contro il malcapitato. Sarebbe anche giusto.
Però, c'è un però. Ovvero il fatto che l'ipotetico giornalista non sarebbe affatto un simbolo, ma una persona in carne e ossa, e io rischierei davvero di fargli del male denunciandolo. Qualche islamico, non si sa mai, potrebbe anche mettersi in testa di fargliela pagare, e una cosa come quella non penso che meriti addirittura una coltellata (in fondo non ha mica buttato dei cuccioli di cane in un fiume).
E siccome io rispetto più le persone dei simboli, e più le persone dei valori astratti come la verità e la correttezza, dovrei quindi starmene zitto. Al massimo l'unico compromesso al quale potrei arrivare sarebbe lo scrivere un post usando solo periodi ipotetici.

venerdì 10 settembre 2010

problemi di induzione


In un noto indovinello probabilistico, si chiede di immaginare che un certo signor Rossi affermi: "io ho due figli, uno di essi è maschio", e di calcolare la probabilità che anche l'altro figlio del signor Rossi sia maschio.
Questo indovinello comparve nella rubrica di Martin Gardner sullo Scientific American dedicata ai giochi matematici, in un articolo sulle difficoltà concettuali della probabilità. Gardner infatti si meravigliava del fatto che molte persone intelligenti non solo davano la risposta sbagliata all'enigma (50%), ma non riuscivano ad accettare il fatto che fosse sbagliata nemmeno di fronte alla risposta corretta e alla sua spiegazione.
Infatti, secondo la sua spiegazione, le possibilità con due figli sono quattro in tutto: MM, MF, FM, FF. Escludendo la quarta possibilità in virtù dell'informazione che il signor Rossi ci ha dato, fra le tre rimanenti ne rimane una sola con due maschi, quindi la probabilità è 1/3. Ovvero, una volta presa la popolazione di tutti quelli che hanno due figli, di cui uno maschio, solo un terzo di questi avrà entrambi i figli maschi.
Ironicamente, però, Martin Gardner avrebbe dovuto rettificare la sua affermazione nel numero successivo della rubrica, dopo molte lettere di protesta ricevute. Questo perché le persone che non accettavano la risposta presentata come corretta, risultò dopo attenta meditazione, non avevano poi tutti i torti.
L'inferenza induttiva (probabilistica) può essere di due tipi: diretta o inversa. L'inferenza diretta è quella che cerca di inferire le caratteristiche del campione da quelle della popolazione (abbiamo un'urna con 50 palline nere e 50 palline bianche, qual è la probabilità che estraendo una pallina essa risulti bianca?). L'inferenza inversa è quella che cerca di inferire le caratteristiche della popolazione da quella del campione: abbiamo un'urna con 100 palline di colore ignoto, se ne estraiamo dieci bianche, qual è la probabilità che tutte le palline nell'urna siano bianche?
Nell'indovinello del signor Rossi è presente un'ambiguità, per cui in realtà non sappiamo esattamente cosa ci viene chiesto. Non è affatto scontato che ci troviamo di fronte a un caso di inferenza diretta, nel quale ci viene chiesto di calcolare la probabilità richiesta semplicemente considerando le caratteristiche (già note) di una data popolazione. La difficoltà, invece, è proprio quella di capire di quale popolazione si debba considerare facente parte il signor Rossi. A quella di tutte le persone con due figli di cui uno maschio, come suggeriva la soluzione di Gardner? E perché invece non dovremmo considerarlo appartenente alla popolazione di tutte le persone con due figli, di qualsiasi sesso?
Noi non sappiamo a quale titolo il signor Rossi ci ha fornito quell'informazione, se cioè voleva farci calcolare la frequenza relativa di una certa caratteristica all'interno di una data popolazione (quella dei padri con due figli di cui uno maschio), oppure se ci stava chiedendo di fornire una stima della nostra fiducia sul fatto che anche l'altro figlio sia maschio (ovvero, quanto scommetteremmo su tale eventualità). E le due cose, anche se su questo vi è una certa congiura del silenzio, sono profondamente diverse.
Non è che l'inferenza inversa non sia matematicamente calcolabile. Nell'esempio dell'urna e delle palline (100 palle di colore ignoto, ne estraggo dieci bianche), esiste una formula precisa, che è data dal teorema di Bayes. Il problema è che per essere usata tale formula deve fare per forza ricorso ad assunzioni arbitrarie sulle cosiddette "probabilità a priori", non tratte da nessuna osservazione ma semplicemente postulate (magari facendo ricorso al laplaciano "principio d'indifferenza").
Bisogna assumere, ad esempio che tutte le diverse distribuzioni di colore nell'urna siano a priori equiprobabili (100 bianche e 0 nere, 99 bianche e 1 nera, 98 bianche e 2 nere, eccetera), per poi calcolare, tramite il teorema di Bayes, come variano queste probabilità in funzione delle estrazioni fatte. Ma qualcuno potrebbe anche contestare questo principio e ritenere che alcune distribuzioni abbiano una maggiore probabilità. Ad esempio, è evidente che in una serie di lanci di moneta sono più probabili le combinazioni che prevedono un certo equilibrio fra teste e croci (50 teste e 50 croci) di quelle che prevedono solo croci o solo teste, e non si vede perché un simile principio non si possa applicare anche al caso delle urne e delle palline.
L'indovinello del signor Rossi serve a portare allo scoperto uno scontro fra due diverse visioni filosofiche, quella "oggettivista" (o "frequentista") e quella "soggettivista" riguardo alla probabilità. Per alcuni la probabilità è una cosa che riguarda solo l'inferenza diretta, e può essere applicata solo quando abbiamo dati oggettivi e certi (statistiche riguardo la mortalità tra i fumatori, ad esempio, possono aiutarci a calcolare la probabilità di ammalarsi di tumore). L'inferenza inversa sarebbe invece un uso non legittimo del calcolo della probabilità.
Per altri, invece, la probabilità è qualcosa di intrinsecamente soggettivo, non essendo altro che il grado di fiducia che una certa persona ha nell'occorrere di un certo evento. Essa, è vero, può essere modificata dall'esperienza (sarei irrazionale se il continuo occorrere di certi eventi non modificasse la mia fiducia anche nel loro occorrere futuro) ma l'elemento soggettivo non potrà mai essere del tutto eliminato dai dati. Il più noto portavoce della concezione soggettivista della probabilità, per inciso, è stato un grande matematico italiano, Bruno De Finetti, uno dei geni che hanno calcato il suolo della nostra Patria.
Il fatto, comunque, è che i casi di induzione nel ragionamento scientifico, o almeno per quello che riguarda la formulazione di teorie e la scoperta di nuove leggi scientifiche, riguardano sempre l'inferenza inversa. L'inferenza diretta in pratica serve solo a calcolare le probabilità di uscita di una combinazione di numeri al superenalotto, o di azzeccare un numero alla roulette. Solo casi, cioè, di "probabilità addomesticata", nei quali la popolazione di riferimento è nota perché da noi decisa e posta sotto il nostro stretto controllo.
Per quella che Nassim Nicholas Taleb chiama "fallacia ludica" molti testi divulgativi di teoria della probabilità tendono a concentrarsi solo sui casi addomesticati, dando una visione parziale e fuorviante del ragionamento induttivo e probabilistico. È in questo modo che ci si espone, sempre secondo la terminologia di Taleb, ai "cigni neri", agli eventi inaspettati che non potevano essere previsti perché non c'era modo di prevederli, all'interno delle assunzioni precedentemente adottate nelle quali venivano fatte le previsioni.
Una qualsiasi legge scientifica è un esempio di inferenza inversa: dopo aver osservato un certo numero di cigni bianchi, posso formulare l'ipotesi che tutti i cigni dell'universo siano bianchi, esponendomi però al rischio, inevitabile e non calcolabile, del cigno nero. Inevitabile perché non possiamo essere sicuri della giustezza delle assunzioni su cui ci fondiamo, di quale sia la descrizione dell'universo che ci permetterebbe di compiere inferenze dirette e quindi veramente affidabili. Viene in mente anche il tacchino di Russell, convinto che il giorno di Natale gli avrebbero portato da mangiare perché così avevano fatto tutti gli altri giorni dell'anno.
Taleb, però, nonostante tutto il disprezzo che spande a piene mani, nel suo libro, per filosofi ed esperti di probabilità a qualsiasi titolo, non ha certo scoperto o teorizzato lui per primo i limiti dell'induzione (già esplorati da Hume, Goodman e altri che trovo pleonastico menzionare). Riassumendo, il problema delle ipotesi di tipo induttivo-probabilistico ("quasi sicuramente la prossima pallina che estrarrò dall'urna sarà bianca") è che si fondano tutte, a loro volta, su ipotesi ("nell'urna ci sono 99 palle bianche e una nera") la cui cui affidabilità è sottoposta al calcolo delle probabilità, dando così inizio a un circolo vizioso.
Circolo vizioso che può essere spezzato forse prendendo atto del fatto che che le ipotesi scientifiche, le leggi di natura e le teorie, non sono affatto semplici generalizzazioni empiriche che è possibile sottoporre al vaglio del calcolo delle probabilità, ma qualcosa di più. Ma questa è un'altra storia.