venerdì 22 marzo 2013

critica della ragione cospirazionista


Questo post è stata probabilmente la prima cosa articolata che abbia mai scritto in rete col mio nick. Allora mi ero appassionato di complottismo, e bazzicavo sia siti di complottisti che di debunker. Una prima versione dell'articolo, anzi, comparve proprio su Luogocomune, il sito di riferimento dei "truthers" italiani, e poi la feci circolare in privato anche sul forum di Crono911. Qualcuno lo girò a Paolo Attivissimo, al quale piacque e mi fece l'onore di ripubblicarlo sul suo sito dedicato allo smascheramento delle bufale sull'11 settembre. Ottenne una certa ed effimera attenzione che mi lusingò (un tizio, su un forum che si occupava di scie chimiche, mi definì "uno dei più ambigui e misteriosi personaggi della rete", altri complottisti mi attaccarono su blog ormai defunti). Di tutto quel periodo ricordo che mi divertivo molto a recitare la parte del debunker, e ricordo decine di discussioni appassionate con i complottisti più esagitati su astruse questioni di termodinamica o ingegneria (discussioni nelle quali avrò senz'altro detto, a mia volta, un mucchio di sciocchezze). Però come tutti i passatempi anche questo a un certo punto smise di divertirmi e di occupare le mie giornate. Oggi lo ripubblico perché temo un certo revival del complottismo dovuto al successo politico del movimento di Beppe Grillo, che raccoglie molti dei suoi consensi proprio nella blogosfera più incline alle panzane e avulsa dal pensiero critico. E anche perché, rileggendolo, ne vado immodestamente abbastanza fiero. Credo sia una delle cose più originali che abbia scritto, e un contributo alla psicologia del complottismo tuttora valido e interessante.
 
Possiamo ingannare tutti, una volta sola,
oppure ingannare uno solo ogni volta,
ma non possiamo ingannare tutti ogni volta
– Abramo Lincoln

Questo articolo non intende portare nuovi dati o argomenti a favore o contro la visione comunemente accettata riguardo gli attentati terroristici dell’11 settembre. L’autore non è un esperto di aeronautica, di esplosivi, di ingegneria strutturale, di termodinamica, o chissà che altro: la sua formazione è piuttosto di tipo filosofico. Lo scopo di questo intervento, quindi, è analizzare e criticare da un punto di vista epistemologico i metodi di ricerca e la strategia culturale che stanno dietro gli argomenti e le tesi dei cospirazionisti.

Al di là del ragionevole dubbio


Chiunque abbia studiato anche un poco di filosofia della scienza sa che c’è una cosa che bisogna riconoscere anche al cospirazionista più sfegatato e fantasioso, una cosa riguardo la quale non si può dire che abbia torto: niente è mai provato in maniera definitiva, e di tutto è possibile dubitare, anche di quello che oggi ci appare più certo ed evidente. Potrebbe sembrare, quindi, che il cospirazionista, nel mettere continuamente in dubbio i risultati delle “indagini ufficiali” su qualsivoglia argomento, non faccia altro che tradurre nella propria pratica di vita e di ricerca quello che è uno dei risultati maggiormente acquisiti dell’epistemologia dell’ultimo secolo, ovvero la lezione dello scetticismo, e la natura sfuggente e inattingibile della verità ultima.

Detto questo, però, occorre precisare meglio la portata e i limiti delle precedenti affermazioni. Innanzitutto potrebbe essere utile una distinzione fra certezza epistemica e certezza morale: infatti è vero che non abbiamo certezze epistemiche, ma abbiamo alcune certezze morali. La distinzione, in parole povere, è fra quando mi diverto a mettere in dubbio qualcosa solo per un puro passatempo intellettuale e quella mancanza di certezza che rende davvero difficoltoso passare all’azione.

Per esempio: niente potrà mai darmi la certezza assoluta che il fungo che sto per mangiare non è velenoso, neppure le analisi chimiche più approfondite. Eppure tutti noi mettiamo periodicamente a repentaglio le nostre stesse vite mettendoci a mangiare funghi quando ne abbiamo voglia, il che significa avere la certezza morale che quel fungo è mangereccio. Solo un filosofo potrebbe dubitare della realtà del mondo esterno, o delle altre menti, solo una persona incredibilmente tenace potrebbe continuare a credere, oggi, che il Sole giri intorno alla Terra, solo un pazzo può pensare che due più due non faccia effettivamente quattro, e solo un cospirazionista può credere che lo sbarco sulla Luna fosse una messinscena cinematografica.

Siamo quindi già in grado di indicare un primo difetto del modo di pensare cospirazionista, ovvero la mancata distinzione tra la mancanza di certezza morale e la mancanza di certezza epistemica, quella distinzione che è anche adombrata nel principio giuridico della presunzione d’innocenza, nella formula “ognuno è innocente finché non sia provata la sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”. Non ogni dubbio possibile e immaginabile: ogni dubbio ragionevole.

L'eterno insoddisfatto


Il cospirazionista si distingue dunque per non essere mai soddisfatto da nessuna prova gli si presenti e per trovare appigli sempre più improbabili per sostenere che le cose potrebbero essere andate diversamente da come pensa il volgo. Certo, ci sono decine di testimoni che affermano di aver visto un aereo andare addosso al Pentagono, ma chi ha controllato che i testimoni non fossero tutti miopi e quel giorno non avessero lasciato gli occhiali a casa? I debunker sono spesso meravigliati dalla capacità del cospirazionista di arrampicarsi sugli specchi e di rifiutare come conclusiva ogni evidenza gli portino, ma la cosa cessa di essere così strana una volta compreso che il cospirazionista non può accontentarsi di una semplice certezza morale: quello che vuole è la certezza epistemica, e questa purtroppo non è qualcosa cui un essere umano possa aspirare.

Un’altra precisazione da fare è questa: è vero che possiamo dubitare di qualsiasi cosa, ma questo significa che possiamo dubitare di tutto? Le due cose non sono, come sembra, equivalenti. Come disse Abramo Lincoln, possiamo ingannare tutti una volta sola, oppure ingannare uno solo ogni volta, ma non possiamo ingannare tutti ogni volta. Parafrasando, ogni nostra singola credenza potrebbe un giorno rivelarsi falsa, ma possono tutte le nostre credenze essere false?

In realtà, sembra di no, perché in questo caso perderebbe completamente di senso la stessa distinzione tra il vero e il falso, e i nostri giudizi perderebbero il loro contenuto. Una bugia, infatti, può esistere ed essere compresa solo in un largo sfondo di verità condivise.

Immaginate di andare in un paese straniero e di doverne imparare la lingua. Immaginate anche di non potervi assolutamente fidare degli aborigeni, che sono dei noti bugiardi: qualunque cosa vi dicano o sentiate dalla loro bocca è sicuramente una menzogna. Riuscireste in queste condizioni ad assegnare un contenuto ai loro enunciati? In realtà, non potreste neanche assicurarvi che gli aborigeni stiano effettivamente dicendo qualcosa, tanto incomprensibile ed enigmatico apparirebbe il loro comportamento linguistico: per poter interpretare le parole e i pensieri delle altre persone occorre quindi applicare quelli che i filosofi chiamano “principio di carità” (la totale idiozia o la mendacia dell’interlocutore sono meno probabili di un mio errore di traduzione). L’esistenza del linguaggio, e del pensiero che ne viene espresso, presuppone dunque che quel che pensiamo ed esprimiamo sia in larga parte vero.

Ora, non credo che ci siano molte persone di buon senso disposte a giurare sul fatto che la versione ufficiale fornita dalle autorità americane riguardo ai fatti dell’11 settembre sia esatta in ogni suo dettaglio. In qualche caso potrebbero esserci degli errori, in altri casi delle omissioni, in altri casi ancora delle vere e proprie menzogne. Non ci sarebbe neanche molto da stupirsi: in fondo il lavoro dei servizi segreti consiste proprio nel mantenere segreto ciò che non deve essere rivelato per motivi di sicurezza di Stato (e ricordiamoci che è il Pentagono ad essere stato colpito).

Ma il cospirazionista va molto oltre queste ovvietà: egli è convinto che tutti mentano, sempre, su tutto. Uno degli argomenti dei cospirazionisti, per esempio, è che i dirottatori non avrebbero mai potuto avere le capacità tecniche di pilotare degli aerei di linea e condurli fino all’obiettivo colpito: a chi gli fa notare che in realtà avevano seguito dei corsi e conseguito dei certificati che affermano l’esatto contrario, replicano candidamente che tali certificati sono stati falsificati (un’ipotesi di complotto che ne sostiene un’altra). È anche inutile dire a un cospirazionista che ci sono dei testimoni che hanno visto l’aereo dirigersi sul Pentagono, o che è stato analizzato il DNA dei resti dei passeggeri: semplicemente, non può esserci un’affermazione in grado di confermare o confutare un’altra affermazione, perché tutte le affermazioni sono ugualmente false o non attendibili. In questo modo il cospirazionista si garantisce in un certo senso contro l’accusa di incoerenza (non si può dire che abbia delle credenze fra loro in conflitto) ma al caro prezzo di non sapere più, in modo chiaro, che cosa egli creda o di cosa effettivamente dubiti.

Nessuna alternativa coerente


A conferma di quanto detto, se si analizzano i discorsi dei cospirazionisti si può notare come essi non abbiano in realtà una ipotesi alternativa a quella ufficiale che tenti almeno di rendere conto della totalità delle osservazioni riguardanti quel fatidico 11 settembre: tutto quel che dicono, ripetutamente, è di contrastare quella che chiamano la “Versione Ufficiale” degli avvenimenti (da loro abbreviata in VU).

Ma che cos’è la versione ufficiale? Non è una singola proposizione, o una teoria le cui parti sono sistematicamente connesse, in modo che se ne salta una si porta dietro tutto il resto: è una molteplicità di affermazioni e di ipotesi spesso anche slegate fra di loro. Alcune di queste affermazioni ed ipotesi potrebbero benissimo rivelarsi false senza che ciò intacchi in maniera sostanziale il succo del discorso.

Il cospirazionista ha invece una visione olistica estrema, in cui ogni particolare inesatto concorre a confermare la sua teoria secondo cui tutto è falso. Facciamo un esempio testuale concreto: in questo acceso dialogo sull’attentato al Pentagono, che ho tratto dal sito "911 subito", il debunker Paolo Attivissimo ha appena detto a un certo Jack, che difende le tesi cospirazioniste, che probabilmente l’aereo quando ha impattato contro il Pentagono non volava perfettamente radente al suolo, ma con una leggera pendenza.


Jack: «Questo è il top. Hai toccato il fondo. Stai stravolgendo completamente la versione ufficiale che vorresti difendere, paradossalmente rendendola più logica e verosimile di quanto non sia. [...]
Ormai lo sanno anche i sassi. Uno dei punti più discussi dell'intera faccenda è proprio che secondo la versione ufficiale, e ti sfido a negarlo stavolta, l'aereo ha si è avvicinato al Pentagono in linea perfettamente retta, senza la benchè minima pendenza. IN LINEA PERFETTAMENTE RETTA».

Attivissimo: «Ehm... chi ti ha detto che io voglio difendere a tutti i costi la versione ufficiale?»

Jack: «Questo è un giochetto che fai spesso. Ogni tanto salti su a dire: “Ma io non difendo la versione ufficiale al millimetro”, in modo da poterti salvare in extremis quando si dimostra senza possibilità di errore che alcuni aspetti della versione ufficiale sono assolutamente impossibili. [...]. Difendi la posizione che vuoi. A me basta provare che quello che dice il governo USA a proposito dell'attentato è falso. Di provare che quello che dice attivissimo è falso non mi frega nulla, a meno che attivissimo non voglia difendere alcuni aspetti della versione ufficiale. In quel caso smentendo attivissimo smentisco anche la versione ufficiale. Capisci? Non sei il fine, sei il mezzo».

Lo scambio è significativo perché Attivissimo sta dicendo che un aereo è andato a sbattere contro il Pentagono, che in fondo è la stessa cosa che dice il governo americano; quel che è disposto a discutere sono le modalità con cui ciò potrebbe essere avvenuto, ma a quanto pare non è questo ad interessare Jack: non è minimamente interessato a verificare o confutare una singola affermazione di natura empirica. Quello che dice di volere è “provare che quello che dice il governo USA a proposito dell'attentato è falso”, qualunque cosa significhi e senza spiegare cosa questo esattamente comporti. È in effetti impossibile confutare simili ragionamenti, per il semplice motivo che non affermano e non negano nulla, sono assolutamente privi di contenuto. Si dice che qualcosa è falso, anzi, tutto lo è, ma si evita accuratamente di specificare il “cosa”.

Non si tratta di malafede: è che il mondo del cospirazionista è davvero un incubo in cui non vi è nessun punto fermo, nulla di saldo a cui aggrapparsi, la cui stessa realtà ontologica è messa continuamente in discussione (non a caso molti cospirazionisti sono cultori del film Matrix). In queste condizioni, è quasi sgarbato chiedergli di mantenere fermo il punto di una qualsiasi questione, o cosa vogliano dimostrare esattamente.

Altro esempio: è una tesi cospirazionista che le Torri Gemelle non sono crollate a causa dell’impatto con gli aerei, ma sono state fatte crollare nell’ambito di una demolizione controllata. Forse è così (per amor di discussione)... ma come esattamente? Beh, in uno dei cento modi diversi ipotizzati dai cospirazionisti (con esplosivi convenzionali, con l’utilizzo di un materiale chiamato termite in grado di sciogliere l’acciaio, con mini-esplosivi nucleari, con raggi provenienti dallo spazio...). Si presentano indizi che potrebbero andare in direzione di una o dell’altra ipotesi (trascurando, però, ogni evidenza contraria): la presenza, peraltro non dimostrata, di pozze di metallo fuso alla base delle macerie potrebbe essere un segno dell’uso della termite, mentre gli sbuffi di fumo che fuoriescono dalle torri nei piani sottostanti quelli che stanno crollando rivelerebbero la presenza di detonazioni.

Il problema è che tutte queste teorie sono in conflitto tra loro, quindi gli indizi a favore di una teoria confuterebbero non solo la VU, ma anche l’altra teoria concorrente. Ma il cospirazionista non si preoccupa di fortificare o rendere coerente la sua ipotesi spiegando l’evidenza contraria, perché in realtà non ha nessuna vera ipotesi. Egli accetta e usa tutti gli indizi, perché nella sua visione valgono ciascuno come prova contro la VU, e questo gli basta. Se abbiamo cento teorie in conflitto tra loro, ma che contrastano la VU, e se ognuna di queste teorie è supportata da una singola osservazione, allora abbiamo ben cento osservazioni diverse che smentiscono la VU. Si potrebbe dire che le ipotesi di complotto sono come il maiale: non si butta via niente.

Principio di carità e rasoio di Occam


Ciò che si è detto prima a proposito del principio di carità, secondo cui non è possibile che tutto quanto crediamo sia falso ma dobbiamo necessariamente nutrire un vasto corpus di credenze vere (condizione stessa per poter credere qualcosa), ha un importantissimo corollario per quanto riguarda la ricerca scientifica, che è anche noto col nome di “rasoio di Occam”. Il principio di carità, cioè, può servire a dare un significato operativo più preciso alla massima secondo la quale, di due spiegazioni concorrenti del medesimo fenomeno, bisogna scegliere quella più semplice: quando dobbiamo spiegare qualcosa che non si adatta al resto delle nostre credenze, la strada migliore da seguire è fare gli aggiustamenti minimi che si rendono necessari, piuttosto che rivoluzionare l’intero nostro sistema concettuale (le rivoluzioni concettuali, o cambiamenti di paradigma, sono talvolta necessari, ma solo quando gli aggiustamenti che dobbiamo fare cominciano ad essere in numero talmente imbarazzante da non essere poi così economici).

Esempio: dopo che due aerei sono andati a sbattere a New York contro le Torri Gemelle, un terzo aereo a Washington fa perdere le proprie tracce. Viene visto da decine di testimoni sbattere contro una delle facciate del Pentagono. Vengono trovati rottami di aereo sul prato antistante. In seguito viene raccolta la scatola nera, mentre su ciò che rimane dei passeggeri vengono fatte le analisi del DNA per permettere l’identificazione.

Tutto insomma concorre verso un’unica spiegazione dei fatti, ma ci sarebbe un problema: quella breccia sul Pentagono è strana, sembrerebbe troppo piccola per essere causata da un aereo di quelle dimensioni. Una persona di buon senso, messa di fronte a questo dilemma, penserebbe: “Uhmm, interessante; cerchiamo di capire com’è possibile che un aereo così grande possa lasciare un buco in apparenza così piccolo, ammesso che lo sia”.

Ecco invece come pensa il cospirazionista: “Stupefacente! Occorre capire quale oggetto abbia colpito il Pentagono, per quale motivo i testimoni mentano e chi li abbia costretti a farlo, chi abbia sparpagliato finti rottami di aereo sul prato, dove sia finito l’aereo scomparso e in che modo siano stati eliminati i suoi passeggeri, e inoltre chi abbia falsificato i dati della scatola nera e le analisi del DNA”. Il cospirazionista non è in grado di applicare il rasoio di Occam, perché non ha un corpus di credenze che ritiene più centrali e più affidabili di altre, ma per lui tutto è egualmente sacrificabile. Non solo sospetta di tutto, ma non crede a niente, in maniera letterale, nel senso che non ha credenze di sorta.

Ma si potrebbe anche dire, senza reale contraddizione, che invece crede a qualsiasi cosa. Proprio la totale indifferenza nei confronti della verità lo rende al tempo stesso sia profondamente scettico (nei confronti di ciò che spesso è più che ragionevole) sia incredibilmente ingenuo (nei confronti delle più strampalate affermazioni). È solo in questo modo che possono trovare giustificazione sillogismi apparentemente assurdi quali «C’è qualcosa che non mi convince nella ricostruzione ufficiale, penso mi stiano mentendo e non mi fido di nessuno, quindi ho deciso di credere ciecamente nelle teorie del sedicente professor X, che afferma che gli aerei erano telecomandati, e di considerarle come verbo. Chiunque tenti di dimostrare l’inesattezza delle supposizioni del professor X è sicuramente al soldo della CIA».

Nel caso in cui qualche circostanza davvero dirompente riesca a far cambiare idea al cospirazionista, egli allora afferma: «Non importa se la teoria del professor X è sbagliata. Io so che il governo mente, quindi se gli aerei non erano telecomandati vuol dire che in realtà erano degli ologrammi, come afferma l’ingegner Y, che gode della mia totale fiducia».

Il cospirazionista nemico di se stesso


Si capisce quindi come il peggior nemico per la credibilità del cospirazionista è spesso il cospirazionista stesso: egli infatti non si accontenta quasi mai di un’ipotesi di complotto, ma immemore della frase di Lincoln posta in epigrafe a questo articolo, desidera strafare e vede complotti ovunque.

Così, se anche per caso avesse qualcosa da dire a proposito dell’omicidio di Kennedy, non viene ascoltato, perché al tempo stesso afferma che l’Area 51 pullula di alieni. Fra i più noti sostenitori delle “verità alternative” riguardo l’11 settembre, vi è ad esempio David Icke, il quale si dice anche convinto dell’esistenza di una specie aliena di rettili (in grado di nascondersi fra gli umani) che manovra i destini dell’umanità.

Per restare nel nostro paese, il sito che è il principale punto di riferimento per i cospirazionisti italiani (Luogocomune.net, gestito da Massimo Mazzucco) fra le varie cose ospita discussioni sullo sbarco sulla Luna come messinscena cinematografica, sulla cospirazione che ha portato all’uccisione di Kennedy, sulle scie chimiche (ultima moda del cospirazionismo), sugli UFO, sul ruolo della massoneria e delle sette segrete nella storia degli Stati Uniti (e l’instaurazione del “Nuovo Ordine Mondiale”), e sul creazionismo come valida alternativa alla selezione naturale darwiniana. Cosa ancora più deprecabile, fra i cospirazionisti si annidano a volte anche sostenitori di teorie meno “innocue” dal punto di vista ideologico e politico, come il negazionismo e l’antisemitismo.

Se il cospirazionista non è interessato alla verità, a cosa è interessato? Probabilmente alla “sincerità” che è tutt’altra cosa, essendo un attributo delle persone e non delle affermazioni. Il che significa che ciò che interessa nel dire una cosa è soprattutto fornire una rappresentazione di se stessi come aderenti alla “giusta causa” e come persone di un certo tipo. L’accettazione di una frase come “La neve è bianca”, non dipende quindi dalla sua verità (dalla bianchezza della neve) ma dalle implicazioni di tale accettazione sul mio modo di concepire me stesso e sul modo in cui voglio apparire al resto del mondo. Il che è un altro modo, in fondo, per dire che l’ideologia ha il sopravvento su qualsiasi considerazione di natura critica e razionale. Ma è anche un modo elegante per dire che i cospirazionisti raccontano “stronzate”, nel senso messo magistralmente in luce dal filosofo americano Harry Frankfurt nel suo celebre saggio On Bullshit, di cui riportiamo alcuni passaggi:

[...] dire bugie non inficia la capacità di dire la verità quanto invece il raccontare stronzate. A causa di un eccessivo indulgere a quest’ultima attività, che implica il fare asserzioni senza prestare attenzione ad alcunché, tranne che a ciò che fa comodo al proprio discorso, la normale abitudini di badare a come stanno le cose può attenuarsi o perdersi. Uno che mente e uno che dice la verità giocano in campi opposti, per così dire, ma allo stesso gioco. [...]. Chi racconta stronzate ignora completamente tali esigenze, Non rifiuta l’autorità della verità, come fa il bugiardo, e non si oppone ad essa. Non le presta attenzione alcuna. A causa di ciò, le stronzate sono un nemico più pericoloso delle menzogne.

È chiaro che:

Le stronzate sono inevitabili ogni volta che le circostanze obbligano qualcuno a parlare senza sapere di cosa sta parlando. Pertanto la produzione di stronzate è stimolata ogniqualvolta gli obblighi o le opportunità di parlare di un certo argomento eccedono le conoscenze che il parlante ha dei fatti rilevanti attorno a quell’argomento. Questa discrepanza è comune nella vita pubblica, in cui le persone sono spesso spinte – vuoi dalle proprie inclinazioni, vuoi dalle richieste altrui – a parlare in lungo e in largo di materie delle quali sono, in grado maggiore o minore, ignoranti.

Ma soprattutto:

La contemporanea proliferazione delle stronzate ha origini anche più profonde in svariate forme di scetticismo, secondo le quali noi non abbiamo alcun accesso affidabile a una realtà oggettiva, e pertanto non possiamo conoscere la vera realtà delle cose. […] Le conseguenze di questa perdita di fiducia sono state l’abbandono dalla disciplina richiesta dalla fedeltà all’ideale dell’esattezza e l’adozione di una disciplina di genere del tutto diverso, imposta dal perseguimento dell’ideale alternativo della sincerità. […] È come se [una persona] decidesse che dato che non ha senso cercare di essere fedeli ai fatti, allora dovrà invece tentare di essere fedele a se stesso.


Credo ideologico


L’ideale della fedeltà a se stessi, e al proprio credo ideologico, sono a mio avviso il principale motore della cultura cospirazionista. Può una persona con certi ideali e con una certa immagine di sé presentarsi al mondo come un ingenuo che crede a quello che vede scritto nei giornali, che segue ciecamente il gregge nelle sue opinioni, e che si fa mansuetamente manipolare la coscienza dai giornalisti asserviti al potere? Certamente no, anche al costo di dire qualche “stronzata”, o persino al costo di non dire altro. Mai dare un’arma in mano al nemico: mai sospettare anche solo per un attimo che il governo americano, che è all’origine di tutti mali del mondo, possa essere stato la vittima di un attentato terroristico di matrice islamica, perché ciò significherebbe schierarsi dalla parte di una grande potenza militare imperialistica, e contro i deboli e i derelitti del Sud del mondo. Mai credere a una fonte di informazione “ufficiale”, se non si è soddisfatti dello status quo, perché tale fonte non può che essere un riflesso e una propaganda in favore di chi quello status vuole mantenere, ma sempre schierarsi con chi fa “contro-informazione”, a prescindere da quel che dice. L’importante, infatti, non è quel che dice, ma quale causa serve, e come ci si sente a difendere questa causa.

I discorsi cospirazionisti contengono innumerevoli esempi di “aria fritta” (altro modo in cui è possibile tradurre il colorito termine inglese), e c’è solo l’imbarazzo della scelta: a chi obietta che non ha molto senso far sparire un aereo di linea per poi non utilizzarlo come arma e sostituirlo di nascosto con un missile contro il Pentagono (soprattutto in considerazione che già sono stati usati due aerei contro le Torri), il cospirazionista può replicare che non è tenuto a rispondere a queste domande, e che casomai è l’organizzatore del complotto che è tenuto a spiegare come e perché ha agito in quel modo. A chi fa precise obiezioni di natura tecnica, si può rispondere con considerazioni intorno al “quadro generale” della situazione geopolitica d’inizio ventunesimo secolo (in altre parole “Bush è cattivo e tutto quel che puoi dire non può smuovere le mie convinzioni”). Oppure, dopo l’ennesima smentita, si può uscire con una frase come “ma noi non proponiamo teorie alternative, ci limitiamo a porre questioni sui punti oscuri riguardanti l’11 settembre”, salvo smentirsi immediatamente dopo con un nuovo volo pindarico di fantasia e nuove pesantissime accuse nei confronti di ogni persona che lavora per il governo Usa.

Ancora, dopo aver presentato “una prova incontrovertibile di complotto” che viene poi ridimensionata, il cospirazionista può dire “va bene, ma non era quella la prova incontrovertibile di cui parlavo, in realtà era quest’altra”, e così via finché non si ritorna nuovamente alla strategia del “quadro generale” (cfr. la diatriba “seven/salamino” su Luogocomune).

La testa nella sabbia


In conclusione, quindi, è giusto sottolineare come il cospirazionismo non abbia nulla a che vedere con l’atteggiamento del sano scetticismo scientifico, di cui si parlava all’inizio di questo intervento, il quale è in fondo l’ispiratore delle grandi innovazioni teoriche e delle conquiste tecnologiche dell’umanità. Lo scetticismo scientifico infatti è concepito dalle menti critiche non come una negazione della verità tout court, ma anzi come uno strumento che serve a evitare di credere, troppo facilmente, in cose che potrebbero rivelarsi false, e quindi come uno strumento che serve all’allargamento della nostra conoscenza.

Il tipo di scetticismo adottato dai cospirazionisti assomiglia più a un mettere la testa sotto la sabbia, serve a evitare di credere e basta. Non in vista, cioè, di una teoria migliore che potrebbe essere più serenamente accettata da tutti (sia dai cospirazionisti che dalla comunità scientifica). Il cospirazionista è infatti condannato a restare in minoranza perché questa è la missione che si è scelto. Se una teoria cospirazionista diventasse mainstream, il cospirazionista molto probabilmente smetterebbe di sostenerla, e anzi, troverebbe alquanto sospetta la circostanza (“Che sta succedendo? Qui gatta ci cova. Se mi hanno dato ragione, è perché evidentemente vogliono darmi uno zuccherino, in quanto sperano di distogliere la mia attenzione da quelle sono le loro reali malefatte. Ma io sono più furbo di loro, non credano di fregarmi”). Non è la verità che conta, conta solo la propria persona e il proprio sentire. Il mondo esterno si è dissolto, da tempo, in una cartesiana macchinazione contro l’essere umano, e l’essere umano si difende, cartesianamente, ripiegandosi su se stesso in un atto di onanismo mentale perpetuo.

martedì 5 marzo 2013

Dio e Pierre Dukan


Credere in Dio è razionale? La domanda in realtà è ambigua. Noi bright siamo convinti che non c'è nessun argomento razionale, almeno fra quelli noti e tradizionali (prova ontologica, prova cosmologica, argomento del progetto, eccetera) che riesca a dimostrare l'esistenza di Dio in maniera convincente. Ma questo non esclude che credere in Dio possa essere "razionale" in un altro senso, come viene evidenziato dall'argomento della scommessa di Pascal.

Pascal, attingendo alla teoria della probabilità e a quella che oggi chiameremmo teoria della decisione razionale, mostra come sia sufficiente che l'ipotesi del dio che ci punisce con i tormenti infernali nel caso in cui non crediamo in lui, mentre premia la nostra fede con la beatitudine eterna, non abbia probabilità zero per costituire un motivo valido di conversione. Nel caso, probabile, in cui sbagliassimo a credere, infatti, quel che perdiamo è poco (le gioie di una vita peccaminosa, nulla di che), ma se invece sbagliamo a non credere perdiamo tutto.

La cosa singolare è che, come del resto Pascal sapeva benissimo, questo argomento costituisce tutt'al più un "motivo" per credere, ma non una vera "ragione", nel senso che non fornisce nessuna evidenza, nessun supporto né empirico né logico, in favore dell'ipotesi dell'esistenza divina. Io posso convincermi che credere di avere i capelli rossi mi renderebbe più felice, migliorerebbe la mia esistenza, e quindi sforzarmi di credere di avere i capelli rossi, e questo potrebbe persino essere razionale da parte mia, ma questo non è un argomento a favore dell'ipotesi dei capelli rossi. È semmai una ragione per diventare irrazionali, una sorta di razionalità di secondo ordine. Pascal si rendeva talmente conto che non è sufficiente convincersi che sarebbe meglio credere in Dio per crederci davvero (uno dopotutto non può decidere di credere in qualcosa in cui non crede) che propone anche varie strategie per mettere a tacere la ragione, come ad esempio l'ipocrisia programmata, iniziare a fingere di credere, nella speranza che col tempo l'assuefazione alla finzione faccia dimenticare l'iniziale scetticismo.

C'è ovviamente un'altra difficoltà con l'argomento della scommessa di Pascal, come possiamo riconoscere meglio noi che siamo abituati a un'offerta sul mercato delle religioni estremamente più ampia di quella che era possibile ai tempi di Pascal. Ovvero il fatto che l'argomento di per sé non consente di scegliere tra nessuna delle tante fedi che promettono ricompense e punizioni ultraterrene. Nemmeno l'ipotesi che l'universo sia governato da un Grande Puffo che vuole che noi ogni plenilunio ci coloriamo il corpo di blu e corriamo nudi per le strade pena l'essere divorati eternamente dopo la morte da Gargamella può dirsi avente probabilità zero. Quindi siamo altrettanto motivati a credere nel Dio di Abramo e Isacco quanto lo siamo a credere nel Grande Puffo, con l'inconveniente che queste credenze sono non solo logicamente incompatibili fra loro (si potrebbe cercare di mettere a tacere anche il principio della coerenza, in fondo), ma che si escludono anche in un altro senso, ovvero che sbagliare fede mi porterebbe alla dannazione ("io sono un Grande Puffo geloso").

Tuttavia, una volta riconosciuta la legittimità di indagare le questioni di fede dal punto di vista della teoria della decisione razionale, ovvero di considerare il credente non come un folle invasato per definizione, ma come un agente economico razionale che massimizza il proprio interesse, non si vede perché dovremmo fermarci qui: questo tipo di indagine può offrirci molto di più e farci comprendere meglio alcuni aspetti delle religioni che conosciamo. Supponiamo che qualcuno abbia deciso che sarebbe meglio per lui credere in Dio: non ci interessa qui se tale decisione è razionale o meno, probabilmente la questione è irrisolvibile, nel senso che si tratta in fondo di valori soggettivi che trascendono l'ambito della razionalità (è razionale per me preferire lo yogurt alla banana piuttosto che quello alla fragola?). Il problema che si pone a questo individuo, adesso, è quello di scegliere il dio che più soddisfa le sue esigenze, quello di orientarsi in un'offerta di mercato estremamente vasta e variegata, un mercato dove esiste una concorrenza spietata. Può la teoria della decisione razionale aiutarci a comprendere le sue scelte? Il soggetto religioso rimane un agente economico razionale? E può una tale indagine aiutarci a comprendere anche le caratteristiche delle religioni, intente a conquistare clienti e nicchie di mercato con ogni mezzo disponibile? È quel che sostengono alcuni sociologi della religione, come Rodney Stark, ed economisti come Lawrence Iannaccone.

Possiamo paragonare una religione a una dieta: le diete promettono di far perdere chili, a condizione che si adotti un determinato comportamento, le religioni vendono invece la possibilità di vivere eternamente, sempre a determinate condizioni. Religioni e diete presentano inoltre delle notevoli somiglianze, per esempio in quanto nessuno, e nemmeno fra i cosiddetti "esperti", è davvero in grado di dimostrare una maggiore efficacia di un tipo di dieta su un altro, e nemmeno se esiste un metodo garantito per dimagrire. D'altronde questo tipo di incertezza non rende necessariamente irrazionale il comportamento di chi si mette a dieta: può essere ragionevole assumersi dei rischi, quando il potenziale beneficio è alto. Nel valutare le scelte dei consumatori quindi dovremo sospendere il giudizio su quale dieta, o quale religione, sia quella "giusta" e piuttosto cercare di scoprire le strategie in base alle quali le religioni, o le diete, cercano di conquistare credibilità presso i potenziali acquirenti.

Una prima constatazione, che può immediatamente risolvere il paradosso del Grande Puffo enunciato in precedenza, è che i consumatori cercano di valutare i benefici di un potenziale acquisto osservando il comportamento di altri consumatori. Sembra abbastanza razionale seguire una dieta che è seguita da altri milioni di persone, piuttosto che fidarsi di un perfetto sconosciuto totalmente privo di seguaci. Anche nel comprare un libro o nello scegliere un film ci facciamo indirizzare dalle classifiche di vendita: "il libro che ha venduto oltre un milione di copie", "il film che ha sbancato il botteghino". La religione è un fenomeno sociale, quasi mai privato, e il comportamento delle persone che ci circondano ci influenza profondamente.

Altrettanto importanti delle classifiche di vendita sono i testimonial, meglio se autorevoli, dove autorevole può significare famoso e popolare (Tom Cruise, Alessia Marcuzzi), oppure che ci fidiamo per conoscenza personale (il nostro barbiere, l'amico, il marito o la moglie). Ogni nuova setta, pare, comincia a diffondersi all'interno di una ristretta cerchia di conoscenti, di persone che si fidano l'una dell'altra. In omaggio al detto "non chiedere all'oste se il vino è buono" ci fidiamo ancora di più di un testimonial che vanta gli immensi benefici di una dieta, o di una religione, quando sappiamo che non ha nulla da guadagnare nel fare propaganda ("non ho ricevuto nessun compenso per questo annuncio"), o che addirittura corre dei rischi. Questo è alla base della vocazione al martirio e al sacrificio personale presente in molte religioni. Quelle terribili storie di santi bruciati, decapitati, lapidati, scuoiati, divorati dalle fiere, sono l'equivalente, in advertising, di "il film che è stato censurato in 18 paesi" o "la terribile verità sulle diete che big pharma non avrebbe voluto farvi leggere".

Ho appena scritto che la pubblicità dei sacrifici può spingere una persona ad aderire ad una religione, ma diverso è chiedersi perché una persona religiosa dovrebbe compiere dei sacrifici personali, perché dovrebbe per esempio astenersi dal mangiare del porco, o dal commettere atti impuri. Il problema è che apparentemente, e proprio dal punto di vista della massimizzazione dell'utilità, parrebbe sensato minimizzare i costi. In realtà è chiaro che nessuno seguirebbe con convinzione una dieta che dice semplicemente "fai il cazzo che ti pare", sempre per la credibilità, ma nel caso delle religioni c'è un altro aspetto da considerare, ovvero il problema dei free-riders. Se il successo di una religione, e il grado di soddisfazione dei suoi adepti, dipende dal grado di impegno profuso dagli adepti stessi, tutto questo sforzo rischia di essere vanificato una volta che a quella religione di successo aderiscono persone troppo svogliate per partecipare agli sforzi della comunità, che si vogliono fregiare del titolo di "buoni cristiani" ma si fanno vedere in chiesa solo quando c'è da riscuotere, in occasioni di matrimoni o battesimi. Una buona organizzazione religiosa allora cercherà di aumentare i costi della partecipazione per scoraggiare gli eventuali scrocconi della vita eterna, consentendo in tal modo anche una maggiore riuscita dei suoi eventi (più siamo al concerto della parrocchia e meno rimpiangeremo di non essere andati al cinema).

Il tipo di analisi sociologica della religione in termini di razionalità qui proposto, se corretto, consente di rovesciare alcune delle assunzioni più semplicistiche spesso fatte da noi bright (o almeno i meno brillanti fra noi): sembra poco verosimile, per esempio, che la religione in futuro sparisca come un retaggio dell'ignoranza dei secoli passati e venga definitivamente soppiantata dalla scienza e dalla tecnica, come vorrebbe la tesi del "disincantamento" del mondo di Max Weber. Questo per il semplice fatto che il prodotto "immortalità" troverà sempre degli acquirenti.

Una cosa che potrebbe deludere persino alcune persone religiose più propense al razionalismo, invece, è che sembra altrettanto improbabile che le religioni popolari, che hanno al centro della loro dottrina un dio personale e antropomorfo che "commercia" letteralmente con i fedeli (ascolta le preghiere, esaudisce i desideri, ma punisce gli inadempienti) sparisca in favore di un insipido deismo con protagonista un "principio cosmico" alla base dell'universo indifferente ai destini dell'uomo. Qui, appunto, i due significati di "razionale" sviscerati all'inizio del post, divergono: un dio impersonale è forse più razionale del severo signore con la barba della nostra immaginazione fanciullesca, ma non c'è nulla di razionale nell'adorare un "qualcosa" che non è in grado di darci nulla in cambio, e non può nemmeno ascoltare le nostre preghiere.

Quanto a me, devo confessare la mia irrazionalità. Sono persuaso che potrebbe convenirmi credere in Dio, però ho anch'io la mia religione, a volte molto esigente, e questa mi proibisce di credere cose false.