martedì 18 gennaio 2011

lo stipendio di Marchionne


Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale, ma purtroppo non dev'essere sempre giusto ed equo. Chissà se poi gli esseri umani davvero desiderano la giustizia e l'equità. La teoria dei giochi, ovvero quella serissima teoria che a dispetto del nome frivolo si occupa di studiare le scelte ottimali degli agenti in condizioni di incertezza e in relazione alle scelte di altri agenti (in conflitto o in collaborazione), può aiutarci a capire meglio certi aspetti del mondo che ci lasciano perplessi: ad esempio potrebbe aiutarci a capire lo stipendio di Marchionne, di cui tanto si parla in questi giorni con toni indignati.

È noto e confermato da molte ricerche psicologiche che che il livello di soddisfazione personale o di felicità soggettiva di un individuo non dipende affatto dai traguardi raggiunti, in senso assoluto, ma molto di più dalla performance relativa ad altri individui della stessa cerchia. È il motivo per cui un miliardario, in media, non è molto più felice di uno spazzino: è perché il miliardario è circondato da altri miliardari, molti dei quali più ricchi di lui. Anzi, essendo la ricchezza distribuita in modo assai discontinuo (frattale, si può dire), è quasi certo che per ogni miliardario esiste un altro miliardario in confronto al quale il primo miliardario fa la figura dello spazzino, escluso ovviamente il più miliardario di tutti.

Sarebbe molto più semplice se tutti quanti ci accontentassimo di piccole gioie quotidiane, se badassimo solo alle nostre esigenze, ai nostri traguardi e alla riuscita dei nostri obiettivi, senza stare sempre a confrontare la lunghezza del nostro pisello con quello del prossimo, o a chi ha il modello di telefono più fico, o la macchina più costosa. Purtroppo la natura umana, altamente competitiva, rende difficile tenere fede a questo ottimi propositi, e in questo sta la radice di molte delle nostre miserie.

Tenendo presente questo, forse, non ci dovremmo meravigliare tanto nemmeno del fatto che la ricchezza, come stavo appunto dicendo, è distribuita in modo così diseguale e iniquo. Non è tanto il fatto che ci siano delle differenze a suscitare indignazione, tranne forse che per i più ferventi comunisti, ma è il fatto che non sempre a queste differenze si riesce a dare una spiegazione in termini di merito personale. Ovvero, nessuno si preoccupa del fatto che un riparatore di biciclette che riesce a riparare venti biciclette nello stesso tempo in cui un altro riparatore ne ripara dieci, guadagna giustamente il doppio del primo. Ma quando leggiamo di sportivi con compensi da favola, o di amministratori delegati che guadagnano centinaia o addirittura migliaia di volte lo stipendio di un operaio, il nostro senso di giustizia comincia a scalciare.

Ovvero, se il compenso dipende dal valore assoluto, allora è chiaro che c'è qualcosa che non va, perché il tennista primo nella classifica mondiale non è due volte o dieci volte più bravo, poniamo, del tennista immediatamente dopo di lui. Per essere primo gli basta essere solo leggermente più bravo, anche di pochissimo. E certamente neppure Marchionne, per quanto bravo possa essere, vale dieci altri manager o addirittura 800 operai. Però le differenze nella ricchezza degli sportivi, o dei manager, non sono proporzionate alla differenza rispetto al loro valore assoluto, ma sono molto più ampie. Tiger Woods è molto più ricco del secondo golfista più bravo del mondo. Una generalizzazione e un'articolazione, in fondo, del principio "the winner takes it all".

Come dicevo, questo può sembrare ingiusto, mentre sarebbe forse considerato più corretto un sistema dove ad ognuno è dato secondo le sue effettive abilità o il suo livello di produttività. Ma se la propria situazione, espressa in termini non relativi, non è mai considerata una misura affidabile della felicità, perché mai dovremmo adeguare i compensi a quella, e non alla prestazione relativa? Non è una conseguenza naturale della nostra psicologia? I compensi, nello sport come nelle gerarchie d'ufficio, sono quello che sono perché la gente deve avere una motivazione efficace per cercare di ottenerli, e probabilmente un salario più basso, equo, non costituisce uno stimolo abbastanza forte. Perché dovrei dannarmi e faticare per avere solo pochi euro in più rispetto ai miei colleghi meno bravi? Lavorare il doppio per guadagnare il doppio non è abbastanza, mentre lavorare un po' di più per guadagnare dieci volte tanto… si comincia a ragionare.

Il valore assoluto risulta peraltro difficile da misurare: chi è stato il più grande tennista nella storia, o il più grande pugile? Boh, possiamo solo dire chi è il migliore in un certo momento storico, e possiamo dirlo solo in base al fatto che ha battuto tutti gli altri, ma essere il primo tennista al mondo in un certo momento può anche dipendere dal fatto che tutti i rivali sono di scarso livello. Forse il numero 10 del 1980 era più bravo del numero 1 del 2000, ma possiamo stare sicuri che guadagnava molto, ma molto meno. Quindi anche se volessimo essere più "equi" ci scontreremmo con questa difficoltà, cioè nell'impossibilità di misurare il valore e la produttività in maniera affidabile: molto più facile effettuare un semplice ordinamento (stabilire chi è migliore di chi e premiarlo di conseguenza).

Ancora, i compensi per le gerarchie più alte tendono a crescere a dismisura, e quindi a essere ancora più iniqui, quando il successo relativo è molto dipendente dalla fortuna, più che dal merito effettivo. Sembra assurdo, ma la ragione è evidente: ancora una volta, io non mi metto a sudare sette camicie per dimostrare il mio valore, se poi il mio rivale può superarmi per un colpo di fortuna (magari l'arbitro ha dichiarato un "fuori" che invece era dentro), a meno che il premio non sia molto elevato. La gente gioca alla lotteria, che è un gioco di pura fortuna, solo perché i premi sono molti alti rispetto allo sforzo compiuto. Siccome, come abbiamo appena visto, misurare le prestazioni in azienda può essere molto difficile e contiene sempre un grosso elemento di arbitrarietà e fortuna, ne consegue che più in alto si sale nei vertici aziendali, più il compenso sale a dismisura, e meno è meritato. Questo è il succo della "teoria dei tornei" (tournament theory) elaborata da Lazear e Rosen in un articolo del 1981. La teoria spiega l'iniquità del compenso di Marchionne mettendo in evidenza come in fondo non è affatto necessario che sia meritato (Marchionne potrebbe anche passare tutto il suo tempo a giocare a Farmville), ma che per essere giustificato è sufficiente che costituisca una motivazione valida a lavorare sodo per tutto il resto dell'azienda.

Ora, la teoria dei tornei è abbastanza affascinante e spiega molte cose: spiega ad esempio perché spesso la vita d'ufficio sia così maledettamente frustrante e alienante. È normale, quando sei il giocatore di un torneo dove lo scopo di tutti gli altri giocatori non è solo quello di fare del loro meglio, ma anche quello di farti perdere. Eppure non è ancora molto convincente, se scendiamo dall'empireo della teoria e pensiamo ai casi concreti, per motivi che dovrebbero essere evidenti. Lo stipendio di Marchionne non potrà mai fungere da stimolo per un operaio Fiat a produrre di più, perché nessun operaio Fiat ha una ragionevole speranza di diventare in futuro un amministratore delegato in conseguenza dell'ottimo lavoro svolto. La competizione si svolge solo tra azionisti, gli operai ne sono comunque tenuti fuori e difficilmente potranno trarre una qualche consolazione dalla teoria dei tornei.

Il fatto è che in teoria ci sarebbe un modo per coinvolgere anche loro, e cioè trasformarli tutti in azionisti e rendere il salario variabile in base alle performances dell'azienda. Se la Fiat va bene, tutti i lavoratori, compresi gli operai, guadagnano, se invece va male, tutti perdono. Ma ce li vedete i sindacati ad accettare un accordo simile? Troppi rischi, meglio tenersi uno stipendio, magari non altissimo, ma almeno assicurato. Inoltre non funzionerebbe neanche come motivazione: ci sono situazioni infatti in cui il perseguimento dell'interesse personale porta a un peggioramento della situazione della collettività. È noto ad esempio che in una cena al ristorante dove il conto viene alla fine diviso equamente fra tutti i partecipanti, questo tende ad essere più salato di quanto lo sarebbe se ognuno pagasse quel che ha mangiato, perché non è nell'interesse di nessuno moderarsi troppo sapendo che poi dovrà pagare comunque gli eccessi del prossimo.

Analogamente, le azioni non motiverebbero a sufficienza l'operaio ad agire nell'interesse dell'azienda, perché il contributo del singolo operaio, per quanto si sforzi, sarebbe in ogni caso risibile sull'andamento degli utili della Fiat, e non lo proteggerebbe comunque dai rovesci della finanza, che rischierebbero di intaccare il suo già magro reddito. Un amministratore delegato invece ha una grande responsabilità: se prende delle decisioni sbagliate può produrre danni incalcolabili, mentre decisioni giuste possono arricchire molte persone.

Ai livelli più alti, quindi, i bonus esagerati servono proprio a motivare il manager ad agire nell'interesse dell'azienda. Se il manager avesse uno stipendio fisso, o anche legato alle performances dell'azienda ma in maniera più proporzionata ed equa (se gli utili dell'azienda crescono del 2%, allora anche il compenso sale del 2%) la motivazione potrebbe non essere sufficiente. Il manager ad esempio potrebbe decidere di dilapidare dieci milioni di euro (l'1% del fatturato dell'azienda) in cene di rappresentanza a base di donnine allegre, sapendo che questo intaccherebbe il suo stipendio solo dell'1% (e magari ne varrebbe la pena). Ma se sapesse che ogni incremento di un punto percentuale del fatturato aziendale portasse ad un raddoppio del suo stipendio, allora sì che si darebbe da fare.

Questa è una seconda spiegazione, quindi, del perché i compensi di Marchionne sono così elevati (tutto questo, per chi è interessato ad approfondire, è anche esposto in maniera più esauriente nel libro di Tim Harford, The Logic of Life). Ma c'è ancora una terza spiegazione da tenere in conto: il compenso di Marchionne potrebbe essere non meritato né giustificato, ma semplicemente rubato. In fondo chi può impedirglielo? In teoria dovrebbero essere gli azionisti a controllare il suo operato, e potrebbero decidere di togliergli la fiducia qualora si accorgessero che sta tirando un po' troppo la corda. Ma ancora, è davvero nel loro interesse farlo, ovvero, hanno una motivazione sufficiente?

Ancora una volta la teoria dei giochi e l'equilibrio di Nash cospirano contro la giustizia: il danno derivato al singolo azionista dall'operato di Marchionne, qualora questi si elevasse troppo lo stipendio, è lieve e potrebbe non valere il disturbo, specialmente se l'azienda sta andando bene. Una crisi di successione rappresenterebbe un danno d'immagine e un favore fatto alla concorrenza. In questa ipotesi, tutti sarebbero a conoscenza del fatto che Marchionne sta prelevando fondi all'azienda per il suo interesse personale, ma non potrebbero farci niente.

D'accordo, ciò che è reale è razionale, ma questo non vuol dire che non possa essere reso ancora un po' più razionale, volendo.