venerdì 24 dicembre 2010

fuffa quantistica


Nella prima metà del ventesimo secolo, lo sviluppo della fisica quantistica ad opera di un gruppo di scienziati europei (Planck, Bohr, Heisenberg, Dirac, Einstein, De Broglie, Schrödinger e altri ancora) segnò una rottura dell'immagine tradizionale della natura molto più vasta di qualsiasi rivoluzione scientifica precedente. Anche le scoperte di Galileo e Newton erano contro-intuitive, rispetto alla fisica "ingenua" aristotelica, ma erano anche in fondo comprensibilissime e razionali, tanto da essere giustificate da Kant, a posteriori, come basate su principi assolutamente necessari. Nemmeno la teoria della relatività di Einstein era così profondamente enigmatica come il comportamento delle onde e delle particelle elementari evidenziato dai fisici dei primi decenni del Novecento.

Le rivoluzioni scientifiche portano con sé, in maniera abbastanza inevitabile, un ripensamento dei principi epistemologici stessi alla base della ricerca. Dopo l'iniziale sconcerto, la prima reazione da parte di alcuni degli scienziati coinvolti fu un'interpretazione della natura in chiave anti-realista, se non apertamente idealista, nettamente in contrasto con l'approccio "materialista" tradizionalmente attribuito agli uomini di scienza. Di matrice idealista è sicuramente la cosiddetta interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, fatta propria da Niels Bohr e Werner Heisenberg. Quella che rese Einstein molto diffidente nei confronti della meccanica quantistica tutta (pur essendone uno dei padri) e che gli fece esclamare: "non riesco a credere che la Luna non sia lì se non la si guarda".

Pur non avendo in realtà una formulazione univoca, di modo che non è chiaro capire di che si tratti con esattezza, credo che la caratteristica principale dell'interpretazione di Copenaghen sia l'importanza data all'apparato di misurazione e al ruolo svolto dall'osservatore. Uno dei risultati più sorprendenti della meccanica quantistica è proprio il fatto che il comportamento di alcune entità (particelle elementari) è determinato dall'esperimento stesso con cui si cerca di osservarlo, mentre la loro natura intrinseca resta in qualche modo "indeterminata" quando non vengono osservate. Ovvero l'esperimento ci fa vedere la particella in una data posizione nello spazio, ma prima di essere osservata la posizione della particella non era semplicemente ignota, è che proprio non stava da nessuna parte, o meglio ancora era dappertutto (si trovava in una "sovrapposizione di stati", dicono i fisici). Una buona introduzione al tema, da parte di un vero luminare, la si può trovare in questo post.

Fin qui nulla di male, cioè, è sorprendente, ma non si tratta nemmeno di un'interpretazione, è ciò che viene effettivamente osservato, per quanto strano. L'idealismo emerge nelle interpretazioni più estreme di questo fatto sperimentale, ad esempio quando si comincia ad attribuire non tanto all'apparato sperimentale, ma alla "osservazione cosciente" dello sperimentatore il potere di trasformare la realtà. Quando cioè si attribuisce alla mente immateriale, piuttosto che alle macchine, il collasso della funzione d'onda (la funzione matematica che descrive la sovrapposizione degli stati possibili di una particella o un gruppo di particelle).

Questa non è soltanto una visione metafisica bizzarra (che in quanto tale sarebbe innocua), ma in realtà conduce anche a conseguenze sperimentali contraddittorie, come ben argomenta Paolo Musso in questo articolo. Sempre Paolo Musso mi fornisce gentilmente le citazioni necessarie a mostrare che questa lettura idealistica dell'interpretazione di Copenaghen non è del tutto una mia invenzione, ma che se anche nessuno degli scienziati coinvolti (tranne, pare, von Neumann) l'avesse abbracciata con convinzione, alcune loro parole mostrano almeno una certa propensione verso l'idealismo.

La normale separazione del mondo tra soggetto e oggetto, tra mondo interno e mondo esterno, tra corpo e anima, non è più adeguata. [...] Tutti gli oppositori della interpretazione di Copenaghen concordano in un punto. Sarebbe desiderabile, secondo loro, ritornare al concetto di realtà della fisica classica o, per usare un termine filosofico, all'ontologia del materialismo. Essi preferirebbero ritornare all'idea di un mondo reale oggettivo le cui particelle minime esistono oggettivamente nello stesso senso in cui esistono pietre e alberi, indipendentemente dal fatto che noi le osserviamo o no (Werner Heisenberg)
Per quanto utile possa essere nella vita di ogni giorno il dire che il mondo esiste “là fuori” indipendentemente da noi, questo punto di vista non può più essere mantenuto [...] Sì, o universo, senza di te io non avrei potuto cominciare ad esistere. Tuttavia tu, grande sistema, sei fatto di fenomeni; ed ogni fenomeno poggia su un atto di osservazione. Tu non potresti mai nemmeno esistere senza atti elementari di registrazione come i miei (John Wheeler)
Resterà notevole, qualunque sia lo sviluppo futuro dei nostri concetti, che lo stesso studio del mondo esterno abbia portato alla conclusione che il contenuto della coscienza è una realtà irriducibile (Eugene Wigner)

Purtroppo non solo l'interpretazione di Copenaghen viene spesso presentata come se fosse l'unica dottrina ortodossa in materia di fisica quantistica (specie quando contrapposta alla teoria delle variabili nascoste, che si è dimostrata in effetti impraticabile), ma molti testi divulgativi la presentano proprio in termini simili a quelli citati sopra, di modo che una certa immagine si è diffusa anche a livello popolare, e che non è raro sentire o leggere frasi come "ormai la fisica quantistica ha dimostrato che non esiste una realtà oggettiva, ma che la realtà viene creata dalla nostra stessa mente".

Pura fuffa cui ha poi contribuito la letteratura new age, e tutti quei libri, a partire dal celebre Il Tao della fisica di Fritjof Capra, che si sono sforzati di intravedere connessioni fra le dottrine mistiche orientali e lo sviluppo della scienza moderna. Connessioni suggestive quanto, a ben guardare, alquanto superficiali (in fondo tutto è simile a tutto). Francamente, l'idea che un monaco tibetano di qualche secolo fa possa aver elaborato qualcosa di simile alla concezione della realtà svelata dalla fisica quantistica semplicemente "meditando" è piuttosto offensiva nei confronti di chi fa il lavoro dello scienziato, il quale sa bene che non solo deve sottoporre le sue idee al tribunale dell'esperienza, ma anche che quelle stesse idee non gli sarebbero mai venute senza il lavoro di tutti gli scienziati che l'hanno preceduto. No, dire una scemenza vaga e fumosa come "tutto è energia, tutto si trasforma" o altri pensierini da Bacio Perugina non è affatto paragonabile all'ideare il principio di indeterminazione di Heisenberg, o al descrivere la struttura di un atomo.

Ancora più pericoloso il discorso quando viene utilizzato dai ciarlatani per vendere i loro intrugli. Non è inconsueto, purtroppo, che la fisica quantistica venga invocata dagli adepti della "medicina olistica" o chissacché, per giustificare i loro folli procedimenti. Persone che cercano di convincere i malati dell'enorme potere della loro mente di incidere sul reale e trasformarlo, e quindi di sconfiggere ogni malattia possibile e immaginabile con la sola forza di volontà ("lo dice la fisica quantistica!"). Persone che arrivano a ideare una disciplina dal nome "medicina quantistica" e che la presentano con stringhe di parole assolutamente senza senso alcuno, ad esempio:

L’uomo e la natura sono costituiti di energia e materia. La materia è frequenza elettromagnetica condensata, e quindi tutti i corpi emettono frequenze (energia) e possono anche riceverle. Tutte le cellule del corpo umano grazie al loro DNA che funziona come un trasmettitore-ricevitore sono in continua connessione elettrica e modificano sè stesse [sic] a seconda dei messaggi.
La medicina quantistica grazie a tecnologie basate sulla fisica quantistica (Plank-Borch) [sic] può decodificare le trasmissioni intercellulari ed effettuare una diagnosi e quindi una terapia corretta che può essere: omeopatica, agopunturale, fitoterapica, ecc. a seconda dell’indirizzo del medico.
Tutte le “patologie” dal comune raffreddore alla psoriasi sono effetti di alterazioni di percezione del reale, che nell’arco di mesi o di anni e nel caso dei bambini già alla nascita, portano ad una alterazione delle frequenze elettromagnetiche della nostra “Unità” e quindi al malfunzionamento del DNA che prima di essere la composizione di Adenina, Guanina, Citosina e Uracile [in realtà l'uracile è una componente del RNA], è un’elica di frequenza cristallina.
A seconda del tipo di squilibrio personale, l’alterazione di frequenze crea la “malattia” di un organo (o più) anziché di un altro.
Tutti i medici operanti nel settore delle medicine non convenzionali, sanno che la paura colpisce i reni ed il cuore, la rabbia il fegato e la cistifellea, la soppressione il sistema nervoso centrale, la svalutazione di sé la colonna vertebrale e le ossa.

Il mio appello, a tutti i cultori di dottrine new age, religioni orientaleggianti, medicine alternative, e pseudoscienze varie ed eventuali, è il seguente: "credete pure a quello che volete, vivete pure come volete, fatevi ingannare da chi volete, ma per favore, lasciate in pace la fisica quantistica e in generale le cose che sono più grandi voi e delle capacità del vostro cervello. Essa non vi merita, non è stata concepita per essere abusata da voi e per diventare un giochino da astrologi della domenica, ma è una delle più grandi elaborazioni concettuali dell'umanità. Lasciatela stare, per piacere. Oppure buttatevi dal decimo piano di un palazzo e provate a modificare la realtà del marciapiede".

martedì 7 dicembre 2010

l'idolatria dei fatti


"La lettura del giornale è la preghiera dell'uomo moderno", diceva Hegel. È anche la sua superstizione, aggiungo io. Hegel intendeva dire che il processo di secolarizzazione e immanentizzazione della religione era giunto al punto che per entrare in contatto con la divinità, in qualunque modo la si chiami (Spirito Assoluto, ad esempio) era sufficiente essere aggiornati su quel che succede. Lo Spirito si manifesta non attraverso i miracoli e le opere dei santi e dei profeti, ma attraverso la cronaca, o attraverso lo svolgersi degli eventi storici (non è proprio la stessa cosa, ma alcuni non distinguono). Il problema di una religione secolarizzata, però, è che si tratta pur sempre di una religione.

Il giornalismo e la stampa (in qualunque forma, cartacea, televisiva o elettronica), con tutti i meriti che hanno in ordine al formarsi di una "opinione pubblica", di una "coscienza civile" e al controllo del potere politico, sono indubbiamente anche la più ampia fonte di "non-conoscenza" che abbiamo oggi, e una delle più pericolose, proprio per l'illusione di conoscenza che producono, e per la dipendenza che inducono. Fatti e fattoidi scorrono quotidianamente sotto i nostri occhi, drogati di informazione, spesso senza che ci rendiamo conto della loro estrema insignificanza e provvisorietà, non solo su scala geologica e cosmologica, ma proprio in relazione alle nostre vite e ai nostri interessi anche frivoli.

È più divertente seguire una partita di calcio nel suo svolgimento, che conoscere solo il risultato alla fine (o almeno così dicono gli appassionati di sport), ma non credo che l'ansia di conoscere, minuto per minuto, l'andamento di un titolo in borsa, o l'iter di una legge in Parlamento, o le consultazioni per la formazione o il disgregarsi delle alleanze politiche in previsione della fiducia al Governo, abbiano molto a che vedere con lo spirito sportivo. La verità, dovremmo riconoscerlo, è che la maggior parte delle informazioni che riceviamo dai giornali sono assolutamente inutili e che vivremmo molto meglio senza.

Molte delle informazioni che riceviamo da un giornale online, aggiornato in tempo reale, potrebbero essere date in blocco una volta solo al giorno, in modo da farci stare più tranquilli (la preghiera di cui parlava Hegel era quella mattutina, la nostra idolatria moderna ci spinge a pregare in maniera compulsiva in ogni momento della giornata). Molte delle informazioni contenute in un quotidiano potrebbero essere date da un settimanale, e la funzione di un settimanale potrebbe in buona parte essere svolta da un mensile. Alcune delle informazioni contenute in tutti questi giornali potrebbero non essere date mai, naturalmente, perché mai serviranno a qualcuno (se non forse al giornale stesso per giustificare la sua esistenza).

Quando i giornalisti scioperano si comportano un po' come se dovesse crollare il mondo, come se la democrazia fosse destinata a cedere per un solo giorno di black out informativo, ma in fondo, a ben vedere, non è proprio come se scioperassero gli ospedali, e non se ne sente troppo la mancanza. Possiamo fare a meno della dichiarazione del politico di turno che sarà superata dalla dichiarazione di domani, di leggere quello che oggi ci sembra importante ma domani non lo sarà più (per una collezioni di altri giudizi sferzanti sul giornalismo, leggere gli aforismi di Karl Kraus, oppure i libri di Taleb).

Se i giornali sono il regno dell'effimero e del transitorio, il contrario del giornalismo è lo studio di ciò che è eterno, di ciò che si eleva al di sopra delle nostra miserie terrene. Lo studio dell'essere in quanto contrapposto alla mera esistenza. Coloro che svolgono un mestiere il più possibile lontano da quello dei giornalisti sono dunque i matematici, gli studiosi delle forme a priori del tempo e dello spazio, prima di ogni tempo e spazio vissuti per esperienza. Cosa c'è di meno transitorio del teorema di Pitagora? di meno effimero della "notizia" per cui esistono infiniti numeri primi, o che non esiste nessuna tripletta di numeri x e y e z tale per cui x^n + y^n = z^n (per ogni n>2)?

Se queste sono la tesi e l'antitesi, la sintesi hegeliana l'ha forse trovata un matematico e scrittore americano, John Allen Paulos, autore del libro A Mathematician Reads the Newspaper, nel quale descrive appunto il paradossale approccio di un matematico alla lettura dei giornali. Si tratta in fondo di nient'altro che di un'opera divulgativa, che cerca di combattere l'analfabetismo scientifico tanto diffuso un po' ovunque (e che naturalmente va oltre la conoscenza della sola matematica), educando ad una lettura critica e attenta alle strutture profonde ed essenziali che si nascondono dietro una notizia, al razionale che sta sotto al reale. Possiamo pensare dunque a una pars destruens, dove ci si fa beffe del modo in cui certe notizie vengono date e assimilate, e a una pars construens dove si propongono alternative migliori (forse un po' utopiche).

Esempi nostrani: se io leggo, come è capitato recentemente che "un marocchino drogato e senza patente ha investito e ucciso sette ciclisti", mi viene spontaneo chiedermi cosa mai può aggiungere, alla tragica notizia, il fatto che il conducente fosse marocchino (non c'è scritto se era mancino o ambidestro, o per quale squadra tifava, perché questi dati sono giustamente ritenuti insignificanti). C'è quindi un problema, subito, di filtro delle informazioni da comunicare, dei dati selezionati. Se non facciamo attenzione a queste cose rischiamo di entrare in comunicazione non tanto con lo zeitgeist, "lo spirito del tempo", ma solo con l'umore di un redattore un po' fascista; non veniamo realmente informati su ciò che succede.

Ogni volta che viene data una notizia del genere, inoltre, sarebbe bello vedere una tabella che contiene dati statistici aggiornati sull'incidenza della mortalità stradale, in rapporto magari ad altri fenomeni. In questo modo il lettore sarebbe forse meno propenso ad attribuire un'importanza reale, agli eventi, proporzionale alla loro esposizione sui giornali. Per esempio: "Sharm, squalo uccide una turista" (su Repubblica ieri). Il fatto che ogni volta che uno squalo uccide qualcuno la notizia finisce sul giornale, mentre non tutte le morti per caduta dalla bicicletta hanno un tale risalto, potrebbe far sembrare gli squali molto più pericolosi delle biciclette, quando naturalmente non è così, e le probabilità di essere aggrediti da uno squalo, anche tuffandosi nella barriera corallina, sono infime rispetto al condurre un veicolo a due ruote. Così come, del resto, è piuttosto improbabile diventare vittima di un attentato terroristico (molte persone a questo punto ti guardano con espressione molto furba e poi ti dicono "sì, ma se succede proprio a te?", come se significasse qualcosa).

Una certa ignoranza matematica è responsabile del pensiero, attribuito agli abitanti di Brembate di Sopra (paese dove è recentemente scomparsa una ragazza) secondo cui "questo è sempre stato un paese tranquillo, non era mai successo niente del genere". Beh, con 7.746 abitanti, non mi stupisce. Se i fatti cruenti di cronaca avvengono più frequentemente in città molto grandi e popolose che in paesini minuscoli, c'è un motivo strettamente matematico che non ha nulla a che vedere con il fatto che le città sarebbero più pericolose. In generale poi, le cose tendono ad accadere più spesso "altrove" (città o paese che sia), che non nel tuo piccolo angolino di mondo. Il pensiero secondo cui "questo è un posto tranquillo" rivela una visione un po' limitata ed egocentrica.

Molto strana, dal nostro punto di vista, anche l'abitudine dei giornalisti di andare a "saggiare" l'umore di una popolazione raccogliendo un paio di opinioni da parte dei passanti. I sondaggi veri sono cose abbastanza complicate: anche in questo caso la quantità di informazione che viene veicolata da simili passaggi non è solo scarsa, ma forse si tratta addirittura di una quantità negativa. Non è solo inutile, è fuorviante e potenzialmente dannosa, induce a credere di avere una conoscenza che in realtà non abbiamo. Eppure i finti sondaggi sono sempre più spesso un ingrediente fondamentale dei giornali online. È vero che di solito c'è l'avvertenza "questo sondaggio non ha nessun valore scientifico", ma proprio perché c'è questa consapevolezza l'abitudine è ancora più misteriosa. Sarebbe come pubblicare una notizia e poi scrivere in nota che con tutta probabilità si tratta di un'invenzione del redattore.

A proposito di sondaggi, non sarebbe male se i giornalisti oltre alle percentuali ogni tanto dessero il margine d'errore. Oggi ho sentito il direttore del telegiornale de La 7 commentare il consueto sondaggio settimanale sulle intenzioni di voto degli italiani, dai quali risulterebbe che il Partito Democratico ha guadagnato, rispetto alla scorsa settimana, 0,2 punti percentuali. Il problema è che se non vengono dati i margini d'errore, che sono presumibilmente superiori allo 0,2 per cento in più o in meno, qualcuno potrebbe anche scambiarla per una buona notizia per il PD, invece che di uno scarto statisticamente insignificante (come d'altronde è lecito aspettarsi, nello spazio di una sola settimana nella quale non sono accadute cose clamorose). In realtà, il consenso del PD potrebbe benissimo essere sceso.

Chi si occupa di previsioni meteorologiche, invece, dovrebbe spiegare agli ascoltatori che non c'è nulla di strano se le temperature si trovano al di sopra o al di sotto della media stagionale: è quello il significato di "media", c'è una media quando ci sono le deviazioni dalla media, le temperature non possono essere sempre costanti. Occorrerebbe anche deflazionare espressioni come "caldo record" o "freddo record" che hanno evidentemente perso ogni significato. Forse avremo qualche ecologista in meno ma può valerne la pena, se avremo cittadini comunque più consapevoli del significato di espressioni ermetiche come "media" e "record".

In fondo basterebbe poco, e un po' di coraggio. Può anche darsi che i giornali correttamente confezionati, che sappiano trovare il giusto equilibrio tra il "fatto quotidiano" e l'eternità dei numeri, vendano di più. Forse vale la pena provare.

venerdì 12 novembre 2010

ecologisti e kamikaze


Il comportamento umano è uno dei materiali (checché ne dicano certi psicologi) meno malleabili e più difficili da trattare che esistano. Se volete risolvere un problema con la vostra automobile, portatela dal vostro meccanico, e ci sono ottime probabilità che lo risolverà. Se perde il lavandino, chiamate l'idraulico. Vi costerà un occhio della testa, ma il lavandino dopo funzionerà correttamente. Ma se avete un problema da gestire con una persona, o peggio ancora con una massa di persone, con una collettività, cominciate a invocare tutti gli dei che conoscete, anche quelli mai esistiti (non si sa mai).

Non che sia impossibile far fare a qualcuno quello che si vuole, solo che a volte è meno facile di quello che sembra, e spesso ci sono conseguenze e contraccolpi imprevisti delle nostre "strategie", perché il comportamento umano è una cosa estremamente complessa, che non risponde a rigide leggi meccaniche. Uno dei settori più ricchi di esempi, è quello del traffico, esplorato con una certa abilità divulgativa da Tom Valberbilt nel libro Trafficologia.

Supponiamo che una strada appaia come pericolosa perché eccessivamente stretta e trafficata, e si decida di porre rimedio raddoppiando la carreggiata: l'esito più probabile, anche se paradossale, di questo rimedio, è un aumento del numero di incidenti stradali su quel tratto di strada. E la causa di questo è proprio l'aumentata percezione di sicurezza, che fa allentare troppo l'attenzione di chi guida, che quindi si mette a correre più veloce e fa più incidenti. In altre parole, più una strada è sicura, meno lo è.

Non solo la strada sarà più pericolosa, ma probabilmente non verrà risolto nemmeno il problema della congestione stradale, perché non appena si spargerà la voce molti più autisti di prima decideranno di fare quel percorso, invece di farne uno alternativo, e quindi il numero complessivo di macchine che circolano su quel tratto aumenterà vanificando quel che si è ottenuto raddoppiando la carreggiata. Senza contare che la nuova strada può attirare investimenti e attività immobiliari lungo il proprio percorso (un cittadino potrebbe decidere, per esempio, che ora che c'è quella strada potrebbe anche valere la pena di andare ad abitare venti chilometri fuori dal centro), e quindi nuovo trafffico.

Per risolvere il problema del traffico, quindi, occorre un'altra strategia. Una potrebbe essere quella di convincere tutti a fare un uso maggiore di mezzi pubblici, o della bici, o addirittura andare a piedi, facendo appello alla responsabilità personale e al senso di sacrificio. È un approccio che ha scarse possibilità di successo, come si può immaginare. Le persone sono mediamente egoiste, e non sacrificano volentieri il loro interesse personale per il bene comune, a meno che non siano estremamente ben motivate, tipo i kamikaze giapponesi, che forse però non rappresentano un esempio troppo positivo. Il noto "dilemma del prigioniero", in teoria dei giochi, illustra come questa ricerca del proprio tornaconto possa ritorcersi contro di noi, senza che ciò ci persuada a cambiare atteggiamento.

Le persone rispondono agli incentivi, e allora, visto che tendono a pensare a se stesse, un modo per costringerle a cambiare atteggiamento potrebbe essere quello di tassare la circolazione stradale. Questo non si potrebbe neanche definire un provvedimento illiberale, perché consisterebbe semplicemente nel far pagare ai singoli individui la risorsa comune da loro utilizzata a scapito della comunità. È il noto problema delle "esternalità": alcune nostre azioni hanno inevitabilmente dei costi (o a volte anche dei benefici) anche per gli altri. Se decido di fare un'orgia a casa mia di notte con sei cubiste minorenni ubriache, può darsi che poi i vicini si lamentino per i rumori molesti, per non parlare delle tracce di vomito e altri residui organici sul pianerottolo. Se decido di imboccare una strada durante l'ora di punta, devo tener presente che la mia azione contribuirà alla congestione del traffico generale: l'ideale sarebbe che meno persone circolassero, in modo da tenere libera la strada per gli altri, ma chi decide chi far circolare e chi no? Introducendo un pedaggio (magari proporzionale proprio al livello di congestione presente in un dato momento) ci si assicura che solo chi ha più bisogno affronti quel costo, e costui trarrà comunque beneficio dal tempo guadagnato.

Ma anche questo approccio degli incentivi, benché più sensato e razionale del precedente, non garantisce risultati certi, in virtù dell'imprevedibilità di cui dicevamo, e può anzi avere effetti indesiderati. Un esempio (tratto da un caso reale): in un certa scuola elementare molti genitori hanno la tendenza a presentarsi in ritardo rispetto all'orario di chiusura per venire a prendere i figli, costringendo il personale ad aspettarli. La direzione decide allora di istituire una lieve multa per chi arriva tardi, in modo da incentivare la puntualità. Ebbene, il probabile esito di una simile strategia è un aumento dei ritardi. L'introduzione della multa libera i genitori dal senso di colpa per il ritardo e incentiva, in effetti, a fregarsene: dopotutto stanno pagando per tenere i figli a scuola oltre l'orario. Un piccolo memento del fatto che le persone non sono automi e l'ingegneria sociale non è una scienza semplice.

Oppure, meglio ancora, qualcuno potrebbe inventare un nuovo mezzo di trasporto. Una versione economica e alla portata di tutti del teletrasporto di Star Trek, ad esempio, risolverebbe un sacco di problemi. Purtroppo allo stato attuale la scienza non pare molto vicina a una scoperta del genere, per cui dobbiamo sperare in qualcosa di meno definitivo (ma non disperare in qualcosa che possa migliorare l'esistente, almeno).

Come noto, esiste un certo problema, che tiene sveglia molta gente, che consiste nel fatto che negli ultimi decenni la temperatura globale del pianeta sembra essersi alzata di qualche decimo di grado, il quale innalzamento potrebbe essere causato dall'attività umana, e dal rilascio nell'atmosfera di sostanze (i gas serra) che intrappolano il calore solare nell'atmosfera e non gli permette di disperdersi nel cosmo. Fino a qualche anno fa lo scetticismo su tali affermazioni aveva delle giustificazioni, ma oggi il consenso sulla realtà effettiva del riscaldamento è molto vasto, e anche quello sull'impatto dell'attività umana, mentre persiste, a mio avviso giustamente, una certa resistenza all'allarmismo, per non dire catastrofismo, di certi ambientalisti, e ai rimedi proposti da alcuni di loro.

Uno di essi, forse il più famoso di tutti, ovvero Al Gore, ha ricevuto anche un premio Nobel, quindi si potrebbe pensare che la soluzione che egli prospetta al problema sia la più pragmatica ed efficace, e quella con le maggiori probabilità di funzionare. E infatti, indovinate quale soluzione propone Al Gore? Dice che dobbiamo diventare tutti più buoni, essere più sensibili rispetto al bene del pianeta, smettere di inquinare, e cessare la corsa al progresso e al benessere materiale. E magari metterci una bandana in testa e urlare "Banzai!" mentre ci immoliamo per la causa. Un genio, certo.

Il problema, col riscaldamento globale, è che non è stato ancora individuato un sistema di incentivi efficace che prometta risultati concreti e che sia al tempo stesso abbastanza equo. Nel senso che dopo aver tratto beneficio per oltre due secoli dalla Rivoluzione Industriale sarebbe un po' inelegante, da parte delle nazioni occidentali, pretendere che paesi come India e Cina si comportino in maniera più virtuosa e responsabile (magari minacciando sanzioni) e rinuncino alla loro crescita economica. Senza contare che potrebbe essere troppo tardi, e che se anche con uno sforzo titanico riuscissimo a ridurre quasi a zero le emissioni di gas serra gli effetti si vedrebbero, forse, fra qualche decennio. È difficile impegnare un pianeta intero a un grosso sacrificio in vista di risultati nient'affatto garantiti e a lunghissima scadenza. Possiamo parlare di egoismo quanto si vuole, ma è con la razionalità che dovremmo prendercela.

Oppure possiamo inventare l'equivalente del teletrasporto e risolvere il problema del riscaldamento globale (quasi) senza sforzo. È l'approccio della geo-ingegneria che, ahimè, non sembra molto ben visto da molti ecologisti. Per esempio, e secondo quanto prospettato, fra gli altri che se ne occupano, nell'ultimo capitolo di Superfreakonomics (il seguito del bestseller di Steven Levitt e Stephen Dubner), si potrebbe riempire la stratosfera con relativamente modeste quantità di biossido di zolfo (che avrebbe l'effetto di riflettere i raggi solari e quindi raffreddare il pianeta). Come? con un piccolo tubo, ovviamente il più leggero possibile, tenuto su con dei palloni. Di primo acchito sembra un po' fantascientifico, ma fra le soluzioni studiate potrebbe essere la più economica e pratica, e avrebbe un costo minimo, soprattutto se confrontato con gli enormi costi degli accordi di Kyoto. Oppure, se non piace, si potrebbe aumentare artificialmente la quantità di nuvole negli oceani sparando ad alta quota i nuclei di condensazione (il sale marino) adatti alla formazione delle nubi (che rifletterebbero, ancora una volta, i raggi solari).

Rimedi che sono visti come eresie da moltissima gente (compreso il genio premio Nobel di cui sopra, Al Gore) per il fatto che… non sta bene alterare il naturale equilibrio del pianeta. Ma perché, fino ad ora cos'abbiamo fatto? non è proprio perché (a quanto si dice) abbiamo immesso troppi gas serra in atmosfera che ci troviamo in questa situazione? si dice anche che il rimedio potrebbe avere, anche in questo caso (dato che pure gli ecosistemi sono complessi) effetti non previsti e potenzialmente catastrofici. Quello di cui quest'obiezione non tiene conto è che in un certo senso si tratta invece di rimedi già testati. Il biossido di zolfo non sarebbe nemmeno il gas più efficace per raffreddare l'atmosfera ma è quello che talvolta viene sparato nella stratosfera dai vulcani in eruzione, ottenendo proprio un raffreddamento del clima globale. L'idea è semplicemente quella di non aspettare una serie fortuita di eruzioni catastrofiche, ma di immettere noi stessi la quantità necessaria di biossido di zolfo (processo controllabile e arrestabile in qualsiasi momento).

Per quanto riguarda l'altra idea (aumentare le copertura nuvolosa sugli oceani) è quello che già succede, in parte, grazie alle scie di condensazione degli aerei, che pare abbiano proprio un certo effetto anti-riscaldamento (complottisti delle scie chimiche, eccovi un bell'osso da addentare).

Si tratta di rimedi, ripeto, che sembrano provocare un immediato moto di ripulsa nella maggior parte delle persone (basta fare una ricerca su "geoingegneria" e leggere un po' di commenti in giro), e che quindi potrebbero fallire non perché intrinsecamente poco adatti, ma perché politicamente improponibili. Eppure, trovo molto divertente che maggiore è il grado di catastrofismo nei confronti dei possibili futuri scenari, maggiore è lo scetticismo nei confronti di questo tipo di rimedi: "Moriremo tutti! ma non fate niente, perché sarebbe peggio, preghiamo e basta". Questa naturalmente non è scienza, è millenarismo. È una religione fondamentalista, non troppo diversa dal fanatismo dei kamikaze di una volta.

giovedì 28 ottobre 2010

magnifiche sorti e progressive



Nel 1950, la percentuale di americani occupati in professioni manageriali e tecniche era del 17%, mentre nel 2000 era quasi il doppio, cioè il 33,5%. Questo significa che nel 1950 certe professioni, sicuramente ambite, appartenevano solo all'élite, e che richiedevano capacità particolari per potervi approdare. Siccome esiste una forte correlazione fra quoziente d'intelligenza e posizione sociale, possiamo essere sicuri che nel 1950 per appartenere a quel 17% di persone occorreva un quoziente intellettivo altrettanto elitario, corrispondente a un punteggio medio di 114.5, e un minimo di 104.

Più alta diventa la percentuale di impiegati in questi settori, meno elitari diventano (com'è ovvio), il che però significa che si abbassa sensibilmente anche il QI richiesto per parteciparvi. La percentuale relativa all'anno 2000, infatti, corrisponde a un QI medio di 110,5 e un minimo di 98. Quattro punti di media in meno rispetto al 1950. La questione è: se i manager di oggi sono meno intelligenti, in media, rispetto a quelli del 1950, significa che fanno peggio il loro lavoro?

In realtà, questo è un modo di porre la questione che fa capire un po' meglio di cosa parliamo quando parliamo di "quoziente d'intelligenza" (argomento che ho già trattato) e che serve da ottima introduzione a quell'affascinante fenomeno che è "l'effetto Flynn". Il punteggio che ottengo in un test di intelligenza non è affatto una misura assoluta delle mie capacità intellettive, ma dice solo come mi colloco rispetto alla popolazione che ha la mia stessa età, se cioè sono nel 2% delle persone coi punteggi più alti (e allora ho diritto di fare parte del club Mensa), o rientro in un più modesto 50%, o addirittura sono sotto la media.

Le persone che sono state testate nel 2000 non possono essere confrontate con quelle testate nel 1950, ovvero non è possibile concludere che, avendo ottenuto punteggi inferiori, allora hanno un'intelligenza inferiore (tutto questo, naturalmente, a prescindere dalla questione se i test d'intelligenza siano delle misurazioni adeguate di quella misteriosa qualità denominata appunto "intelligenza"). Tutto quel che è possibile concludere è che molte più persone, rispetto al 1950, hanno le qualità richieste per poter accedere a incarichi professionali di tipo manageriale. In realtà, questo non sarebbe possibile, se non vi fosse stato un aumento dell'intelligenza media della popolazione (altrimenti, dove sarebbero stati pescati tutti quei manager?).

In effetti, se ai soggetti del 2000 fosse stato presentato lo stesso test d'intelligenza svolto dai soggetti del 1950, avremmo potuto constatare un sorprendente punteggio medio di addirittura 130 punti (circa), ovvero sarebbero risultati dei geni, ma questo, ripeto, solo in confronto alla popolazione del 1950. I test d'intelligenza, in realtà, vengono revisionati periodicamente proprio per tenere conto di tali differenze, e del fatto che la popolazione sembra diventare di anno in anno "più sveglia", con un aumento di circa lo 0,3% annuo. Tre punti per decennio, e ben trenta punti in più rispetto all'inizio del ventesimo secolo, il che fa sì che chi ha oggigiorno un'intelligenza nella media sarebbe risultato un genio nel 1900, e chi oggi viene classificato, in base al punteggio, come un ritardato mentale, sarebbe risultato normalissimo cento anni fa.

La cosa ha anche delle sgradevoli e drammatiche implicazioni: negli Stati Uniti è considerato incostituzionale condannare a morte una persona che soffre di ritardo mentale (con un QI minore di 70), ma l'essere considerato ritardato o meno può dipendere dalla circostanza, fortuita, di quanto è aggiornato il test al quale si è sottoposti. Se il test è obsoleto, ciò può tradursi in due o tre punti in più, che non fanno molta differenza in quasi nessun ambito, tranne che in sede processuale, dove appunto possono significare la differenza fra la vita e la morte.

Ma da dove viene tutto questo aumento generalizzato di intelligenza, che difficilmente, in un lasso di tempo così breve, può essere attribuito a cause genetiche (le quali caso mai cospirerebbero contro, visto che sono le persone col QI più basso a riprodursi con maggiore frequenza)? La risposta, credo, si trova proprio all'inizio di questo post: la società lo richiede, semplicemente. Questo però significa anche che quello che viene misurato dai test, qualunque cosa sia, è molto più sensibile alle sollecitazioni ambientali di quanto non fosse ritenuto possibile. Il QI non è progettato, infatti, per essere una misura del grado di preparazione culturale di un individuo, ma in teoria dovrebbe misurare qualità mentali che non dipendono dall'educazione ricevuta.

Ma non è poi così difficile comprendere, una volta che ci si rifletta sopra, come invece l'evoluzione di una società, nel suo complesso, porti a delle modificazioni culturali e antropologiche profonde che vanno a incidere anche nelle misurazioni del QI. Si pensi alle condizioni di vita della maggior parte della gente all'inizio del ventesimo secolo. Persone che raramente vedevano pezzi di mondo al di là del proprio paese, e che difficilmente erano in grado di concettualizzare un'esperienza che andasse oltre il loro immediato vissuto. Persone, soprattutto, molto ancorate alla concretezza e al presente, e che quindi potevano avere difficoltà nel ragionamento ipotetico-astratto, che è proprio quel che è richiesto per superare brillantemente un test d'intelligenza. La maggior parte di noi non ha particolari problemi nel fare uso della logica al di là di referenti concreti e specifici e nell'intrattenersi, anche per puro divertimento, in ragionamenti estremamente ipotetici, ma non possiamo aspettarci davvero che un contadino dell'inizio del secolo scorso, per quanto sveglio, messo di fronte alla sequenza di immagini in apertura del post, sia in grado di, o anche semplicemente interessato a, indovinare quale figura sia "logicamente" la successiva (ah, io non l'ho saputo risolvere).

Lo psicologo sovietico Lurija negli anni '70 raccolse alcune interviste a contadini abitanti in remote zone della Russia, che ci fanno forse capire quanto certe abitudini mentali non siano da dare troppo per scontate (citate e tradotte dal libro di James Flynn, What is Intelligence?):


D. Dove c'è la neve tutti gli orsi sono bianchi; a Novaya Zemlya c'è sempre la neve; di che colore sono gli orsi lì?
R: Io ho visto solo orsi neri, e non parlo di cose che non ho visto.
D: Ma cosa implicano le mie parole?
R: Se una persona non è stata lì non può dire niente sulla base delle parole.

D: In Germania non ci sono cammelli; la città B è in Germania; ci sono cammelli nella città B?
R: Non lo so, non ho mai visto un villaggio tedesco. Se B è una grande città, dovrebbero esserci cammelli.
D: Ma se non ce ne fosse nessuno in tutta la Germania?
R: Se B è un villaggio, probabilmente non c'è posto per i cammelli.


Non è che i contadini intervistati da Lurija non riconoscano le implicazioni e non sappiano fare un sillogismo, è solo che il loro atteggiamento pragmatico gli impedisce di prendere in considerazione situazioni meramente ipotetiche e di raggiungere conclusioni sulla base di premesse inconsistenti. Un atteggiamento anche sensato, che però non aiuta ad ottenere buoni punteggi nei test d'intelligenza, e sicuramente non aiuterebbe neanche a superare brillantemente un colloquio di lavoro alla Microsoft (famosa per i suoi quiz assurdi ed estremamente impegnativi durante i colloqui, del tipo: "quanto tempo ci vorrebbe a portare via tutta la terra del monte Fuji, al ritmo di un camion al minuto?").

Ciò che ha liberato le nostre menti dalla schiavitù del concreto e dell'immediato presente, oltre alla educazione di massa, sono stati i nuovi media, i giornali, la radio, la televisione, e oggi i computer, la Rete, e i videogames. E poi la rivoluzione culturale che tutto ciò ha comportato. La maggior parte dei nostri coetanei ha almeno un'infarinatura di conoscenza scientifica, e ha imparato a guardare il mondo attraverso le lenti della mentalità razionale e scientifica. Non è solo il fatto che tutti sappiano leggere e scrivere e compiere operazioni aritmetiche elementari (che già non è poco) ad averci emancipato, ma il fatto che ognuno di noi può avere un'opinione, non importa se giusta o sbagliata, su cose come la politica economica del nostro governo, sulla riforma sanitaria di Obama, sulla politica estera di Israele, e che per formarsi tali opinioni sia costretto a ragionare su quel che dicono giornali e tv, e quindi vedere qualcosa al di à della punta del proprio naso.

E il fatto, anche, che ognuno di noi sia costretto a usare strumenti che hanno un certo grado di complessità cognitiva, e che in molti casi tali strumenti ci accompagnano per tutta la vita, al contrario dell'educazione scolastica che spesso viene dimenticata. Chi impara a usare un computer anche solo per navigare o usare la posta, o per giocare a Tetris, acquisterà delle abilità o delle abitudini mentali che difficilmente perderà, e che sono quelle che possono aiutarlo ad avere un buon QI, e a trovare un lavoro. Se poi l'ambiente di lavoro, a sua volta, è cognitivamente stimolante, il vantaggio acquisito sarà conservato per tutta la vita.

La domanda che ci si deve porre è se si tratti di vera gloria. Acquisito il fatto empirico, pare ormai accertato al di là di qualsiasi dubbio, che ci sono stati questi progressi nel QI (e anche se dobbiamo aspettarci di essere ormai prossimi a un arresto o un'inversione di tendenza, perché non è ragionevole che tali progressi durino per sempre), possiamo davvero parlare di un aumento dell'intelligenza, in un senso non banale (evitando cioè la tautologia per cui l'intelligenza è quel che viene misurato da un test)?

Ne dubito. Non perché non sia contento del fatto che alcuni strumenti cognitivi siano oggi più diffusi e più alla portata di moltissime persone che una volta ne erano escluse, ma semplicemente per il fatto che si tratta pur sempre di mera strumentazione, che può essere usata bene o male. In un certo senso, gli stessi fattori che portano molte persone ad apprezzare, che so io, la bellezza del sistema solare e delle leggi fisiche che ne rendono possibile l'esistenza, portano altre persone a formulare le teorie del complotto delle scie chimiche, o quelle secondo cui il Pentagono non è mai stato colpito da un aereo. Oppure produce gli spettatori di Quark, ma anche quelli di Voyager. Produce i lettori di Gödel, ma anche quelli di Derrida.

Chi formula o chi crede in certe teorie di complotto è stupido, senza possibilità di appello, ma non è detto che risulti tale in un test d'intelligenza. Il vantaggio dei contadini ignoranti e pragmatici di una volta è che non avevano tanto tempo da perdere in queste stronzate, beati loro. Ne consegue che, anche al di là di certi moralismi, non basta fornire certi strumenti in campo educativo, ma è anche il caso di preoccuparsi di come possono essere usati. Non basta insegnare biologia, ma occorre forse trovare il modo per impedire a uno studente di essere sedotto dalle teorie creazioniste, oppure dall'omeopatia. Non basta insegnare economia, ma occorre trovare un modo per cui dalle nostre scuole non escano fuori signoraggisti. Altrimenti dovremmo rimpiangere la stupidità dei nostri antenati.

domenica 10 ottobre 2010

se la verità fosse femmina

Che il rapporto fra i filosofi e le donne sia sempre stato problematico è stato sancito, fra gli altri, da Nietzsche con un celebre aforisma contenuto all'inizio di Al di là del bene e del male: "Posto che la verità sia una donna, e perché no? Non è forse fondato il sospetto che tutti i filosofi, in quanto furono dogmatici, s'intendevano poco di donne? […]. Certo è che essa non si è lasciata sedurre".
Il povero Nietzsche aveva forse i suoi motivi per esprimersi in tal modo: sappiamo che non fu molto fortunato con le donne. Aveva la brutta abitudine di innamorarsi di quelle degli altri, che è sempre un'ottima ricetta per l'infelicità. Come Lou Salomé, o come Cosima Wagner. Certi biografi sostengono che la sua rottura con Wagner fu dovuta non tanto a motivi filosofico-teoretici, o all'antisemitismo del musicista, come vogliono alcuni, ma a ragioni strettamente personali e anzi di natura piuttosto intima. Wagner rivelò infatti al dottore di Nietzsche di essere preoccupato per l'eccessiva tendenza all'onanismo del suo amico filosofo, abitudine sicuramente favorita dalla presenza di Cosima. Pettegolezzi che Nietzsche non apprezzò particolarmente. Il fato, carogna, volle poi che non solo fosse poco pratico nel sedurre le donne, ma piuttosto sfigato anche in quelle occasioni in cui le frequentava a pagamento, dato che le drammatiche circostanze della sua morte possono essere, in ultima analisi, ricondotte a questo (no, non è stata la vertigine del pensiero nichilista a renderlo folle, è stata più probabilmente la sifilide).
La sua personale infelicità lo rese comunque acuto nell'osservazione delle altrui miserie, come quella di Socrate, esempio paradigmatico del rapporto conflittuale fra il pensiero filosofico tradizionale, maschile, astratto, logo e fallocentrico, e l'altrui sesso. Il filosofo greco, perso nelle sue speculazioni, viene continuamente molestato dalla moglie Santippe, donna stupida, ignorante, ma soprattutto concreta e quindi insopportabile, ragion per cui non stupisce che Socrate, una volta compiuti i doveri coniugali legati alla mera riproduzione, preferisca la illuminata compagnia degli efebi, e si intrattenga con questi in profondi discorsi sulla natura del bene e del male. La nascita stessa della filosofia greca sarebbe quindi dovuta al brutto carattere delle donne, un riconoscimento non so quanto lusinghiero. Certo è che piacerebbe conoscere pure la versione di Santippe.
L'espressione "amore platonico", con la quale si designa appunto il particolare tipo di rapporto che Socrate e i suoi seguaci intrattenevano nei confronti non solo delle donne ma dell'eros in generale, è comunque una delle più fraintese di tutti i tempi. Oggi intendiamo con "amore platonico" un vincolo di grande amicizia e affetto reciproco che però non trova sfogo nel sesso, ma con grande sacrificio viene sublimato in altri modi (qualcosa di simile a quello che faceva Nietzsche, dopotutto), mentre in un certo senso si tratta dell'esatto contrario. L'amore platonico non è un amore senza sesso (ci può essere), ma un amore che non è affatto un amore, perché non comprende il sacrificio, il donarsi all'altro, il vero attaccamento a una persona diversa da sé, ma è un amore dove l'altro è visto solo come uno strumento per la propria elevazione spirituale. L'amore platonico è precisamente quello dove non esiste la passione e il travolgimento dei sensi, perché l'altro è solo un mezzo in vista di un fine personale.
Ma il filosofo ama talvolta presentarsi anche nelle vesti del seduttore, tentando forse di smentire lo stereotipo nicciano, in realtà senza riuscirci. L'affabulatore, l'abile giocoliere delle parole, colui che tenta di circuire la verità così come circuisce le donne per portarsele a letto e poi scaricarle, che ogni giorno apre il giornale e si inventa una battaglia di civiltà in cui lanciarsi e alla quale dare prestigio con la propria intelligenza, e non importa quale causa perché tanto le parole e gli argomenti verranno (in fondo è per questo che viene pagato un filosofo), ben rappresenta certi vizi della nostra epoca. Quella dell'immagine, dove non conta la sostanza, ma l'apparire, dove l'estetica è la disciplina più influente e seguita, ben prima della teoretica e della morale, dove l'atteggiarsi è tutto, e la camicia bianca sbottonata vale più di mille concetti. La tristezza di tutto questo, di questa insostenibile leggerezza, questa finta disinvoltura, fa appunto rimpiangere la serietà di un Socrate, che almeno nutriva un disprezzo genuino per le cose mondane.
"Un filosofo sposato è un personaggio da commedia", sostiene dunque ancora Nietzsche. Di tutti i personaggi della storia della filosofia, a me ne viene in mente solo uno che abbia avuto un rapporto, pare, felice e gratificante con le donne. Si tratta di Paul Feyerabend, il filosofo del relativismo, autore di Contro il metodo, famoso anche per essere stato citato da Ratzinger a proposito di Galileo Galilei (l'astuzia della ragione: il più grande avversario del relativismo che cita proprio Feyerabend). Nella sua autobiografia, scritta pochi mesi prima della morte, e proprio durante la malattia che lo ha ucciso, Feyerabend racconta fra le altre cose di come abbia partecipato come ufficiale nazista alla seconda guerra mondiale, riportandone una ferita alla gamba che gli avrebbe reso impossibile, per il resto della sua vita, camminare senza l'uso di un bastone. Un'altra cosa gli era impossibile a causa della ferita, e cioè proprio una normale attività sessuale, ma questo non gli impedì mai di innamorarsi e di essere amato.
L'essenza del pensiero filosofico di Feyerabend, in estrema sintesi, era "tutto va bene". Intendendo che non esistono ricette per scoprire la verità, che nessun filosofo potrà mai arrogarsi la pretesa di dire a uno scienziato, o a qualsiasi persona comune se è per questo, come dovrebbe pensare. Si definiva un "anarchico della conoscenza". Io, a dire il vero, non ho mai avuto grosse simpatie per il pensiero relativista, ma si potrebbe opinare, in primo luogo, che Feyerabend fosse davvero un relativista (dubitava della stessa nozione di verità, o dei percorsi tradizionalmente battuti per cercare di raggiungerla?), e in secondo luogo che facesse sul serio. Aveva un atteggiamento scanzonato nei confronti di tutto, e in primo luogo nei confronti di se stesso. Sinceramente autoironico, proprio come Socrate, più di Socrate, era perfettamente consapevole di recitare un personaggio, di essere un troll che si divertiva a violare ogni tabù. Difendeva l'astrologia, difendeva il voodoo, difese anche la Chiesa e Bellarmino contro Galileo (consapevole di dare scandalo). Lo fece non perché convinto che Galileo avesse torto o l'astrologia avesse davvero una qualche validità, ma perché temeva che la Scienza prendesse il posto della Religione, come unico e privilegiato sistema di riferimento.
Un atteggiamento pragmatico, non assolutista, quindi, che alla fine non può che risolversi in una maggiore saggezza pratica, nel rapporto col mondo e soprattutto con gli altri. Feyerabend è uno dei pochi filosofi che stanno simpatici a mia moglie, forse perché nella sua autobiografia, e soprattutto negli ultimi capitoli, non parla altro che di sua moglie (una giovane studentessa italiana con la quale si era trasferito da Berkeley a Roma), con entusiasmo quasi infantile. Una persona cattiva potrebbe persino dire che si era un po' rincoglionito. E le sue ultime parole parlano di amore nei confronti dell'umanità, un'umanità che si intuisce fatta di persone in carne e ossa, e non assunta come valore astratto.
E poi per una foto, quella che mostra il "filosofo al lavoro" (quello che io dovrei fare un po' più spesso, forse).

giovedì 23 settembre 2010

la verità e la legge


Nel celebre romanzo di pseudo-fantascienza Mattatoio n. 5, di Kurt Vonnegut, a un certo punto viene citato, fra gli studiosi che hanno scritto del bombardamento di Dresda, niente meno che David Irving, lo storico inglese oggi famoso soprattutto per le sue teorie negazioniste. Per questo motivo, e per il fatto che nel romanzo accetta la stima fatta da Irving sul numero delle vittime del bombardamento (135.000 persone invece delle 30-40.000 conteggiate da altri studiosi), ho scoperto di recente che Vonnegut è stato criticato da Deborah Lipstadt, studiosa ebrea americana, in un post del suo blog risalente al 2007.
Deborah Lipstadt, autrice del saggio Denying Holocaust, è invece famosa soprattutto per la vicenda giudiziaria che l'ha vista opporsi, in un tribunale inglese, proprio a David Irving, il quale l'aveva denunciata per diffamazione in seguito alle pagine a lui dedicate nel libro della Lipstadt (dove veniva descritto come uno dei più pericolosi negazionisti). Il processo fece un certo scalpore per il fatto che la verità storica sull'Olocausto per una volta non sarebbe stata semplicemente appurata in sede accademica, ma sancita in un'aula di tribunale. Per vincere la causa di diffamazione Irving infatti avrebbe dovuto dimostrare che le sue "negazioni", piuttosto che più o meno volontarie distorsioni della realtà corrispondevano a legittime opinioni sostenute da fatti concreti, cosa per la quale però avrebbe dovuto avere l'appoggio di qualche altro storico autorevole, oppure argomentazioni molto solide. La sua sconfitta era quindi prevedibile.
Tuttavia, e nonostante il trionfalismo che seguì la sentenza, ci sarebbe da chiedersi se il "distorcere deliberatamente la realtà per adattarla alla propria visione ideologica" non è una critica che può essere mossa, oltre a Irving, a migliaia di accademici altrimenti considerati più che rispettabili ma che si occupano di argomenti meno controversi o hanno la fortuna di aver adottato le opinioni più corrette, e se in particolare non si adatti bene anche all'approccio della Lipstadt nei confronti dell'Olocausto e di chiunque ne parli, come a mio parere è evidenziato dalle sue critiche a Vonnegut.
In alcuni paesi (come Austria, Francia, Germania e Belgio), come noto, sono state approvate delle leggi che definiscono come reato negare pubblicamente la realtà dello sterminio degli Ebrei. David Irving (ancora lui) nel 2005 fu arrestato in Austria e condannato a tre anni di carcere, per le sue idee. Naturalmente sono leggi che fanno discutere, e la cui opportunità viene contestata da molti (a onore della Lipstadt, ad esempio, va detto che si è detta contraria alla detenzione di Irving, anche se per motivi di opportunità e non tanto a difesa della libertà d'espressione). Anche perché sembrano lasciare al magistrato un margine di interpretazione eccessivo, riguardo a cosa debba essere considerato "negazione o ridimensionamento dell'Olocausto" tale da cadere sotto la censura della legge.
Cosa significa esattamente essere negazionisti? Il mestiere dello storico comporta, per definizione, una certa distanza critica dal racconto tradizionale degli avvenimenti. Lo storico è sempre un "revisionista". Certo, esiste un limite, dato dal buon senso, oltre il quale il legittimo sospetto e la critica nei confronti della "versione ufficiale" o quella più comunemente accettata diventano palese malafede e cecità ideologica. Ma il problema è capire se sta alla legge piazzare dei paletti, e in che modo potrebbe farlo senza trasformare le verità storiche in dogmi e inquinare il lavoro e la serenità dello storico.
Un negazionista dell'Olocausto di solito fa una di queste tre cose, spesso tutte insieme ma non necessariamente: 1) ridimensiona il numero delle vittime (non erano sei milioni ma appena quattro, o due, o centomila); 2) nega la volontarietà dello sterminio e la sua realizzazione tramite lo strumento delle camere a gas, ovvero i milioni di morti, se ci sono stati (vedi 1) furono solo un effetto collaterale della guerra e delle dure condizioni nei campi di prigionia; 3) nega che Hitler fosse al corrente dello sterminio, che fu progettato a sua insaputa dai suoi cattivi subordinati, per fargli una sorta di dispetto.
È evidente che sebbene tutte queste cose, soprattutto se prese insieme, delineano in effetti un approccio inquietante, ci sono però dei margini di ambiguità tali per cui qualsiasi storico serio rischia di essere additato come negazionista, se preso di mira: ad esempio, per quanto riguarda il punto 1, il conteggio delle vittime è una materia delicatissima e difficile, continuamente sottoposta a revisioni. Di quanto, esattamente, è possibile scendere, prima di essere considerati negazionisti (ricordo che Eric Hobsbawm, che è forse il più autorevole storico vivente, nel suo celebratissimo Il secolo breve accetta la conta di quattro milioni)? Per quanto riguarda il punto 2, è difficile negare la realtà delle camere a gas e dello sterminio sistematico, ma credo sia comunque legittimo chiedersi quale sia la percentuale di vittime del gas in rapporto al totale (in effetti, quando venne fuori che il numero delle vittime di Auschwitz era stato sovrastimato, il numero totale venne poi nuovamente ritoccato al rialzo per comprendere le vittime dei rastrellamenti delle Einsatzgruppen). Per quanto riguarda il punto 3, è abbastanza ridicolo sostenere che Hitler non ne sapesse niente, ma in mancanza di documentazione chiara è materia di dibattito quali furono le modalità esatte con cui i piani dello sterminio vennero comunicati: vi fu un ordine esplicito, formulato dal Fuhrer, oppure fu più un lasciar intendere, o addirittura un lasciare che accadesse, delegato ai subordinati?
Ma c'è un altro problema, evidenziato dalla questione Vonnegut cui accennavo all'inizio: "ridimensionare l'Olocausto" potrebbe anche significare fare delle affermazioni che non hanno nulla a che fare, direttamente, con lo sterminio degli Ebrei. Ridimensionare l'Olocausto può anche significare semplicemente contestare la sua unicità, relativizzarne l'importanza rapportandolo ad altre tragedie. Potrebbe addirittura significare il semplice ricordare o menzionare altre tragedia. E allora sarebbe davvero la fine per ogni seria pretesa di ricerca storica su qualsiasi argomento, dalle guerre persiane all'11 settembre.
Deborah Lipstadt afferma che Vonnegut, anche se involontariamente, ha contribuito a propagandare delle "bugie". Il termine scelto è indicativo: non si vuole semplicemente correggere quello che è ritenuto un errore nel libro di Vonnegut (preso da quella che all'epoca era forse la fonte più importante sul bombardamento di Dresda, e cioè proprio la monografia di Irving), ma lo si denuncia in quanto falsificazione eseguita con dolo allo scopo di minimizzare l'Olocausto. Questo atteggiamento ha ovviamente un che di ricattatorio: è senz'altro corretto dire che le cifre fornite da Irving sono state contestate da altri studiosi, ma perché non dovrebbe essermi concesso almeno di sospendere il giudizio su chi ha ragione? perché non dovrei, inoltre, ritenere Vonnegut un giudice abbastanza affidabile nella controversia, considerando che lui era là sotto, mentre Dresda bruciava? E soprattutto perché dovrei pensare che dalla risposta a tali questioni dipende anche il mio giudizio nei confronti dello sterminio? Che c'entra?
L'approccio ideologico della Lipstadt viene confermato dal fatto che nel libro di Vonnegut è presente un altro errore, un altro difetto di approssimazione storica che però la Lipstadt non sente il dovere di correggere: si parla, in Mattatoio n. 5, delle saponette fatte con il grasso degli ebrei, secondo quello che è un mito assai diffuso riguardo alla atrocità naziste ma la cui veridicità viene oggi contestata da quasi tutti gli storici (casi isolati di sadismo vi furono senz'altro, ma non esiste alcuna prova o documentazione riguardo un uso industriale siffatto, che non è nemmeno plausibile da un punto di vista economico). Tra i due errori, la Lipstadt sente di dover denunciare solo il primo (e nemmeno in quanto errore, ma in quanto infame bugia), il che la dice lunga sulla sua obiettività.
Molti altri esempi di parzialità del genere si possono trovare sul web, la maggior parte dei quali, ahimè, provenienti da siti discutibili e dalle finalità a loro volta assai sospette. Dovessi essere costretto a fare una scelta di campo, mi schiererei senz'altro più volentieri dalla parte della studiosa ebrea che da quella dei neonazisti, ma il punto è che io non vorrei essere costretto a fare scelte del genere, come vorrebbero costringermi a fare certe proposte di legge liberticide. Viene persino da pensare che la cosiddetta "industria dell'Olocausto" (dal famigerato opuscolo di Finkelstein) e il negazionismo siano due fenomeni complementari e in realtà interdipendenti, che invece di negarsi a vicenda si sostengono l'un l'altro (ci si chiede ad esempio quanto risalto verrebbe dato a certi personaggi pittoreschi se non fosse per l'attenzione che viene loro rivolta da professionisti dell'indignazione).
Io non voglio che l'Olocausto diventi, piuttosto che una verità storica acclarata ma comunque e sempre passibile di approfondimento, un dogma indiscutibile e una pedina di un'agenda politica e ideologica. In quanto potenziale insegnante di storia (abilitato all'insegnamento in attesa di tempi e politiche più favorevoli) vorrei un giorno poter dire che i nazisti uccisero sistematicamente sei milioni (o cinque, o quattro) di ebrei, parte dei quali nelle camere a gas dei campi di sterminio, solo perché è vero, e non in quanto costretto dalla legge a farlo.

mercoledì 15 settembre 2010

i simboli e le persone


Un libro in fondo è solo un oggetto fatto di carta, colla e inchiostro. Ha valore (se lo ha) per quello che è scritto dentro, che però è spesso replicato in moltissime copie identiche, in modo che la perdita di una sola copia si può dire che raramente costituisca un grande danno sia economico che culturale per l'umanità.
Ciononostante vi è attaccato un grosso valore simbolico all'idea di bruciare libri o danneggiarli; è un tabù della nostra civiltà in parte derivante dallo shock culturale del nazismo e dei suoi roghi purificatori, d'altra parte eredi di una ricca tradizione storica. In effetti è persino sorprendente quanto questo tabù sia ormai consolidato, considerata la diffusione di una tale consuetudine fino a tempi recenti, praticata dalle varie Chiese e i vari regimi assolutisti.
Siamo al punto che se una biblioteca o una qualsiasi istituzione decide di mandare al macero alcune copie di volumi che detiene in eccesso, in modo da poter continuare a svolgere con efficienza la sua missione, qualcuno protesta, si indigna, organizza sit-in e magari si mette a citare a sproposito Ray Bradbury (che in un suo romanzo immaginava una società distopica dove leggere è proibito e i libri vengono sistematicamente bruciati dalle autorità).
E c'è anche il fatto che il libro è spesso reliquia, vero e proprio oggetto sacro, come la bandiera della nazione o la maglia della squadra di calcio. Cose, in realtà, che andrebbero bollate come superstizioni da qualsiasi persona razionale, qualunque siano le opinioni in merito a ciò che sta dietro il simbolo: posso essere tifoso della Fiorentina, ma francamente non me ne importa nulla se bruci la maglia viola, al massimo ti guardo con compassione.
Non si capirebbe quindi tutta l'importanza che i giornali hanno dato nei giorni scorsi al fatto che un pastore evangelico americano (omonimo di un Monty Python) aveva manifestato l'intenzione di bruciare pubblicamente il Corano, se non fosse per la nota legge secondo cui la madre dei cretini è sempre incinta. Cretino il pastore, cretini i musulmani che si sono fatti provocare e hanno minacciato sfracelli (come al solito regalando all'Occidente un'immagine dell'Islam assai arretrata), piuttosto cretini i media che hanno dato risalto alla notizia.
Il gesto simbolico del pastore voleva essere la risposta a un altro evento di significato simbolico la cui effettiva rilevanza nel mondo materiale è altrettanto nulla, ovvero l'eventuale presenza di una moschea nelle vicinanze di Ground Zero, a riprova ulteriore del fatto (che personalmente sostengo da tempo) che con buona pace di Marx le guerre e i conflitti vengono più facilmente scatenati dai simboli e dalle ideologie che da motivazioni concretamente materiali ed economiche (in fondo è facile mettersi d'accordo sul denaro, mentre è impossibile mettersi d'accordo sull'unico vero Dio).
Un gesto indubitabilmente poco rispettoso quello del pastore, il quale da come si presenta dà l'idea di non avere una grande dimestichezza con qualsiasi libro e di non conoscere nemmeno il contenuto di quel che vuole distruggere. Anche se forse c'è da notare che bruciare un testo sacro, se denota sicuramente una certa ostilità verso il libero pensiero, non sempre può essere associato all'ostilità verso una data religione, ma che il testo può venire bruciato proprio per difendere la religione.
I più grandi bruciatori di Corani sono stati proprio gli islamici, all'inizio della loro storia, i quali nello sforzo di pervenire ad un unico canone di riferimento cercarono di distruggere tutte le versioni non conformi. Ma anche i cattolici non scherzano affatto, e non solo riguardo ai Vangeli apocrifi e i testi eretici. Forse non tutti sanno che nell'Indice dei libri proibiti erano presenti anche la Bibbia e i Vangeli, almeno quelli in volgare che potevano essere letti anche dalla gente non troppo colta, e questo fino al 1965 (ovvero fino al Concilio Vaticano II). Nei secoli passati occorreva uno speciale permesso per entrarne in possesso, altrimenti i libri rischiavano di finire al rogo, e il suo proprietario con essi.
Tornando a noi, intolleranza, superstizione, oscurantismo: sono tre forme di stupidità, aventi tutte lo stesso esito, però c'è anche una forma di stupidità più pura, essenziale, che può portare a bruciare un Corano. Supponiamo, ad esempio, che un certo giornalista debba fare un servizio sulla moda americana di bruciare i Corani. Supponiamo anche che il suddetto giornalista abbia difficoltà a trovare del buon materiale video con cui confezionare il servizio. Che cosa dovrebbe fare il buon diavolo?
Non gli resta che entrare in una libreria, comprare una copia del Corano, e realizzare un filmino casalingo nel quale si vedono solo le sue mani che accendono un cerino e iniziano a dare fuoco al libro. Fatto, servizio realizzato e pubblicato su una delle principali testate online con grande soddisfazione di tutti. Benpensanti di sinistra indignati conto i fondamentalisti cristiani, islamici arrabbiati con l'Occidente tutto, malpensanti di destra indignati contro gli islamici violenti, e giornalisti che si arricchiscono su tutto questo.
Supponiamo però che io veda il filmato e me ne accorga, che sia certo al 99% che sia un tarocco. Cosa potrei fare? In fondo si tratta di una grave violazione della deontologia professionale, e non sarebbe giusto che la passasse liscia. Potrei forse denunciare il tutto a Striscia la Notizia, o ancora meglio a un acchiappa-bufale come Attivissimo. Oppure potrei scrivere un post indignato e tentare di sollevare la rabbia della blogosfera contro il malcapitato. Sarebbe anche giusto.
Però, c'è un però. Ovvero il fatto che l'ipotetico giornalista non sarebbe affatto un simbolo, ma una persona in carne e ossa, e io rischierei davvero di fargli del male denunciandolo. Qualche islamico, non si sa mai, potrebbe anche mettersi in testa di fargliela pagare, e una cosa come quella non penso che meriti addirittura una coltellata (in fondo non ha mica buttato dei cuccioli di cane in un fiume).
E siccome io rispetto più le persone dei simboli, e più le persone dei valori astratti come la verità e la correttezza, dovrei quindi starmene zitto. Al massimo l'unico compromesso al quale potrei arrivare sarebbe lo scrivere un post usando solo periodi ipotetici.

venerdì 10 settembre 2010

problemi di induzione


In un noto indovinello probabilistico, si chiede di immaginare che un certo signor Rossi affermi: "io ho due figli, uno di essi è maschio", e di calcolare la probabilità che anche l'altro figlio del signor Rossi sia maschio.
Questo indovinello comparve nella rubrica di Martin Gardner sullo Scientific American dedicata ai giochi matematici, in un articolo sulle difficoltà concettuali della probabilità. Gardner infatti si meravigliava del fatto che molte persone intelligenti non solo davano la risposta sbagliata all'enigma (50%), ma non riuscivano ad accettare il fatto che fosse sbagliata nemmeno di fronte alla risposta corretta e alla sua spiegazione.
Infatti, secondo la sua spiegazione, le possibilità con due figli sono quattro in tutto: MM, MF, FM, FF. Escludendo la quarta possibilità in virtù dell'informazione che il signor Rossi ci ha dato, fra le tre rimanenti ne rimane una sola con due maschi, quindi la probabilità è 1/3. Ovvero, una volta presa la popolazione di tutti quelli che hanno due figli, di cui uno maschio, solo un terzo di questi avrà entrambi i figli maschi.
Ironicamente, però, Martin Gardner avrebbe dovuto rettificare la sua affermazione nel numero successivo della rubrica, dopo molte lettere di protesta ricevute. Questo perché le persone che non accettavano la risposta presentata come corretta, risultò dopo attenta meditazione, non avevano poi tutti i torti.
L'inferenza induttiva (probabilistica) può essere di due tipi: diretta o inversa. L'inferenza diretta è quella che cerca di inferire le caratteristiche del campione da quelle della popolazione (abbiamo un'urna con 50 palline nere e 50 palline bianche, qual è la probabilità che estraendo una pallina essa risulti bianca?). L'inferenza inversa è quella che cerca di inferire le caratteristiche della popolazione da quella del campione: abbiamo un'urna con 100 palline di colore ignoto, se ne estraiamo dieci bianche, qual è la probabilità che tutte le palline nell'urna siano bianche?
Nell'indovinello del signor Rossi è presente un'ambiguità, per cui in realtà non sappiamo esattamente cosa ci viene chiesto. Non è affatto scontato che ci troviamo di fronte a un caso di inferenza diretta, nel quale ci viene chiesto di calcolare la probabilità richiesta semplicemente considerando le caratteristiche (già note) di una data popolazione. La difficoltà, invece, è proprio quella di capire di quale popolazione si debba considerare facente parte il signor Rossi. A quella di tutte le persone con due figli di cui uno maschio, come suggeriva la soluzione di Gardner? E perché invece non dovremmo considerarlo appartenente alla popolazione di tutte le persone con due figli, di qualsiasi sesso?
Noi non sappiamo a quale titolo il signor Rossi ci ha fornito quell'informazione, se cioè voleva farci calcolare la frequenza relativa di una certa caratteristica all'interno di una data popolazione (quella dei padri con due figli di cui uno maschio), oppure se ci stava chiedendo di fornire una stima della nostra fiducia sul fatto che anche l'altro figlio sia maschio (ovvero, quanto scommetteremmo su tale eventualità). E le due cose, anche se su questo vi è una certa congiura del silenzio, sono profondamente diverse.
Non è che l'inferenza inversa non sia matematicamente calcolabile. Nell'esempio dell'urna e delle palline (100 palle di colore ignoto, ne estraggo dieci bianche), esiste una formula precisa, che è data dal teorema di Bayes. Il problema è che per essere usata tale formula deve fare per forza ricorso ad assunzioni arbitrarie sulle cosiddette "probabilità a priori", non tratte da nessuna osservazione ma semplicemente postulate (magari facendo ricorso al laplaciano "principio d'indifferenza").
Bisogna assumere, ad esempio che tutte le diverse distribuzioni di colore nell'urna siano a priori equiprobabili (100 bianche e 0 nere, 99 bianche e 1 nera, 98 bianche e 2 nere, eccetera), per poi calcolare, tramite il teorema di Bayes, come variano queste probabilità in funzione delle estrazioni fatte. Ma qualcuno potrebbe anche contestare questo principio e ritenere che alcune distribuzioni abbiano una maggiore probabilità. Ad esempio, è evidente che in una serie di lanci di moneta sono più probabili le combinazioni che prevedono un certo equilibrio fra teste e croci (50 teste e 50 croci) di quelle che prevedono solo croci o solo teste, e non si vede perché un simile principio non si possa applicare anche al caso delle urne e delle palline.
L'indovinello del signor Rossi serve a portare allo scoperto uno scontro fra due diverse visioni filosofiche, quella "oggettivista" (o "frequentista") e quella "soggettivista" riguardo alla probabilità. Per alcuni la probabilità è una cosa che riguarda solo l'inferenza diretta, e può essere applicata solo quando abbiamo dati oggettivi e certi (statistiche riguardo la mortalità tra i fumatori, ad esempio, possono aiutarci a calcolare la probabilità di ammalarsi di tumore). L'inferenza inversa sarebbe invece un uso non legittimo del calcolo della probabilità.
Per altri, invece, la probabilità è qualcosa di intrinsecamente soggettivo, non essendo altro che il grado di fiducia che una certa persona ha nell'occorrere di un certo evento. Essa, è vero, può essere modificata dall'esperienza (sarei irrazionale se il continuo occorrere di certi eventi non modificasse la mia fiducia anche nel loro occorrere futuro) ma l'elemento soggettivo non potrà mai essere del tutto eliminato dai dati. Il più noto portavoce della concezione soggettivista della probabilità, per inciso, è stato un grande matematico italiano, Bruno De Finetti, uno dei geni che hanno calcato il suolo della nostra Patria.
Il fatto, comunque, è che i casi di induzione nel ragionamento scientifico, o almeno per quello che riguarda la formulazione di teorie e la scoperta di nuove leggi scientifiche, riguardano sempre l'inferenza inversa. L'inferenza diretta in pratica serve solo a calcolare le probabilità di uscita di una combinazione di numeri al superenalotto, o di azzeccare un numero alla roulette. Solo casi, cioè, di "probabilità addomesticata", nei quali la popolazione di riferimento è nota perché da noi decisa e posta sotto il nostro stretto controllo.
Per quella che Nassim Nicholas Taleb chiama "fallacia ludica" molti testi divulgativi di teoria della probabilità tendono a concentrarsi solo sui casi addomesticati, dando una visione parziale e fuorviante del ragionamento induttivo e probabilistico. È in questo modo che ci si espone, sempre secondo la terminologia di Taleb, ai "cigni neri", agli eventi inaspettati che non potevano essere previsti perché non c'era modo di prevederli, all'interno delle assunzioni precedentemente adottate nelle quali venivano fatte le previsioni.
Una qualsiasi legge scientifica è un esempio di inferenza inversa: dopo aver osservato un certo numero di cigni bianchi, posso formulare l'ipotesi che tutti i cigni dell'universo siano bianchi, esponendomi però al rischio, inevitabile e non calcolabile, del cigno nero. Inevitabile perché non possiamo essere sicuri della giustezza delle assunzioni su cui ci fondiamo, di quale sia la descrizione dell'universo che ci permetterebbe di compiere inferenze dirette e quindi veramente affidabili. Viene in mente anche il tacchino di Russell, convinto che il giorno di Natale gli avrebbero portato da mangiare perché così avevano fatto tutti gli altri giorni dell'anno.
Taleb, però, nonostante tutto il disprezzo che spande a piene mani, nel suo libro, per filosofi ed esperti di probabilità a qualsiasi titolo, non ha certo scoperto o teorizzato lui per primo i limiti dell'induzione (già esplorati da Hume, Goodman e altri che trovo pleonastico menzionare). Riassumendo, il problema delle ipotesi di tipo induttivo-probabilistico ("quasi sicuramente la prossima pallina che estrarrò dall'urna sarà bianca") è che si fondano tutte, a loro volta, su ipotesi ("nell'urna ci sono 99 palle bianche e una nera") la cui cui affidabilità è sottoposta al calcolo delle probabilità, dando così inizio a un circolo vizioso.
Circolo vizioso che può essere spezzato forse prendendo atto del fatto che che le ipotesi scientifiche, le leggi di natura e le teorie, non sono affatto semplici generalizzazioni empiriche che è possibile sottoporre al vaglio del calcolo delle probabilità, ma qualcosa di più. Ma questa è un'altra storia.

venerdì 27 agosto 2010

ironia


L'ironia è una delle parole che vengono usate più a sproposito, dalla maggior parte delle persone, attribuendo al termine in questione significati molto lontani da quello corretto. L'ironia non è, ad esempio, un sinonimo di "singolare e in qualche modo buffa coincidenza" ("ehi, si chiama Bassi di cognome ed è davvero basso, che ironia!"). Una coincidenza potrebbe essere considerata ironica, al massimo, quando vi è un certo contrasto fra i due elementi (mi chiamo Bassi, ma sono alto due metri e venti centimetri). Non è nemmeno una parola che si usa per significare del genericissimo umorismo di qualsiasi tipo.
L'ironia, semplicemente, è una figura retorica consistente nell'affermare una cosa intendendo però l'esatto contrario. Se ad esempio vedo Monica Bellucci in tv e dico "ma guarda che cesso a pedali" sto facendo dell'ironia, perché quel che voglio dire è che Monica Bellucci non è affatto una brutta donna.
Solo che è importante distinguere l'ironia dalla bugia, o dall'inganno. Se uno mi chiede al telefono come sto e io rispondo che sto malissimo, anche se in realtà mi sento bene, magari perché non ho voglia di uscire con lui e vederlo, non sto facendo dell'ironia, ma sto semplicemente mentendo.
Esteriormente la differenza è difficile da cogliere, una frase ironica e una menzogna sono formalmente indistinguibili, se non per una certa intonazione della voce che può aiutare a cogliere il senso dell'enunciato. Quello che conta, comunque, è l'intenzione. Siccome nell'ironia non c'è la volontà di trarre in inganno nessuno, di solito viene usata in contesti nei quali è difficile che uno venga davvero tratto in inganno.
Per esempio, nel caso di Monica Bellucci, è evidente a chiunque stia guardando la televisione insieme a me che la Bellucci è un gran bel pezzo di donna (per aggiungere dell'altra perfida ironia, potrei dire anche "ma almeno quando parla si capisce che è molto intelligente") e quindi costui può comprendere che non posso essere serio. Invece l'altro mio interlocutore al telefono non può sapere come io sto effettivamente, e quindi anche se volessi fare dell'ironia fallirei perché costui non avrebbe il modo di coglierla.
L'ironia è quindi un atteggiamento epistemologicamente raffinato, un modo abbastanza contorto e complicato per dire una cosa. Se voglio dire che Monica Bellucci è bella, perché non dico direttamente che è bella, invece di dire che è un cesso, rischiando anche di non essere compreso e di essere scambiato per uno che non apprezza le belle donne? Beh, tralasciando la povertà dell'esempio, lo scopo è probabilmente umoristico, e anche se questo lascia aperta la questione, ancora più complessa, di cosa sia l'umorismo.
Comunque l'ironia, per quanto spesso aggressiva, è una cosa abbastanza apprezzata in società, e a volte è anche un modo per stemperare le tensioni. Se dite una cosa che è risultata essere particolarmente fastidiosa, potete sempre cavarvela dicendo "ma io ero ironico". "Sei una lurida testa di cazzo", "Come ti permetti?", "Ero ironico", "LOL". "Penso che voterò Lega", "Voglio il divorzio", "Ero ironico", "Ti amo".
È anche un modo far farsi passare per persone intelligenti, specialmente nella versione, particolarmente apprezzata, detta "autoironia", che consiste nell'assumere atteggiamenti di disprezzo nei propri confronti, per significare che invece si è dei geni (oppure di autoesaltazione, dire di essere bellissimi per significare che si è brutti, ma sempre per far capire di essere ironici e quindi intellgenti). Cioè dire ironicamente di essere scemi, per qualche misterioso motivo, aumenta le possibilità di essere considerati intelligenti, molto più che dicendo di essere intelligenti e basta (il che spesso è anzi controproducente).
L'autorità suprema, in fatto di ironia e autoironia, è il filosofo greco Socrate, che ad esempio diceva spesso di essere ignorante, ma in realtà si considerava una persona molto saggia, e infatti proprio il suo "so di non sapere" è considerato un esempio di grande saggezza. Per questo, al posto del termine "ironia", si usa spesso anche "ironia socratica".
Però c'è un piccolo problema. Il fatto è che, sebbene il termine "ironia" sia attestato negli scritti platonici, e proprio in riferimento a Socrate, ai tempi di Socrate quel termine non significava affatto la stessa cosa che significa oggi. In effetti, εἰρωνεία significava proprio "falsità", "ipocrisia". Quindi gli interlocutori di Socrate, a una lettura attenta, non stavano complimentandosi con lui per la sua ironia, bensì gli stavano dando del falso e dell'ipocrita.
Gregory Vlastos, nel suo bel saggio su Socrate, sostiene che probabilmente il termine aveva anche un significato secondario, più vicino a quello odierno, e che poi sarebbe diventato l'accezione più popolare del termine, oscurando il significato primario, proprio grazie a Socrate. Perché se è vero che gli avversari di Socrate lo accusano di fare dell'ironia, intendendo con ciò qualcosa di negativo, e non esattamente un complimento, è anche vero che Socrate non li sta esattamente ingannando.
Quella di Socrate però non è nemmeno ironia nel senso moderno della parola, perché è anche vero, come il fastidio provato dai suoi interlocutori dimostra, che vi è un elemento di dissimulazione nel suo atteggiamento. Se fosse davvero ironia nell'uso contemporaneo, sarebbe un cattivo uso di ironia, perché continuamente fraintesa e non capita. Come uno che vuol fare lo spiritoso ma che si trova appunto costretto a spiegare continuamente le sue battute ("scusate, ero ironico").
Ovviamente, l'ironia di Socrate è molto più destabilizzante di quella odierna, proprio perché non sempre si capisce. Vlastos la definisce "ironia complessa". In sostanza, si tratta di dire una cosa, non intendendo l'esatto contrario, ma intendendo proprio quel che si dice, solo in un senso diverso da quello più immediatamente letterale e comprensibile.
Per esempio, quando Socrate afferma di essere ignorante, pregando i suoi interlocutori di illuminarlo su qualche aspetto della conoscenza, non sarebbe esatto dire che questa è una figura retorica per cui Socrate sta in realtà affermando di essere sapiente. Socrate si considera davvero un ignorante, uno che non sa. Però invita a considerare la sua ignoranza sotto un altro aspetto, positivo, a considerarla una forma di conoscenza, più profonda della conoscenza nozionistica e superficiale dei sofisti.
Analogamente, quando in un famoso passo del Simposio (quello di Senofonte, non quello di Platone), sostiene di poter vincere un concorso di bellezza con un avvenente giovanotto, nonostante avesse fama di essere bruttissimo, non è semplicemente perché faccia dell'umorismo, o della (argh) autoironia. Egli in realtà ci invita a riconsiderare i concetti di bellezza e bruttezza, e a vederli sotto nuove e inedite angolazioni. Ci sta dicendo, per chi vuole capirlo, che esiste un tipo di bellezza più importante di quella del corpo.
SOCRATE. Pensi forse che la bellezza si dia solo nell'uomo, o anche in qualche altro essere?
CRITOBULO. Io credo che la si possa trovare anche in un cavallo o in un bue ed in molte cose inanimate. Ad esempio io riconosco come bello uno scudo, una spada o una lancia.
S. E come è possibile mai che possano essere belle tante cose differenti e prive di alcuna relazione l'una con l'altra?
C. Perché, se questi oggetti sono stati fabbricati in modo opportuno per gli scopi per i quali noi li acquistiamo, oppure sono adatti per natura ai nostri bisogni, allora questi oggetti io li chiamo belli nei vari casi.
S. Bene; dunque gli occhi a che ci servono?
C. Ovviamente, per vedere.
S. Allora è bell'e dimostrato che i miei occhi sono più belli dei tuoi. Perché mai? Perché i tuoi vedono soltanto quello che ti sta di fronte, mentre i miei sporgono in fuori in modo tale che io posso vedere anche quanto mi sta di fianco non meno di quello che ho di fronte.
C. Vuoi dire che il granchio è l'animale che ha gli occhi più belli?
S. Per l'appunto, perché dal punto di vista dell'efficacia, i suoi occhi sono quelli meglio concepiti dalla natura.
C. E va bene; ma quale dei nostri due nasi è il più bello?
S. Il mio, direi, se è vero che gli dei ci hanno dato le narici per cogliere gli odori, dato che le tue sono rivolte a terra, mentre le mie sono belle larghe così da recepire gli odori da ogni parte.
C. Ma in che modo un naso camuso puà essere più bello di uno diritto?
S. Perché non costituisce alcun ostacolo, bensì permette agli occhi di vedere quello che vogliono, mentre un dorso di naso più alto ne ostruisce la visuale come per dispetto.
C. Lo stesso varrà anche per la bocca, te lo concedo fin da ora, perché se la bocca è fatta per mordere, tu puoi dare morsi molto più grandi dei miei.
S. Poi, con le mie labbra grosse, non pensi che io riesca a dare baci assai più morbidi?
C. A darti ascolto, io avrei una bocca più brutta che gli asini.
S. Non è questo, allora, un altro motivo per cui io sono più bello di te? Le Naiadi, che sono dee, generano quei Sileni che assomigliano molto più a me che a te.
C. Non so più in che modo replicare. Si metta pure ai voti per decidere subito che cosa devo fare o che multa devo pagare.

Socrate, al giorno d'oggi, se facesse la sua comparsa su un social network, non sarebbe considerato una persona ironica. L'ironia oggi è qualcosa di innocuo, di non dirompente, che non fa arrabbiare e non fa riflettere. Socrate invece faceva talmente arrabbiare i suoi contemporanei che alla fine l'hanno dovuto ammazzare per toglierselo di torno. La parola giusta per Socrate non è "ironico" ma un'altra. Socrate oggi sarebbe un fake.

domenica 15 agosto 2010

falsità convenzionali


L'immagine è solo marginalmente correlata all'articolo, ma è stata scattata appositamente per me dalla mia amica Elisa Gianola (diritti riservati), quindi se non vi piace l'articolo ma vi piace la foto siete pregati di votarmi lo stesso per il Macchianera Blog Award.

In attesa che l'epidemiologia delle credenze diventi una disciplina vera e propria credo che si possano identificare alcuni schemi fissi, alcuni motivi ricorrenti, dietro al fascino di certe leggende urbane, di certi miti diffusi spesso anche nel mondo accademico.
Oggi non parlerò di teorie cospirazioniste, che nel loro delirio abbisognano di spiegazioni a parte. Il fatto è che tutti (ma in particolare, lo devo riconoscere, coloro che hanno a che fare con discipline umanistiche e filosofiche) abbiamo avuto esperienza di teorie palesemente assurde che però diventano misteriosamente mainstream e quasi universalmente accettate, ovvero con le "falsità convenzionali". Credo che il fascino di certe credenze e il motivo della loro diffusione risieda proprio in questo, nel nostro amore (spesso fruttuoso) per i paradossi: è difficile resistere a una teoria che va contro ogni nostra intuizione ma che è anche profondamente ricca di implicazioni, e che quindi ci fa vedere il mondo in una luce diversa.
L'esempio più chiaro che mi viene in mente è la teoria psicanalitica di Freud. La psicanalisi ha cambiato il mondo, non ci sono dubbi sul suo grande impatto sulla cultura contemporanea, ma c'è un solo piccolo problema: è empiricamente falsa, in quanto ognuno di noi può testimoniare che mai gli è passato per l'anticamera del cervello di fare l'amore con la propria madre. Freud naturalmente risponderebbe subito che proprio la ripulsa che proviamo per l'incesto è segno della censura operata dal superego sui nostri desideri inconsci, il che è solo una spiegazione ad hoc (un classico "testa vinco io, croce perdi tu"), solo con questa semplice mossa ci ha già fregati, perché per non passare per bigotti siamo costretti a considerare l'idea, a esplorarne tutte le implicazioni: alcuni tasselli che compongono la nostra visione del mondo vengono spostati per fare qualche tentativo, finché a un certo punto non scatta qualcosa nella testa che ci dice "ehi, ma questa è una figata! sarebbe pazzesco se fosse davvero così, perché non ci ho pensato prima?".
I filosofi in particolare, dicevo, amano stupire il prossimo con ragionamenti paradossali, la cui accettazione più o meno supina dipende dal prestigio di cui gode il filosofo o più in generale dallo zeitgeist: non ci siamo ancora liberati del tutto, e forse non ci libereremo mai, dai wittgensteiniani, gente convinta che pure quando stiamo sulla tazza del cesso quel che facciamo, in realtà, è "gioco linguistico", per non parlare dei decostruzionisti, i quali credono che qualsiasi testo, comprese le istruzioni per il montaggio dei mobili Ikea, non parli in realtà di nient'altro che di se stesso, vanificando da solo ogni pretesa di riferirsi ad altro fuori da sé (è per questo che ce ne serviamo, no?).
Ciò che di solito spinge i filosofi, però, è davvero l'amore del paradosso per il gusto del paradosso mentre le cose diventano un po' più complicate per quanto riguarda il terreno della psicologia o della sociologia, dove le considerazioni ideologiche e talvolta il mero wishful thinking collaborano sovente alla distorsione della realtà. È del tutto illusorio aspettarsi di trovare, nei manuali ad uso delle scuole, una descrizione realistica del funzionamento delle nostre società o delle pulsioni che spingono gli individui ad agire in determinati modi: c'è scritto solo quello che la gente vuole sentirsi dire, hanno una funzione perlopiù consolatoria.
Un esempio sul quale mi è capitato di discutere recentemente è il fenomeno del bullismo. Fino a qualche tempo fa la descrizione più ricorrente del fenomeno (ancora popolare tra i non specialisti) tratteggiava la figura del bullo, violento e aggressivo, come motivata da una scarsa considerazione di se stesso, una bassa autostima e una personalità fragile e insicura. Le ricerche più recenti hanno messo in luce come a questa teoria manchi un qualsiasi supporto empirico (l'evidenza conduce piuttosto alla conclusione opposta, ovvero che i bulli hanno un'alta considerazione di sé e pochissima per gli altri, e proprio per questo tendono ad essere violenti) ma quello che dovrebbe sorprendere, in primo luogo, è che qualcuno abbia mai potuto pensare una cosa del genere, e che sia stato pure ascoltato.
Perché mai chi sfrutta la propria superiorità fisica per vessare gli altri, avendo pure successo e traendo conferme dal proprio atteggiamento, dovrebbe sentirsi insicuro? Davvero si pensa che, fra carnefice e vittima, quello che sta male sia il carnefice? Ma la cura dell'autostima sembra essere diventata la panacea di tutti i mali, non solo del bullismo. Qualcuno forse è convinto che dare lezioni di autostima a Totò Riina aiuterebbe a risolvere il problema della criminalità organizzata.
Passiamo ad altro mito psico-pedagogico, tuttora insegnato: la teoria dell'attaccamento di Bowlby (la più popolare sul rapporto madre-figlio, dopo Freud). I primi mesi di vita, sostiene Bowlby, sono fondamentali perché i comportamenti relazionali futuri dipendono dalla qualità dell'attaccamento alla madre, che dipende dalla sua sua sensibilità e disponibilità. Se l'attaccamento è insicuro tutti i rapporti costruiti in futuro con altre personalità saranno caratterizzati da fragilità e instabilità emotiva, mentre se si stabilisce una relazione di attaccamento adeguata (se il bambino riceve abbastanza protezione, senso di sicurezza, e affetto dalla figura di riferimento) avremo uno sviluppo ottimale della personalità. Per farla breve, è la teoria: "poveretto, si vede che ha i genitori separati".
Peccato che Bowlby non abbia pensato a verificare se il comportamento tenuto dai bambini nell'ambiente familiare avesse qualche correlazione con quello tenuto nell'ambiente scolastico o dei propri compagni di gioco, o controllare che tali modelli perdurassero nell'età adulta. Perché si dà il caso che, escludendo le variabili genetiche (i figli tendono ad assomigliare ai genitori) non vi sia alcuna correlazione. Ma per questo non c'era bisogno di fare delle ricerche, anche se è bene non fidarsi delle impressioni personali. Ad esempio, basta considerare a quanti è capitato di incontrare il classico angioletto bene educato che è la gioia dei genitori, il quale si trasforma in una psicopatica creatura lovecraftiana dall'immenso potere distruttore non appena è fuori dalla loro portata. Le persone si adattano all'ambiente che trovano, e non avrebbe alcun senso, ai fini della sopravvivenza, ricopiare pedissequamente i modelli comportamentali appresi in un contesto per riprodurli ovunque. La teoria dell'attaccamento non ha altra funzione che quella di individuare facilmente i responsabili di un cattivo esito educativo.
Continuando, secondo Gregory Bateson la schizofrenia è un effetto del "doppio vincolo", ovvero di messaggi ambigui. Ovvero, se insistete a dare messaggi contraddittori ai vostri pargoli, quelli rischiano di diventare schizofrenici. Esempio (tratto dall'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche): "la madre torna a casa carica di pacchi della spesa […] il figlio di sei anni le si fa incontro, pronto ad abbracciarla. La madre gli dice: 'Abbracciami, perché non mi abbracci?', mentre invece questo evidentemente è impossibile, dato che ha in mano i pacchetti". Miseriaccia, l'avreste mai detto che un incidente così banale può portare a una cosa seria come la schizofrenia?
A proposito di Freud, oltre al complesso di Edipo, si potrebbero citare altre amenità, come l'invidia del pene, che fanno tanto arrabbiare le femministe, salvo che le femministe hanno poco da gioire perché sono fra le principali responsabili della diffusione di teorie non meno assurde di quelle freudiane. Una delle mie preferite è quella della diffusione delle società matriarcali anteriori, in età paleolitica, al presente patriarcato, oppressivo e maschilista e ovviamente responsabile di tutte le guerre e le violenze. Classico esempio di evidenza che va tutta da un parte (conoscete molte società matriarcali, voi?) e teoria che va nella direzione opposta (il matriarcato è il vero stato "naturale" dell'umanità).
Molte femministe, poi, sono anche convinte che la nostra attuale società occidentale sia "particolarmente" oppressiva per loro, e anche questo, non c'è bisogno di dirlo, va contro ogni evidenza. Le società che opprimono la donna, è banale ma vale la pena ricordarlo, non sono quelle con i manifesti pubblicitari e le donne nude attaccate ovunque, ma quelle dove le donne nude non si vedono proprio mai (qualsiasi giudizio si voglia dare sul buon gusto di certe immagini). E quelle sono anche le società dove si consumano più spesso le violenze contro le donne. Solo che non vogliamo sentircelo dire, forse perché in tal modo ci verrebbe a mancare un capro espiatorio (che non sia la natura umana) per quelle violenze che ancora avvengono.
La rassegna finisce qui perché altrimenti divento troppo polemico, e io non ce l'ho con nessuno. Riflettevo sulla possibile utilità di certe teorie, perché la storia naturalmente offre anche mirabili esempi di teorie del tutto controintuitive rivelatesi giuste: la teoria copernicana ci dice che il Sole è fermo, contro le apparenze, ed è la Terra a muoversi ad altissima velocità nonostante noi non ci accorgiamo di nulla. E i persino i continenti si muovono, avvicinandosi e allontanandosi l'uno dall'altro, grazie a forze che facciamo fatica a immaginare (cosa può spostare un continente?).
Però Galileo e Wegener non avevano incontrato da subito il plauso incondizionato della comunità scientifica. Tutto al contrario, come sappiamo. Questo non è mica un male, nonostante le modalità meschine con cui si è cercato di mettere Galileo a tacere: le teorie scientifiche innovative devono essere criticate, anche a costo di fare la figura dei vecchi conservatori, in modo da permetterci di capire quali hanno davvero speranze e quali sono semplice fuffa. Oggi che tutti vorrebbero essere dei rivoluzionari, il problema della scienza è quello di proteggersi dai Galileo, ed evitare quindi di abbracciare qualsiasi sciocchezza solo perché in contrasto col sapere tramandato e addirittura col buon senso (penso all'omeopatia, penso al creazionismo). O magari perché è conveniente da un punto di vista politico.