mercoledì 28 ottobre 2015

analfabetismo e vaccini


Ho scritto un nuovo post sul blog dell'Indiscreto col quale mi inserisco in quello che può essere considerato il grande argomento di questi giorni: il dibattito sui vaccini. Contiene una piccola storia della variolizzazione (ovvero la protezione dal vaiolo prima della vaccinazione), una polemica settecentesca fra Bernoulli e d'Alembert relativa al calcolo delle probabilità, e si conclude con la storia delle prime campagne di vaccinazione.

Devo dire che anche questo articolo mi ha dato soddisfazioni, ricevendo un'attenzione alla quale il tenutario di questo blog non è abituato. Ha suscitato pure qualche polemica, come era immaginabile visto che voleva proprio essere un post controverso, ma mi sembra anche che in linea di massima ne sia stato colto il senso (fra gli apprezzamenti particolarmente graditi registro quello di Marco Cattaneo).

Riassumendo un po' due sono gli eventi, accaduti di recente, che hanno contribuito a scatenare il dibattito: a Bologna una neonata è morta di pertosse, e prima ancora c'è stato l'allarme lanciato dall'Istituto Superiore di Sanità relativo alla sempre minore percentuale di persone che scelgono di vaccinare i figli, percentuale che sarebbe ormai scesa sotto la soglia di sicurezza e che quindi metterebbe a rischio l'immunità di gregge (cioè quella cosa che avrebbe protetto la neonata morta di pertosse, ancora troppo piccola per vaccinarsi). La reazione è stata quella abbastanza tipica del web: da una parte centinaia di post che spiegavano le ragioni e l'opportunità di vaccinare, alcuni ben argomentati, altri ricchi più di insulti che di argomenti e che secondo il mio modesto parere sembravano destinati più a stuzzicare il senso di superiorità intellettuale e morale degli autori che a fornire un servizio di pubblica utilità. Dall'altra parte un numero altrettanto consistente di post che rivendicavano la scelta di non vaccinare, in nome talvolta di un ideale libertario (al quale il sottoscritto sarebbe anche sensibile), più spesso in nome di ragioni pseudoscientifiche piuttosto discutibili.

Mi è sembrata una buona opportunità per discutere dei limiti della comunicazione scientifica e sul delicato rapporto fra scienza e democrazia. In realtà le ricerche che ho svolto hanno finito per prendermi un po' la mano, facendomi appassionare alla storia della variolizzazione e ai dibattiti del Settecento intorno a tale pratica, ma credo che i (due-tre) lettori che mi seguono da più tempo abbiano individuato quale fosse il vero argomento del post: non i vaccini ma una cosa di cui mi sono già occupato di recente e cioè il cosiddetto analfabetismo funzionale. Più esplicitamente, l'abitudine di attribuire all'ignoranza e a un'istruzione insufficiente quelli che al contrario dovremmo considerare gli effetti della scolarizzazione di massa e l'accesso universale alla cultura.

Credo sia una contraddizione che prima riconosciamo meglio sarà, in quanto destinata certamente a ripetersi e deflagrare in altri ambiti oltre a quello, particolarmente delicato per le ripercussioni sulla salute pubblica, dei vaccini. In altre parole dobbiamo imparare a comprendere e gestire gli effetti tuttora imprevedibili che l'accesso universale alla cultura e alla comunicazione scritta possono avere nel modificare gli equilibri e le gerarchie di competenza alle quali siamo abituati. Possibilmente senza tornare indietro a soluzioni autoritarie, basate sulla soppressione e sul controllo del dibattito.

Le mie riflessioni su questi diritti contrastanti – il diritto alla salute e quello del rifiuto delle cure mediche, ma anche il diritto all'istruzione e la libertà di espressione – potrebbero sembrare pessimiste ma io sono, nonostante tutto, un ottimista. Credo nella capacità della società di darsi un ordine spontaneo, tutto sommato razionale ed efficiente, e di creare da sola un sistema di incentivi che lasciando liberi gli individui di compiere le proprie decisioni sia anche in grado di tutelare se stessa. Credo molto meno in sistemi di regolazione della società vincolanti per gli individui e imposti dall'alto nel tentativo di costruire una macchina perfettamente funzionante.

In altre parole, e come ultima provocazione, direi che è naturale che finché esiste un obbligo scolastico, un obbligo alla convivenza forzata e allo scambio di germi fra fanciulli, debba esistere anche un obbligo alla prevenzione dalle malattie, per limitare quegli scambi. Una soluzione, certamente non a portata di mano, per eliminare questi antipatici inconvenienti potrebbe essere eliminare entrambi gli obblighi e creare un libero mercato della conoscenza. Insomma ci tornerò.

giovedì 1 ottobre 2015

aggiornamento

Ultimamente sto facendo il tentativo di uscire dai confini un po' angusti del mio blog personale e andare a cercare qualche lettore altrove.

Devo dire che il mio primo esperimento in tal senso, annunciato nel post che precede, mi ha dato molte soddisfazioni: ha raggiunto un numero di lettori che non sono abituato ad avere grazie alla grande quantità di condivisioni su Facebook, e cosa ancora più importante ha suscitato molte discussioni intorno all'argomento trattato. Oltre che su FB, per esempio, su Reddit, o Hookii, una community che non conoscevo e che mi pare assai interessante.

La sorpresa più piacevole è stata senz'altro quella di essere stato contattato dalla redazione di "Tutta la città ne parla" su Radio3 per essere intervistato sull'analfabetismo. Per un oscuro blogger che si è limitato a fare una ricerca e un po' di verifica delle fonti intorno alle cifre quotidianamente sparate relative all'analfabetismo funzionale è sicuramente un bel riconoscimento. La puntata se dovesse interessare si trova qui (il mio intervento comincia a partire dal minuto 38 circa): temo di non essere risultato particolarmente incisivo ma ho dovuto improvvisare delle risposte sul momento, essendo stato contattato appena un'ora prima della diretta (e non avendo potuto ascoltare gli altri ospiti).

Mi sono però sentito in dovere di approfondire il tema, quindi ho scritto un altro articolo, sempre per DudeMag, che si può leggere qui. Non ha avuto un successo paragonabile al precedente ma così è la vita: quel che ho tentato di spiegare comunque sono i motivi che stanno dietro all'allarme analfabetismo funzionale in Italia (e nel mondo), al di là della reale portata del fenomeno. Ovvero, cosa ci dice di noi la paura dell'analfabetismo del prossimo?

Su tutt'altro argomento, poi, ho scritto un articolo per un blog culturale nato da poco (ma che è l'erede di un periodico di carta degli anni Settanta e Ottanta), L'indiscreto. Si parla stavolta di filosofia della mente, una mia vecchia passione, ma a partire dal film Inside Out per interrogarsi sul ruolo degli omuncoli nelle spiegazioni sul funzionamento della mente. Oltre al film della Pixar sono riuscito a infilarci un bel po' di argomenti, dall'Iliade di Omero, a Platone e Aristotele, ai poeti stilnovisti, agli spermatozoi, agli automi giocatori di scacchi, alle topiche freudiane, sperando non risulti troppo confuso.

È probabile che prossimamente seguano altri esperimenti – adesso che sono uscito dall'anonimato del blog ci ho preso gusto – ma non credo che abbandonerò questo spazio perché ci saranno senz'altro cose che mi verrà voglia di scrivere ma che non saranno pubblicabili altrove. Nel frattempo spero di riuscire a mantenere un certo silenzio almeno per le prossime due settimane perché in realtà dovrei studiare per un esame. Devo prendere un diploma di archivista, paleografo e diplomatista, e il programma è piuttosto impegnativo. Quindi se vedete qualche mio delirio in giro è perché non sto facendo il mio dovere. A presto.

venerdì 11 settembre 2015

quanti sono gli analfabeti funzionali in Italia?


Ho scritto un nuovo post, dove cerco di rispondere alla domanda del titolo, ma nel quale soprattutto si cerca di capire cosa sia l'analfabetismo funzionale e perché se ne parla tanto. Questo post però lo trovate non sul mio blog ma su Dude Mag, che ringrazio per l'ospitalità concessami. Qui lo potete leggere. Se invece volete partecipare alla discussione su Reddit è qui.

domenica 16 agosto 2015

la fallacia delle fallacie


Vanno molto di moda gli elenchi di fallacie, se ne trovano moltissimi in internet, esistono anche molte pubblicazioni più o meno valide. Fra le valide non posso fare a meno di consigliare il recente libro di Francesco Rende, Manuale di autodifesa verbale, se non altro perché – credo in ricordo di tante discussioni avute in rete – mi cita fra i ringraziamenti. Per inciso, geniale mossa di marketing: ne ho comprate cento copie da distribuire ai parenti, prima di rendermi conto che forse non era proprio una cosa bella, vista anche la compagnia in cui mi trovavo (Guia Soncini, per dirne una). Una cosa che ho imparato nel corso degli anni, tuttavia, è che più le persone si fissano e si riempiono la bocca sulle fallacie di tipo logico più è probabile che non sappiano argomentare o anche solo ragionare in maniera corretta, oppure che siano in malafede.

Occorre ammettere che tali elenchi sono divertenti, se fatti bene anche interessanti. Dei dubbi sulla loro effettiva utilità pratica potrebbero sorgere se si considera ad esempio che un simile elenco è pubblicato in bella mostra anche nel sito che è la bibbia dei fuffari italiani, cioè luogocomune.net, un coso dove la gente parla di scie chimiche e su come l'undici settembre se lo siano fatti da soli gli americani. Se provate a parlare con un complottista, infatti, lo scoprirete allenatissimo nel rilevare le fallacie dei vostri ragionamenti: vi interromperà ogni cinque secondi accusandovi di usare lo straw man (fra l'altro presunta fallacia di recente invenzione, che non esiste negli elenchi tradizionali, da Aristotele a Schopenhauer), l'argomento ad hominem, quello ad auctoritatem, il piano inclinato, e chi più ne ha più ne metta. Mi viene in mente un aneddoto del filosofo – teorico dell'anarchismo epistemologico – Paul Feyerabend: durante il periodo della contestazione studentesca un gruppo di giovani ribelli venne da lui, che aveva una certa e meritata fama di anticonformismo, per chiedergli di dare lezioni di logica: "se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo prima imparare a pensare", "questa poi – rispose Feyerabend – o cosa diavolo c'entra la logica col saper pensare?".

Tutte queste persone sono convinte che occorre essere impeccabilmente logici nell'affrontare un argomento e lo ricordano in continuazione, salvo dimenticare di esserlo a loro volta quando è il loro turno di parlare. Non si può fargliene una colpa, del resto, perché mi sono infine convinto che è impossibile non usare fallacie in una conversazione, e anche che si tratta, almeno quando non se ne abusa, di modi perfettamente legittimi di ragionare. Le persone che si fissano sulle fallacie sembrano concepire una discussione come se fosse qualcosa che non ha nulla a vedere con le discussioni vere, che possiamo avere nella realtà, cioè come una specie di algoritmo il cui scopo è quello di derivare un teorema da determinate premesse. Viene in mente l'utopia leibniziana, in cui di fronte a qualsiasi divergenza di opinione due uomini avrebbero dovuto semplicemente sedersi a un tavolino con un abaco e dire con rassegnazione "ebbene, calculemos", magari con l'aiuto della notazione binaria.

Se il fine fosse quello di derivare conclusioni certe da premesse altrettanto certe ovviamente avrebbero ragione, solo che nessuna persona normale fa questo, di solito. Lo scopo di una discussione è convincere il prossimo del proprio punto di vista. L'apertura mentale che consiste nel riconoscere che anche la propria opinione potrebbe essere sbagliata è un presupposto abbastanza importante, così come quello che è possibile raggiungere una posizione condivisa diversa dalle precedenti, ma non va confuso con l'idea per cui la discussione è un esercizio matematico affine alla scoperta di nuovi teoremi da condurre insieme all'interlocutore. È triste vedere come quella che Schopenhauer chiamava la nobile arte di ottenere ragione, appunto, la dialettica, sia stata cosi neutralizzata e ridotta a volgare errore, in questo modo annichilendo, se si prendessero sul serio certe questioni (cosa che per fortuna le persone normali non fanno), le reali potenzialità di una discussione, triste questo teorizzare astratto sul corretto modo di argomentare senza alcun rispetto e curiosità per la prassi concreta, per l'osservazione empirica, questo non volersi nemmeno interrogare sulle effettive funzioni e possibilità di certe pratiche.

Ma facciamo infine degli esempi che illustrino il mio punto di vista. La più famosa di tutte le fallacie è probabilmente quella ad hominem, che (dice Francesco Rende) "si verifica quando viene aggredita, anziché la conclusione, la persona che la asserisce o la difende". L'esempio più classico è quando si attacca una certa teoria, ad esempio che i vaccini sono pericolosi per la salute, mostrando che i suoi sostenitori più in vista sono tutti dei ciarlatani. Ammesso che lo siano, si sostiene, non ne consegue logicamente che l'affermazione "i vaccini sono pericolosi per la salute" sia falsa. Nei casi più estremi l'argomento può assumere la forma della semplice ingiuria: "credo che 2+2 faccia 4", "ma stai zitto che non capisci niente". In realtà in passato l'espressione era usata per intendere qualcosa di molto più soft: se andiamo a leggere il Saggio sull'intelletto umano, di Locke (libro quarto, capitolo 17, paragrafo 21), troviamo la seguente definizione di ad hominem: "lo stringer dappresso un uomo con certe conseguenze tratte dai suoi principi o conclusioni". Potrebbe sembrare una mera e irrilevante questione linguistica, ma in realtà quel che intendo mostrare è che non c'è affatto soluzione di continuità fra il tipo di argomento descritto da Locke e gli altri, considerati più abusivi.

Da notare che Locke lo considera, insieme agli altri descritti nello stesso capitolo (argumentum ad verecundiam, cioè ad auctoritatem, e ad ignorantiam), proprio come un modo imperfetto di argomentare, sebbene lo faccia con parole molto più sfumate dei detrattori di oggi: "né, dal fatto che altri mi abbia dimostrato che sono su una via errata, consegue che egli sia nella giusta. […] Tutto questo, forse, potrà predispormi a ricevere la verità, ma non mi aiuta ad ottenerla: la conoscenza deve provenire da prove ed argomenti, e la luce deve sorgere dalla luce delle cose stesse, e non dalla mia timidezza, ignoranza od errore". Si tratta, qui, di un punto epistemologico assai delicato del quale lo stesso Locke sembra sottovalutare la complessità: com'è possibile, infatti, ricevere la conoscenza dalle cose stesse? Quello con cui noi abbiamo a che fare per procedere sulla via della conoscenza, il materiale di partenza, è sempre costituito da opinioni precedenti, non da verità che troviamo già confezionate e che si trovano al di fuori di noi. Non è che possiamo uscire da noi stessi per confrontare la nostra opinione sul mondo col mondo stesso. Ugualmente nel discutere con qualcuno non possiamo indicargli la verità (non siamo Gesù), possiamo solo mostrargli che è in errore.

L'argomento ad hominem così descritto, se ci si pensa, non è altro che il metodo socratico per eccellenza, l'elenchos, alla base della celebrata maieutica: "l'elenchos nel senso più ampio significa esaminare una persona con riguardo ad una affermazione che essa ha fatto, ponendole domande che richiedono ulteriori affermazioni, nella speranza che essa voglia determinare il significato e il valore di verità della sua prima affermazione. Il più delle volte il valore di verità atteso è la falsità, e così l'elenchos nel senso più stretto è una forma di confutazione" (R. Robinson, Plato's earlier dialectic). Ci si attende, in altre parole, che l'interlocutore riconosca la validità del principio, questo sì genuinamente logico, di non contraddizione. Certo, mostrare che le opinioni di una persona sono incoerenti non significa ipso facto dimostrare la verità di una specifica proposizione, per cui è legittima la questione se un tale metodo conduca effettivamente alla conoscenza, e perché dovrebbe farlo. Non possiamo certo qui esaurire l'argomento, ma possiamo forse accennare al fatto che da tale indagine, e con i suoi tentativi di risposta, Platone ha iniziato il grande cammino della filosofia occidentale.

Ribadisco: quando discutiamo con una persona intorno a un tema specifico non abbiamo a che fare con verità preconfezionate cadute dal cielo, ma ciò con cui lavoriamo sono sempre le opinioni dell'interlocutore (e le nostre) delle quali mettiamo alla prova la coerenza. Questo significa che non esista un argomento effettivamente usato che non sia in un certo senso ad hominem. Prendiamo uno dei casi di presunta fallacia più citati, il tu quoque o appello all'ipocrisia "in cui si cerca di gettare discredito sulla tesi del proprio avversario sostenendo che non agisce o non ha agito in modo coerente con ciò che sostiene" (F. Rende). Ad esempio se qualcuno difende lo stile di vita vegetariano per motivi animalisti ma gli facciamo notare che indossa abiti di pelle. Dice sempre Rende che "l'incoerenza di chi propone una tesi, infine, non ha nulla a che vedere da un punto di vista logico con la tesi in questione e la discussione dovrebbe vertere sulla tesi proposta e non su vizi e virtù di chi la propone".

Certo, questo sarebbe verissimo se il nostro scopo fosse quello di derivare logicamente conclusioni vere dalle premesse: non esiste relazione di implicazione logica fra "Tizio indossa abiti di pelle" e "la tesi di Tizio per cui è sbagliato uccidere animali allo scopo di cibarsene è sbagliata", quindi dimostrare che Tizio è incoerente non serve a dimostrare che le mie opinioni, contrarie a quelle di Tizio, siano corrette. Ma, aspettate un momento, forse si è perso di vista lo scopo del dibattito: io non devo essere convinto delle mie opinioni, non devo dimostrare a me stesso che sono corrette, perché, ehi, sono già le mie opinioni! In realtà il tu quoque assolve benissimo l'obiettivo, in una discussione, di spostare l'onere della prova riguardo a certe affermazioni sul nostro avversario dialettico. Tizio dice che il vegetarianesimo è giusto, affermazione sulla quale per ipotesi non si concorda: sta a lui mostrare come la sua opinione possa conciliarsi con altre sue idee o abitudini, o eventualmente abbandonarne alcune. Non sta a noi dimostrare a noi stessi qualcosa di cui siamo già persuasi senza che niente metta in crisi la nostra idea.

Andando avanti nella nostra disamina possiamo renderci conto che nemmeno il prendere di mira una persona che possiede una certa opinione, stavolta senza neanche preoccuparsi di esaminare in alcun modo le sue opinioni e la loro coerenza, possa essere sempre scorretto. "Caio sostiene che il bicarbonato cura il cancro", "sì, ma Caio è un povero idiota". Ricordiamo, il nostro scopo non è dimostrare teoremi, non è derivare conclusioni logiche da premesse secondo metodi deduttivamente validi; il nostro scopo è persuadere, e nel fare ciò dobbiamo lavorare con ciò che il nostro interlocutore ci offre, all'occasione usando la psicologia. Potrebbe darsi benissimo che il convincimento di qualcuno che il bicarbonato cura il cancro sia fondato sulla buona opinione che ha di Caio. In tal caso, mostrargli che Caio è un idiota potrebbe benissimo assolvere al nostro scopo con grande economia di mezzi, senza che dobbiamo metterci a fare test in doppio cieco sui trattamenti al bicarbonato a pazienti malati di cancro (che a rigore sarebbe l'unico modo per esaminare seriamente la questione).

In realtà a me sembra che il fatto che Caio sia scemo sia un motivo del tutto valido per non prendere in seria considerazione la sua opinione o perdere tempo ad esaminarla, benché naturalmente non vi sia una relazione di implicazione logica fra "Caio è scemo" e "la tale opinione (sostenuta da Caio) è sbagliata". Si analizzi il seguente dialogo: "che ore sono?", "l'orologio in salotto segna le 17:20", "ah, ma quell'orologio è fermo da anni", "scusa, ma questo è un argomento ad hominem, il fatto che l'orologio sia rotto non implica che non possano comunque essere le 17:20". Dire che Caio è scemo è del tutto equivalente a dire che l'orologio è rotto, o che la calcolatrice che stiamo usando per i nostri calcoli non funziona correttamente: significa che non è uno strumento affidabile e che è del tutto irrilevante ciò che possa affermare.

Al contrario, ha talvolta senso ricorrere all'argomento ad auctoritatem, che Locke chiama ad verecundiam perché si fonda sulla vergogna, l'imbarazzo che l'interlocutore potrebbe provare se messo a confronto con l'opinione di persone molto più autorevoli di lui. La vita è breve e se io voglio farmi un'opinione sull'opportunità di costruire centrali nucleari in Italia, anche al fine di esercitare i miei diritti di elettorato attivo, non credo di potermi mettere a studiare per anni la questione, quindi è razionale da parte mia affidarmi agli esperti, alle persone delle quali rispetto l'opinione, così come può essere razionale e pertinente, in un dibattito, esporre quale sia l'opinione del tale esperto al riguardo (il che naturalmente non vieta che il mio avversario possa avere informazioni ancora più complete del mio esperto).

La fallacia del piano inclinato consiste nell'assumere che, accettando un principio che di per sé parrebbe innocuo (ad esempio "è giusto che i gay possano sposarsi") si corre il rischio di dover accettare ulteriori conseguenze che invece ci appaiono indesiderate: "si comincia coi matrimoni gay, poi dovremo accettare anche la poligamia, poi le unioni incestuose e poi magari anche il matrimonio fra uomini e galline". Senza che nulla costringa ad accettare un simile argomento, ovviamente, non vedo neanche perché dovremmo considerarlo come fallace (se non nel senso, che abbiamo ormai visto irrilevante, che le conclusioni non seguono logicamente dalle premesse). Può darsi che il nostro interlocutore sia effettivamente spaventato dall'eventualità che vengano riconosciute le unioni con le galline, che debbano essere messi dei paletti estremamente rigidi per scongiurarla, e che ritenga che il matrimonio gay, di per sé legittimo, debba essere ostacolato in quanto avvicinerebbe questo esito drammatico.

Potrei continuare, gli esempi di fallacie abbondano, e di ciascuna è possibile trovare casi in cui si può ritenere lecito il loro uso, così come naturalmente casi di vero abuso. Ma vorrei qui dire un'altra cosa: quel che mi scoccia della fallaciofobia è che priva le discussioni di ogni divertimento, della stessa linfa vitale dell'argomentare, del lol. Se faccio una battuta di spirito durante un dibattito e ti senti per ciò ridicolizzato, mi dispiace, ma per favore, smettila di accusarmi di usare l'uomo di paglia e di essere per ciò disonesto: può darsi che abbia eccessivamente caricaturizzato il tuo punto di vista, ma credo che chi ascolta sia sufficientemente maturo e intelligente da capirlo senza che dobbiamo stare a insegnargli la logica, quindi lasciami giocare.

Se invece divento ingiurioso allora hai ragione a offenderti e darmi del maleducato, ma ancora una volta non capisco cosa c'entra la logica. L'insulto non è una fallacia, non è un argomento logico sbagliato, per il semplice motivo che non vuole affatto essere un argomento (può essere al massimo un sintomo del fatto che sono esasperato dalla tua ignoranza, oppure a corto di argomenti, o altro ancora). Se offendo tua madre perché non sono d'accordo con te riguardo l'opportunità di costruire centrali nucleari ti assicuro che esistono repliche migliori rispetto a "non conosci la logica, gne gne gne": tirarmi un cazzotto potrebbe essere una di queste, ma allora potrei farti notare che stai usando l'argomento ad baculum, se ancora riuscissi ad articolare o te ne importasse qualcosa.

Anche la violenza è una cosa brutta, ma non è necessario dire che non è logicamente valida per condannarla, questo sarebbe un esempio di quell'idolatria della logica, del pensiero razionale, che Feyerabend giustamente denunciava.

mercoledì 15 luglio 2015

il mondo in camera da letto


I due argomenti che sono andati più in voga nelle ultime settimane sono quello della presunta o reale ideologia gender e dei diritti civili delle persone omosessuali, in particolare in relazione ai cosiddetti matrimoni gay, legittimati in tutti gli Stati Uniti grazie a una sentenza della Corte Suprema, e quello del progetto dell'Unione Europea messo in forte crisi dalle difficoltà economiche della Grecia e dalle sue scelte politiche.

Qualcuno ha suggerito che questa potrebbe essere l'occasione per leggere o rileggere quel magnifico libro che è Middlesex di Jeffrey Eugenides, storia di un ermafrodita di origine greca nello sfondo di un'America attraversata dalle tensioni razziali, ma la fantasia dei commentatori non si è fermata qui, e in alcuni casi ha voluto vedere connessioni più profonde tra i due argomenti. Mi hanno colpito ad esempio alcuni post su Facebook del 'filosofo' Diego Fusaro (scusate gli apici, ma è davvero più forte di me) che dapprima ha mostrato poca simpatia per la causa dei diritti civili, e poi l'ha messa esplicitamente in contrasto con la lotta per la liberazione del popolo greco dal dominio del capitale e delle banche. Ovvero: quelli che vanno di moda oggi sono i diritti di persone già privilegiate, e tutto ciò non serve ad altro che a nascondere i veri rapporti di potere, quelli economici, lo sfruttamento del povero da parte del ricco.


È un ragionamento a prima vista alquanto bizzarro, sembrerebbe un tipico esempio di 'benaltrismo': "certo, è una vergogna che si discriminino certe categorie, ma allora le foibe? e i marò?" eppure un senso ci potrebbe essere, potrebbe davvero esserci un nesso tra i due argomenti. Il fatto è che io credo che, tutto sommato, Diego Fusaro abbia ragione, per quanto non condivida le sue scelte. Se facciamo una scelta per i diritti civili, per la libertà di ciascuno di vivere la vita che vuole, di andare a letto con chi vuole e nel modo che vuole, non possiamo tirarci indietro di fronte alle libertà economiche. La questione in fondo è sempre una sola: una collettività può imporre i suoi valori, i suoi interessi in quanto comunità, alle scelte dei singoli? può lasciare liberi i suoi cittadini di divorziare ma deve imporre il suo volere per quanto riguarda la gestione di un patrimonio privato, di un bene da scambiare, di un'impresa da condurre? E in base a quale principio?

Una mia amica pochi giorni fa mi ha detto che "il mondo non comincia e non finisce in camera da letto". È vero, ma forse da quello che è permesso fare in camera da letto si può misurare il grado di civiltà di un paese anche per quanto riguarda gli altri aspetti. Se vogliamo trovare correlazioni fra l'attuale crisi geopolitica e la questione dei diritti civili, potremmo sospettare non essere un caso che gli unici due paesi dell'Europa occidentale che non hanno ancora una legge che regoli le unioni omosessuali siano proprio i due paesi più esposti al debito pubblico, cioè Italia e Grecia. È vero che in America puoi avere problemi se hai deciso di non sottoscrivere un'assicurazione sanitaria, non essendo obbligatoria. In Russia due uomini non possono nemmeno passeggiare per strada tenendosi per mano senza finire aggrediti però nonostante le riforme post sovietiche le prestazioni sanitarie sono ancora in gran parte gratuite. Ognuno faccia la propria scelta (ma potrebbe aiutare sapere che in Russia l'età media è fra le più basse in Europa e la mortalità per malattie cardiovascolari tre volte più alta che negli Stati Uniti).

L'altro pensierino a commento dell'attualità è che come al solito i 'filosofi' incolpano l'economia e le leggi del mercato di cancellare le scelte politiche compiute dai popoli. Peccato che a ben vedere, e come emerge sempre più chiaramente, le decisioni che sono state prese in questi giorni hanno davvero poco a che vedere con l'economia in senso stretto e molto con la politica. Un'uscita incontrollata della Grecia dall'Euro non sarebbe stata nell'interesse di nessuna delle parti coinvolte, nemmeno delle banche tedesche. Così come persino il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito che una ristrutturazione del debito è inevitabile, se analizziamo freddamente i numeri. Gli interessi delle banche tedesche, però, sono stati schiacciati dai calcoli puramente elettorali dei politici che guidano la Germania. Così come il principio di realtà è stato obliterato in nome della volontà popolare nel momento in cui si è deciso di fare un assurdo referendum che avrebbe dovuto avere il magico effetto di annullare gli interessi dei creditori oltre che la volontà popolare di altri 18 paesi. Politica, politica, sempre politica. Credetemi, se lasciassimo che fosse solo l'economia a guidare le scelte collettive (ovvero se non ci fosse nessuno a prenderle) saremmo più liberi e più felici.

(questo post dovrebbe rispondere in parte anche alla domanda che mi poneva sempre la stessa amica di prima, ovvero quale idea ultima di società ho mente)

giovedì 25 giugno 2015

compiti per le vacanze estive 2015


Per un brevissimo periodo sono stato anch’io un insegnante. Anzi, è quello che pensavo che avrei fatto nella vita, se invece il destino o la fortuna non avessero preparato per me un mestiere, se non più bello e gratificante, certo meno stressante. Però a volte mi capita ancora di pensarmi come un insegnante, quindi anch’io ho voluto preparare un elenco di compiti che dei miei eventuali studenti potrebbero svolgere durante le vacanze estive. Compiti, o meglio preziosi consigli dei quali fare tesoro non solo durante le vacanze, ma possibilmente per tutta la vita. 

1) Prima di tutto curate la forma delle vostre espressioni: la forma è sostanza, nessuno vi prenderà mai sul serio quando scrivete qualcosa che vorreste la gente leggesse e meditasse, se poi fate l’errore madornale di usare il font comic sans; oppure se centrate il testo invece di giustificarlo o almeno allinearlo a sinistra; o se alla fine di ogni elemento di un elenco a volte decidete di mettere il punto e a volte invece no. Non è che darete l’impressione di essere persone sciatte e poco curate, quindi poco serie, ma vi mostrerete effettivamente per persone sciatte, poco curate, non serie e superficiali.

2) Curate anche il vostro linguaggio propriamente detto. Non mettetevi ad appiccicare qualsiasi aggettivo dall’apparenza vagamente lirica a qualunque sostantivo credendo così di raggiungere una maggiore poeticità. Non dite cose come “luce sfavillante” se non strettamente necessario, non abusate di espressioni figurate quali “allegro come il sole”, “indomabile come il mare”, non esagerate coi superlativi (non dite “siate educatissimi” quando è sufficiente essere educati), e soprattutto non abbondate troppo in metafore e similitudini: “leggendo vi sentite simili a rondini in volo”, “l’estate è una danza”, “l’estate sarà la volta dorata”. A meno che non siate Eugenio Montale, apparirete solo dei deficienti.

3) Inoltre, evitate i luoghi comuni come la morte, cercate di non essere banali, anche nel vostro linguaggio (vedi punto due). Aborrite le associazioni d’idee troppo scontate, come la spiaggia, l’alba, e il sole che si riflette sul mare, i sogni sul futuro e la forza di realizzarli, le frasette da Bacio Perugina insomma. Non siate schiavi di un immaginario che non è vostro, non limitatevi ad essere megafoni della insincerità che vi circonda, riflettete prima di parlare o di scrivere, pensate davvero a quello che state dicendo, chiedetevi se vi rappresenta, se rappresenta quel che credete o sentite. Non mettetevi a condividere qualcosa su Facebook per l’unico motivo che lo fanno tutti, o perché tocca una corda troppo facile, sia sul piano dell’indignazione che su quello dello stucchevole sentimentalismo (sono due facce della stessa medaglia).

4) Nel rapportarvi con gli altri siate gentili, ma evitate di essere paternalisti e indulgenti. Non mettetevi a dare consigli non richiesti, o peggio ancora non mettetevi a consigliare qualcosa che uno farebbe già di sua volontà come se ci fosse bisogno di voi per pensarci: “ballate”, “respirate”, “leggete ma non perché dovete”, “siate allegri”, “divertitevi”, “guardate film”. Mettetevi nella prospettiva di pensiero che gli altri non hanno tutta questa necessità di farsi dire proprio da voi cosa vogliono o devono fare. Semmai, nel caso in cui è proprio il vostro ruolo – professionale o altro – che vi mette nella posizione di poter dare consigli o addirittura prescrizioni, allora prendete seriamente quel ruolo e date consigli sensati, anche quelli che potrebbero non essere graditi.

5) Non fidatevi mai di nessuno che abbia più di trent’anni, anche se si comporta come un ragazzo poco cresciuto e si presenta come vostro amico. Gli adulti non sono come voi, non vi possono realmente comprendere. Ascoltateli e rispettateli, perché può esservi utile, ma non apritevi, non fatevi fregare. Siete già fregati dalla vita, perché diventerete come loro. Alcuni di voi riusciranno ad accettarlo, altri no, e allora si metteranno ad atteggiarsi da adolescenti, a spararsi le pose da bimbominkia sapienti. Ma voi lo sapete, non è un bello spettacolo.

6) Studiate, mocciosi del cazzo.

mercoledì 10 giugno 2015

contestare l'autorità


Circa un anno fa, quando avevo cominciato ad occuparmi della questione dell'obbligo scolastico, avevo scritto, a proposito dei fautori della descolarizzazione dei decenni passati, come Ivan Illich (autore del classico Descolarizzare la società), che ciò che mi distanziava da quei pensatori era il loro progetto sovversivo, la loro idea che la società industriale e capitalista dovesse essere profondamente trasformata o rovesciata, a differenza del mio conservatorismo, la mia volontà di conservare l'esistente e salvarlo dalla rovina incombente. Tutto sommato si trattava di una formulazione volutamente provocatoria e un po' scherzosa: ehi, ragazzi, in fondo sono anch'io un rivoluzionario, andiamo a fare bordello!

Più seriamente, qui vorrei affrontare l'eredità di certi vecchi maestri del pensiero anarchico (non sono solo, in questo processo di valutazione dell'eredità), di certe utopie antistataliste al tempo stesso contrarie al progresso e al capitalismo. Perché qui si nasconde forse l'antinomia di certe concezioni libertarie: perché in nome della libertà dovremmo anche combattere le forze del mercato e del progresso scientifico, le quali, almeno intuitivamente parlando, sono dei veicoli di libertà, forze che ci emancipano dai bisogni primari come la fame e da ataviche disgrazie come la malattia? E come si può costringere il prossimo ad essere "libero" secondo la nostra idea peculiare di libertà senza in realtà dominarlo?

Illich è il caso più esemplare di questa contraddizione che in realtà ritroviamo spesso nei pensatori anarchici di sinistra, senza arrivare a certe estreme conseguenze (penso ad esempio a Colin Ward): egli ambisce a una società "conviviale", dove la persona integrata con la collettività utilizza gli strumenti frutto del progresso tecnologico in modo autonomo, sottraendoli al monopolio di pochi specialisti che tengono tutto sotto controllo: tecnocrati che oltre a decidere le modalità di accesso al benessere stabiliscono anche la misura del benessere e della ricchezza, della felicità e del disagio, illudendo l'uomo moderno di poter soddisfare i suoi desideri ma in realtà creando in continuazione nuovi bisogni e nuove dipendenze. Nella società conviviale invece "prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni" (cfr. La convivialità). Esempi di strumenti il cui uso ha contribuito a impoverire l'uomo invece di arricchirlo sono, per Illich, i mezzi moderni di trasporto e la moderna medicina, oltre che le tecniche dell'educazione.

Contemporaneamente Illich promuove un'etica del limite, che appunto dovrebbe invitare l'uomo a usare i mezzi con parsimonia, con "austerità" anzi, a usare la bicicletta invece dell'automobile, o ad accettare la propria mortalità senza curarsi troppo della salute. Il problema, qui, è che non si capisce chi dovrebbe stabilire questi limiti, se non un dittatore benevolo, e in che modo si potrebbe costringere la gente a non usare l'automobile senza fare uso dell'autorità. Forse meglio tacere riguardo al discorso sulla medicina (nel libro Nemesi medica), dove l'invito di Illich alla passiva rassegnazione e all'accettazione del dolore, per quanto forse in sintonia con il costante sfondo religioso del suo pensiero, non può non apparire profondamente cinico ed immorale, e conservatore nel peggior senso del termine (vi è da riconoscere una certa coerenza almeno sul piano personale, visto che Illich rifiutò di curare il proprio stesso tumore).

D'altra parte Colin Ward nei saggi che compongono il suo Anarchy in Action elogia l'ordine spontaneo contro l'autoritarismo statale, in un libro che intende contrastare l'immagine dell'ideologia anarchica come utopica ed innocua fornendo invece esempi di organizzazione spontanea e non coercitiva già esistenti, mostrando che l'anarchia non è esclusivamente un progetto ma è già realtà in molti contesti basati sul solidarismo e la mutua assistenza senza imposizioni esterne (i sindacati di base, i gruppi di acquisto solidale, il movimento di occupazione delle case). Il punto è che fra questi esempi, che ovviamente piacciono ai decrescisti, avrebbe potuto metterci anche il libero mercato e il capitalismo, mentre profitto e culto delle merci compaiono invece tra le forze distruttive, disgregatrici della convivialità.

Anche in epoche più recenti, è diventato un luogo comune scagliarsi contro le forze del mercato che stravolgendo e oltrepassando le stesse regole del consenso democratico minaccerebbero la libertà. Idea stramba: se qualcosa minaccia la libertà dell'individuo è proprio la dittatura della maggioranza sotto la veste democratica. In realtà si può dire che "il mercato siamo noi" ben più che lo Stato, nel senso che nel libero mercato non c'è (non dovrebbe esserci) nessun potere che prende decisioni sopra la testa degli individui, ma il suo funzionamento e le sue dinamiche dipendono da miriadi di micro-decisioni individuali che si combinano in maniera spontanea, naturale. Ciò che talvolta sembra schiacciarci e dominarci non è che questo anarchico processo di decisione collettiva che appunto sfugge al controllo di qualsiasi potere individuale, nei suoi pro e nei suoi contro (il problema, nel voler controllare il processo, è che diventa subito evidente per chi sono i pro e chi subisce i contro: di solito i pro stanno dalla parte dei controllori).

In effetti, poi, non è troppo difficile trovare una certa giustificazione alla contraddizione, che rimane reale: quello contro cui protestava Illich non è il progresso in sé, non è la scienza medica, né l'istruzione in sé, ciò contro cui lottano gli anarchici di sinistra non è la ricchezza e il libero scambio delle merci, ma è la appunto la burocratizzazione del progresso, il suo impossessarsene da parte degli apparati di potere, statali e non, e il trasformare quindi quella che dovrebbe essere una forza emancipatrice, portatrice di libertà, in una nuova occasione di controllo e sottomissione degli individui da parte di un potere sempre più onnipresente e onnicomprensivo.

Cercando di non scadere in uno di quei discorsi complottisti alla Big Pharma, occorre ammettere che questo è abbastanza valido anche per il settore sanitario, il cui attuale ipertrofismo è solo in parte giustificato da una legittima e sacrosanta domanda di salute. Ovvero c'è effettivamente da chiedersi se non siamo andati verso un'eccessiva medicalizzazione della società che valuta e investe ogni aspetto dell'esistenza sotto il profilo della salute e della malattia, laddove inoltre nuove malattie vengono inventate ogni giorno allo scopo apparente di alimentare le fobie della popolazione, e comportamenti una volta normali vengono adesso classificati come patologici. Questo sembra particolarmente vero per quanto riguarda la salute mentale: ogni minimo segno di disagio esistenziale oggi viene classificato nel DSM e considerato degno di attenzione da parte di una classe di professionisti iscritti all'albo, ai quali si è costantemente invitati a rivolgersi per farci esaminare e valutare. Attraverso il nostro continuo affidarci agli specialisti del benessere abbiamo deciso di rientrare nello stato di minorità a noi stessi imputabile.

Il discorso vale, in realtà, anche per il capitalismo: altro che laissez faire, oggi la maggior parte delle persone del pianeta crede (senza minimamente rendersi conto della contraddizione) che il neoliberismo sia un'emanazione del potere di istituzioni diaboliche come le Banche Centrali le quali, lungi dal lasciar fare, si arrogano la pretesa di fissare arbitrariamente valori come il costo del denaro, di intervenire sull'economia manipolando grandezze come l'inflazione e i tassi d'interesse, peraltro in genere andando incontro a un fallimento dietro l'altro nei loro propositi.

Il discorso vale ovviamente per la scuola laddove se è possibile ragionare in termini di costi e benefici come si è fatto per la sanità, e ammettere che i benefici dell'istruzione sono molti, probabilmente superiori ai costi – che pure esistono, in termini di omologazione ideologica e culturale, di addestramento all'obbedienza, di manipolazione dall'alto della libera diffusione delle idee – non c'è niente che possa giustificare da un punto di vista etico l'obbligo scolastico. Siamo tutti grati alla medicina quando è in grado di curare le malattie, ma non siamo arrivati al punto in cui si considera lecito obbligare il prossimo a curarsi come noi vorremmo che si curasse, anzi, si considera una battaglia liberale l'esatto contrario. Qualcuno adesso obietterà qualcosa intorno alla vaccinazione obbligatoria, ma non mi sembra un paragone adatto all'istruzione: se è il contagio che temiamo, basta ricordare che è la cultura ad essere contagiosa, non l'ignoranza. Quindi l'obbligo assolve esattamente al suo compito di evitare il diffondersi di certe forme culturali non gradite all'establishment.

So che rischio di essere monotono, ma la soluzione per tutti questi problemi è a portata di mano: è il libero mercato (quando davvero libero, non gestito da burocrati). È una forza che del resto già sta esercitando il suo potere, come risulta dai continui richiami alla perdita di sovranità che gli stati lamentano, pressati da esigenze finanziarie che pretenderebbero di risolvere per decreto (come se si potessero decidere a colpi di maggioranza anche i principi dell'aritmetica). È comprensibile il disorientamento, lo spavento, ma dovremmo gioire di fronte a questa perdita di monopolio del potere. Dovremmo gioire del fatto che il progresso tecnologico rende davvero possibile quella convivialità, quella libertà di usare gli strumenti con piena autodeterminazione che una volta sembrava davvero utopica.

E qui torniamo a quella straordinaria agenzia educativa di tipo completamente nuovo che è Internet, e a Michele Serra, che un anno fa si chiedeva, tremolante, "Facebook è l'unico club al quale è obbligatorio essere iscritti?". No, Michele, nel caso non sarebbe l'unico, ma non è affatto obbligatorio, ed è il suo bello: sembrerà difficile da credere ma quelle centinaia di milioni di persone che lo usano lo fanno semplicemente perché lo vogliono, non perché qualcuno li costringa. Non ti piace che Zuckerberg sappia tutto di te e dei tuoi amici? semplicissimo, non dirgli niente, non è come l'anagrafe dove uno è davvero obbligato a registrarsi e a dire la verità. Volendo puoi scegliere di iscriverti a un altro social network, puoi persino progettarne uno di tuo gradimento e metterti a fare concorrenza a Zuckerberg. Ma se ti mette a disagio il fatto che una maggioranza di persone sceglie uno strumento che a te non piace non ti stai lamentando per una tua privazione di libertà, stai deplorando la libertà degli altri.

Anche se credo che se Ivan Illich fosse vivo oggi starebbe tutto sommato dalla parte di Serra e contro Facebook. Ma questo perché in fondo era un conservatore. Sul serio.

domenica 24 maggio 2015

stay humean


Fra le cose per cui il filosofo scozzese David Hume è noto c’è la cosiddetta “legge di Hume” per la quale non si può far derivare il dover essere dall’essere, ovvero dalla descrizione di uno stato di cose non si può passare a una prescrizione riguardante le cose come dovrebbero essere. Per l’esattezza questa sorta di divieto è formulato nella sua opera con queste parole, come possiamo vedere un po’ meno categoriche:

“In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l'autore va avanti per un po' ragionando nel modo più consueto, e afferma l'esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è o non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti” (Trattato sulla natura umana, libro terzo, sezione prima).

Diciamo che normalmente la legge di Hume viene usata per criticare quel complesso di argomenti, in realtà piuttosto variegato, noto come fallacia naturalistica, i quali pretendono appunto di derivare degli insegnamenti morali dalla descrizione del modo in cui stanno le cose: “gli accoppiamenti omosessuali sono contro natura e quindi da vietare”, “in natura la donna è sempre sottoposta all’uomo e così deve essere”, eccetera. Ma aldilà di queste parodie di argomenti, Hume è spesso anche considerato come un avversario delle dottrine – più raffinate – del giusnaturalismo, la teoria secondo la quale le norme del diritto positivo devono essere modellate intorno a un diritto naturale preesistente, in qualche senso di “naturale”, che potremmo riassumere come “conforme ai canoni della ragione eterna e universale inscritta nel cosmo”.

Nonostante l’effettivo e noto scetticismo di Hume intorno a queste norme eterne e universali, però, sembra sbagliato fare del filosofo scozzese un campione delle teorie avversarie del giuspositivismo, secondo le quali ogni diritto è “positivo” ovvero esclusivamente frutto della volontà dell’uomo che crea e impone le sue norme. Anche perché a questo punto ci si potrebbe chiedere se la legge di Hume consiste in una pura constatazione o in una prescrizione: ovvero, dalla constatazione di una mancanza di nesso logicamente necessario fra il modo in cui le cose stanno e il modo in cui dovrebbero essere, come può seguire senza contraddizione un divieto di far derivare la legge morale, o il diritto, dalla natura? 

In realtà lo scetticismo di Hume è appunto uno scetticismo a tutto campo, che difficilmente riesce ad oltrepassare la critica demolitrice per costruire e proporre teorie alternative. Cosa che avverrà con l’utilitarismo di Bentham, il quale trasforma appunto la teoria naturalistica di Hume intorno ai sentimenti morali, che vorrebbe essere puramente descrittiva, in una teoria esplicitamente e puramente prescrittiva: non solo il fine delle azioni dell’uomo è, solitamente, la felicità, ma la massima felicità del maggior numero di persone dev’essere lo scopo ultimo delle azioni umane nonché della società. Anche in campo giuridico la sfiducia nel diritto naturale si trasforma nell’attribuzione dell’intera costruzione delle leggi che regolano la convivenza sociale alla sola volontà del sovrano, che legifera e progetta avendo sempre a cuore, ovviamente, la massima felicità del maggior numero.

La posizione di Hume è, in verità, quella di uno spartiacque delicatissimo fra l’ingenua fiducia nella capacità della natura stessa di mostrare le sue leggi morali e giuridiche – che l’uomo avrebbe il solo compito di scoprire e mettere in pratica – e la fiducia – altrettanto se non maggiormente ingenua – nelle capacità ingegneristiche umane, capaci di creare ex novo le regole in grado di garantire al maggior numero la massima felicità. Ma sarebbe facile mostrare come in Hume non vi sia affatto un rifiuto netto e totale dell’appello alla natura, bensì una diversa declinazione di questo rispetto alle prime formulazioni del giusnaturalismo: se “lo stato di natura” dal quale avrebbe origine il contratto sociale è pura finzione narrativa, artificio retorico, questo non significa che i contenuti della “convenzione” che secondo Hume stringe la società siano, oltre che convenzionali, arbitrari o capricciosi e irrazionali.

“Quando nego che la giustizia sia una virtù naturale, uso la parola naturale esclusivamente come contrapposta ad artificiale. In un altro senso della parola, così come non vi è non vi è nessun principio della mente umana più naturale del senso della virtù, così nessuna virtù è più naturale della giustizia. La capacità inventiva è propria della specie umana, e quando un’invenzione è ovvia e assolutamente necessaria, la si potrà correttamente giudicare naturale come tutto ciò che deriva immediatamente dai principi originari senza l’intervento del pensiero o della riflessione. Sebbene le regole della giustizia siano artificiali, esse non sono arbitrarie; né è improprio chiamarle leggi di natura, se per naturale intendiamo ciò che è comune a una specie o addirittura se limitiamo questa parola a significare ciò che è inseparabile dalla specie” (Ricerca sui principi della morale).

La metafora usata è quella dei rematori che devono condurre una barca: sebbene essi debbano per forza di cose accordare i loro movimenti tra di loro, e perciò l’accordo – che nasce dalla loro volontà – non ha in questo senso nulla di naturale, non è necessario che si pervenga a nessun patto esplicito e soprattutto questo non significa che i rematori potrebbero davvero decidere altrimenti, ma il loro accordo nasce in maniera spontanea, “naturale”, dalla concreta realtà della situazione in cui si trovano.

In realtà le dottrine giuridiche di Hume sembrano smentire, a una attenta lettura, quella legge sulla quale si è fondata tanta meta-etica e tanto normativismo giuridico: lo scopo della ricerca humeana in fondo è proprio quello, se non di giustificare e difendere le norme etiche e giuridiche in base alla sua descrizione della natura umana, quello di darne comunque conto e di spiegarle, quindi di mostrare l’emergenza del dover essere dall’essere. In altre parole se il dover essere non può esser fatto derivare dall’essere, è perché le due cose sono inseparabili, descrizioni e prescrizioni sono intimamente legate, il dover essere emerge naturalmente dall’essere, e in ogni caso non può risultare sospeso in una sorta di puro regno delle norme non collegato a nessuna realtà fisica o sociale.

Ne è del resto la riprova il paragone effettuato da Hume dell’ambito giuridico con quello linguistico o quello economico, entrambi esempi abbastanza chiari del come la prescrizione, la norma, nasce da realtà se vogliamo in un certo senso convenzionali ma non arbitrarie, non a disposizione di chi voglia mutare la norma, imporla dall’alto della sua scienza, senza tener conto delle suddette realtà. “Analogamente, anche le lingue si sono gradualmente stabilite grazie a delle convenzioni umane e senza alcune promessa; e analogamente l’oro e l’argento sono diventate le comuni misure di scambio e sono considerate pagamento sufficiente per ciò che ha cento volte il loro valore” (Trattato).

Bentham costituisce ancora una volta un confronto chiarificatore, dal momento che nella sua dottrina proprio l’insistenza su una riforma del linguaggio, che deve eliminare qualsiasi ambiguità e qualsiasi riferimento a termini “non reali”, non empiricamente osservabili, svolge un ruolo centrale e anzi fondativo rispetto alle dottrine etiche e giuridiche. L’ossessione del rigido controllo normativo da parte di Bentham parte così dal sogno della riforma del linguaggio quotidiano per approdare, come sappiamo, all’antiutopia del panopticon, in modo certo non casuale e forse inevitabile (personalmente diffido sempre di chi pretende di cominciare una discussione con un preliminare chiarimento terminologico, che dovrebbe far piazza pulita di qualsiasi equivoco, ma che a dire il vero dovrebbe essere conseguente alla discussione).

Persino nella famosa discussione intorno alla causalità si può vedere in Hume il medesimo atteggiamento: Hume nega che sia possibile osservare nessi causali nei fenomeni naturali, che qualcuno abbia mai osservato qualcosa di più di una mera successione di eventi. Non c’è niente che giustifichi la nostra fede nell’induzione, questa è solo un abito mentale, una sorta di superstizione, ma con ciò Hume non ci invita certo ad abbandonarla, ben consapevole che si tratta dell’unica cosa che abbiamo, e che oltre c’è solo il salto nell’irrazionale vero e proprio (si potrebbero poi indagare, se ciò non andasse oltre lo scopo di questi appunti, i legami della concezione frequentista-oggettivistica della probabilità con l’utilitarismo classico).

Si potrebbe anche sostenere, per concludere, che con Hume il diritto naturale torna ad essere quello che già era prima della sua fortunata formulazione (o tradimento) da parte dei giusnaturalisti, ovvero quel che era nella scolastica medievale. Un diritto che viene sì dalla natura, o addirittura da Dio, ma che non dimentica l’uomo, la sua storia, le sue consuetudini e la sua concreta esistenza.

giovedì 19 marzo 2015

e niente


Fino al 1990 c’era un cinema, nel quartiere nel quale vivo, che è una leggenda. Il Cinema Universale era un cinema d’essai, si proiettavano ogni giorno grandi classici della cinematografia, ma non era un posto frequentato prevalentemente da fini e distinti intellettuali e di solito non era previsto il dibattito alla fine del film. Semmai, qualche scazzottata durante.

Io ero troppo giovane per frequentarlo assiduamente (e comunque non abitavo così vicino), credo di esserci stato un paio di volte (una volta vidi Kagemusha di Kurosawa). Ma non ero troppo giovane per sapere che quel cinema era una leggenda già all’epoca, per sentir raccontare storie e aneddoti continui su quel che vi accadeva, e quindi per sapere che era un posto forse unico al mondo, dove accadevano cose che non sarebbero potute accadere altrove, e che dopo la chiusura del cinema non sarebbero accadute mai più.

Prima che il film iniziasse, si potevano vedere i segni lasciati dai continui lanci di scarpe sullo schermo, se si riusciva a penetrare la densa cortina creata dal fumo di sigaretta (di tabacco e non solo). Appena il film iniziava, invece, cominciava il delirio vero. Diciamo che non era il posto adatto se uno voleva seguire tutti i dialoghi con attenzione senza perdersi nemmeno una battuta. In realtà, e come tutti sapevano (a parte gli sfortunati capitati lì per sbaglio) il film era solo un pretesto, e lo scopo di pagare il biglietto (quando lo si pagava, perché pare che vi fossero modi di aggirare l’odioso balzello) era il cazzeggio puro.

Immaginate un cinema pieno di persone che per due ore di proiezione non fanno che urlare i peggiori epiteti e volgarità in fiorentino ai personaggi del film, accompagnate da scrosci di applausi fischi o proteste varie. A quanto pare gli schiamazzi erano tali che talvolta erano costrette a intervenire anche le forze dell’ordine, come in quell'episodio, non si sa appunto quanto leggendario, in cui al termine della proiezione di Fragole e sangue, dopo la scena finale del pestaggio degli studenti da parte della polizia, al riaccendersi delle luci gli spettatori si trovarono circondati da celerini. Altre leggende circolavano: la più famosa, con numerosissime varianti, quella del tizio che entra a film iniziato in Vespa, fa il giro della sala, forse più volte, e poi se ne esce trionfante. In altre occasioni le proiezioni furono animate dalla compagnia di animali liberati in sala nei momenti topici: piccioni, o ranocchi. Era normale, uno mentre passeggiava in campagna vedeva dei ranocchi e poteva pensare “sai che? questi li raccolgo in un sacco e stasera li porto al cinema”.

Quel che rendeva speciale l’esperienza dell’Universale, ovviamente, non stava nella spazio in sé, così come non era l’offerta cinematografica (pure interessante), ma era la comunità di persone che animavano quello spazio, arricchendolo e venendone a loro volta arricchiti. Una comunità con i suoi rituali, con i suoi personaggi di spicco, con i suoi modi di dire. Ogni volta che iniziava il film, ad esempio, era usanza che qualcuno si mettesse a gridare forte “COM’È LA GRAZIELLA?” (la cassiera), e che tutti i presenti rispondessero in coro “TROIAAA!”. Oppure “COM’È ROMANONE?” (la maschera, fra l’altro un vero avanzo di galera), e tutti “BUCO!”. Se due personaggi, in un film d’amore, si lasciavano andare a qualche tenera effusione, venivano subito richiamati a una maggiore concretezza dal popolo presente: “MACCHÈ BACINI E BACINI, BUTTAGLIELO NEL CULO!”. Il neologismo più celebre, rimasto nella memoria collettiva, pare fosse occasionato dalla più nota scena di Ultimo tango a Parigi, quella dove insomma Marlon Brando fa le cose con la Schneider: un genio gridò “ABBURRACCIUGAGNENE!”.

Come in tutte le comunità non regnava certo l’amore universale, ma poteva anche capitare che qualcuno si sentisse escluso. Partecipare alle attività in maniera attiva non era una cosa scontata, bisognava in qualche modo farsi accettare. Per quanto l’umorismo non fosse di livello proprio raffinato, occorreva pur sempre avere la battuta pronta e soprattutto divertente da sfoggiare al momento giusto, non è che andasse bene tutto. Una battuta debole, urlata da un novizio, poteva pure esporlo al pubblico ludibrio. Anche le liti erano abbastanza normali. Eppure anche questo alla fine contribuiva a rendere più ricca l’esperienza di chi ci andava, il conflitto fa parte in fondo della vita di qualsiasi comunità, che cresce e si evolve imparando a gestirlo. Si trattava, poi, di una comunità in trasformazione, attraversata dai grandi cambiamenti che avvenivano intanto nella più grande comunità che la includeva, quella italiana, che passava dalle contestazioni e dall’impegno politico degli anni ’70 al riflusso del decennio successivo, con l’esplodere del problema della droga (abbondantemente percepito nella microcomunità), e il rifugio nichilista nel disimpegno, nell’umorismo cinico un po’ fine a se stesso.

Così tutti i fiorentini insomma, quel 30 dicembre 1989 in cui il cinema chiuse i battenti, non poterono non sentirsi tristi, persino quelli che non ci erano mai stati, perché sapevano bene che finiva un’esperienza irripetibile, un microcosmo unico, come lo sono tutte le comunità più vive, irripetibile perché non si sarebbe mai riprodotto l’insieme di circostanze storiche, socioculturali e antropologiche che determinarono quell’esperienza. E infatti non avrebbe senso tentare di ripeterla, i cinema non sono più quelli di una volta, le modalità di fruizione sono cambiate, anche i film non sono gli stessi, e soprattutto, anche a prescindere da tutto ciò, le persone non sono le stesse, il quartiere stesso è cambiato (meno, si può forse rivendicare, di altre parti della città). Sul cinema Universale si può leggere un libro di Matteo Poggi, Breve storia del Cinema Universale, appunto, o guardare il documentario girato da Federico Micali (che ha anche un progetto in crowdfunding per un film di fiction).

Il 9 aprile prossimo sarà un altro giorno triste, perché segnerà la fine di un’altra comunità. FriendFeed era un social network (in realtà inizialmente progettato soprattutto come aggregatore) nato nel 2007, che per un insieme di circostanze a me non chiarissime (forse un’interfaccia davvero semplice, elegante e funzionale) cominciò ad attrarre quelli che, alla fine del decennio scorso, erano i blogger italiani più in vista, che a loro volta funsero da polo di attrazione per molti altri utenti che desideravano semplicemente essere presenti in quello che era percepito come un luogo dell’internet dove accadevano le cose, dove occorreva essere. Accadde poi che nel 2009 Facebook si comprò FriendFeed (allo scopo, pare, di incorporare alcune features del suo codice) e che da quel momento FriendFeed diventò un social network agonizzante, lasciato a se stesso dai suoi sviluppatori, non più aggiornato, ma pur sempre funzionante.

Queste sono le condizioni che hanno probabilmente consentito la creazione di una comunità virtuale né troppo piccola né troppo grande – credo che gli utenti attivi italiani, che insieme ai turchi erano i maggiori frequentatori del socialino, non siano mai stati più di qualche migliaio, negli ultimi tempi eravamo forse nell’ordine delle centinaia – in grado di di percepirsi appunto come “villaggio” la cui composizione e le cui caratteristiche erano in parte casuali e imprevedibili in parte frutto di consapevoli ma non meno caotiche scelte degli abitanti, in grado di cercarsi fra di loro e di autoselezionarsi, ma di poter seguire anche quello che accadeva in gruppi più distanti e remoti. Amici o nemici, insomma, ci conoscevamo tutti (o quasi).

Occorre intendersi: FriendFeed non aveva probabilmente niente di davvero unico e originale, se non nel senso in cui qualsiasi comunità appunto è un unicum antropologico. Nessuno può davvero intenderne le caratteristiche senza averci vissuto, ed è probabile che a nessuno possa davvero interessare senza questa stessa condizione, motivo per cui ho un po’ esitato a scrivere quest’epitaffio, decidendo infine che niente mi vieta di fare un uso intimista del blog. Il fatto, puro e semplice, è che gli sviluppatori dopo anni di felice abbandono nel quale ci hanno lasciato piena libertà (cosa per la quale siamo loro grati), hanno deciso come è loro diritto di liberare spazio sui loro server, e quindi questa comunità verrà rasa al suolo.

Anche noi avevamo il nostro gergo specifico, le nostre usanze, i nostri esponenti di spicco e i nostri scemi del villaggio. Abbiamo coltivato le nostre amicizie (che non mi vergogno di definire tali anche quando puramente virtuali), qualcuno ha persino trovato l’amore. Abbiamo litigato e abbiamo fatto le nostre brutte figure parlando dei più svariati argomenti, oppure le brutte figure le abbiamo fatte fare ad altri. Una cosa bella del socialino, in effetti, è che non faceva davvero sconti a nessuno; caratteristica, questa dell’estrema aggressività, che lo faceva anche odiare e che ha spinto molti ad abbandonarlo con rancore. Abbiamo avuto i nostri traumi collettivi (non parlate a un friendfeeder di parti plurigemellari) e i nostri momenti di gloria o di delirio collettivo, siamo cresciuti e siamo cambiati, qualcuno è anche morto. Insomma è il luogo dove passavo il mio tempo.

Adesso che esiste una precisa scadenza c’è chi cerca di riorganizzarsi migrando altrove, addirittura creando da capo cloni del vecchio FriendFeed. Sono tentativi generosissimi che fanno anche comprendere il grado di affezione che legava gli utenti gli uni agli altri, e ai quali auguro il successo, ma non sono persuaso che sia possibile far rinascere ciò che, giustamente, a un certo punto deve morire. Tutto quel che ho da dire è che abbiamo una storia, per noi è importante, qualcuno forse si ricorderà di noi.

giovedì 12 febbraio 2015

Darwin finalista


In un post di qualche anno fa avevo scritto che a mio avviso la più importante conseguenza culturale della rivoluzione darwiniana consisteva nella sconfitta del pensiero essenzialista di stampo aristotelico, almeno in quanto applicato alla biologia, e  avevo cercato di trarne delle conseguenze etico-politiche.

Mi fa piacere essere confortato in questa mia opinione dalla accurata e coinvolgente ricostruzione, dal punto di vista della storia del pensiero scientifico, che ho letto di recente nel libro del mio antico compagno di studi Marco Solinas, L'impronta dell'inutilità. Dalla teleologia di Aristotele alle genealogie di Darwin (del quale è in corso di stampa la traduzione inglese), che interpreta la teoria dell'evoluzione di Darwin proprio come ultimo atto della crisi di un aristotelismo sorprendentemente vitale ancora fino al XIX secolo. 

Solinas espone appunto la straordinaria persistenza del paradigma aristotelico nelle scienze del vivente, anche e ben oltre la rivoluzione scientifica operata in ambito fisico da Galileo e Newton. Le caratteristiche principali del paradigma che Darwin avrebbe distrutto sono quindi almeno tre: fissità delle specie (declinata nella variante eternista nel pensiero aristotelico e in quella creazionista in quello cristiano), finalismo (accompagnato dall'antropocentrismo), e, appunto, essenzialismo. 

Ovvero, contro l'opinione di Empedocle Aristotele sostiene che le specie sono immutabili nel tempo, non dipendendo la generazione dei loro membri dal caso o da qualsiasi accidente ma essendo piuttosto e sempre necessaria una coppia di genitori della stessa specie per generare un nuovo individuo (da due cavalli non nasce un pinguino, o un ragno), i quali genitori evidentemente trasmettono all'embrione la forma e le caratteristiche essenziali a quella specie, il caso essendo marginalizzato alle caratteristiche individuali e a quegli accidenti della riproduzione che possono dar vita a individui difettosi e mostri. 

Ma l'idea di essenza è strettamente correlata in Aristotele a quella di funzione. L'essenza di ogni specie particolare, ciò che la differenzia da ogni altra, corrisponde anche al suo telos, al fine verso il quale tende (e ad esempio essendo l'uomo un animale razionale il fine della vita umana è quello di esercitare la ragione), il che comporta che non esista caratteristica propria di una specie che non sia diretta al suo scopo essenziale, che negli animali e nelle piante coincide con appunto la conservazione della specie stessa. Principio che può essere sintetizzato nella formula natura nihil facit frustra, la natura non fa nulla invano, nessun organo è inutile o messo lì per caso ma tutti concorrono alla sopravvivenzaquesto nonostante le difficoltà (che Aristotele non manca di notare pur senza risolverle), poste da fenomeni come le grosse corna dei cervi, più nocive che utili, o gli occhi ciechi della talpa oltre che all'equilibrio generale dell'intero ecosistema (in una visione quindi che sarà declinata dal cristianesimo in senso provvidenziale).

Curiosamente, è proprio il rifiuto della teoria platonica delle idee che conduce Aristotele all'idea della immutabilità delle specie, mentre Platone si mostra nel Timeo pur se all'interno di una narrazione mitica dove tutti i viventi continuano a trasformarsi in altre specie – maggiormente elastico. È infatti il rifiuto della trascendenza, l'appello all'esperienza dei sensi e all'esistenza concreta delle cose materiali, e quindi il trasferire le idee dall'iperuranio alla forma immanente che ottiene l'effetto, nel sistema di Aristotele, di immobilizzare le cose sensibili, non più pallide e mutevoli copie di un'idea platonica eterna ma esse stesse ancorate alla loro forma ed essenza.

Platone e il suo sistema matematizzante otterranno una rivincita proprio grazie alla rivoluzione scientifica galileiana, dove le "sensate esperienze" continueranno ad avere un posto preminente ma solo quando accompagnate dalle "necessarie dimostrazioni", che si avvarranno della comprensione della "lingua matematica" con la quale è scritto il grande libro della natura. Peccato che nonostante i tentativi dei cartesiani il metodo matematico e meccanicista, che tanto successo ha nell'ambito delle scienze fisiche anche e proprio grazie al rifiuto delle cause finali, è destinato ad un sonoro scacco nell'ambito delle scienze del vivente, che quindi continuerà a svilupparsi – del resto con discreto successo –  sotto l'egida del paradigma aristotelico reinterpretato e aggiornato, spesso inconsapevole e taciuto ma pur sempre presente, ovvero ancora in senso fissista, finalista, ed essenzialista.  Paradigma che troverà il suo massimo sviluppo con la classificazione sistematica (persino oltre gli intenti di Aristotele) di Linneo, manifestazione dell'ordine voluto dal creatore nella natura.

Le prime crisi dell'ipotesi fissista e perennista, e le prime teorie trasformiste (fra cui quella di Erasmus Darwin e quella di Lamarck), si affacceranno grazie alla continua scoperta di nuovi fossili e dei rompicapo che pongono, laddove diventa sempre più difficile sostenere che i mostri scoperti sottoterra rappresentano assembramenti casuali di ossa di specie conosciute disposte in modo curioso. Riuscirà a mettere una pezza Cuvier, sacrificando il perenne e armonico equilibrio della natura per salvare il fissismo, ovvero postulando una serie di catastrofi naturali nel corso delle ere che avrebbero cancellato alcune specie permettendo il propagarsi di altre specie nei territori lasciati inoccupati.

Sarà l'ultimo trionfo del paradigma, finalmente sconfitto da Darwin con la sua teoria dell'evoluzione per selezione naturale, nella quale l'approccio storicizzante, e la giustificazione e valorizzazione in tal senso degli organi "inutili" come i capezzoli dei maschi, gli occhi ciechi della talpa, e le corna dei cervi come residui di precedenti adattamenti o come accidenti storici costituisce appunto un colpo mortale a un tempo al fissismo, all'essenzialismo, e al teleologismo, la ricerca di una causa finale intesa come disegno di un creatore saggio e provvidente sull'ordine dell'intero creato… Peccato che proprio giunti a questo punto la ricostruzione di Solinas cominci a mio avviso a mostrare qualche semplificazione di troppo, nel voler sciogliere facilmente quello che in realtà è un nodo eccezionalmente avviluppato, quasi come se intorno alla presenza o meno di un pensiero finalistico per quanto modificato nel pensiero di Darwin non esistesse un dibattito accesissimo (liquidato in un capitolo finale dal titolo "Rami secchi").

Quel che mi lascia perplesso è soprattutto il considerare le tre componenti del paradigma aristotelico (ovvero, ricordiamo, fissismo essenzialismo e finalismo) un blocco indivisibile, e quindi decretare la fine e la condanna di tutte queste tre componenti grazie al nuovo paradigma darwiniano. In realtà il pensiero di Darwin mi pare che insegni a ripensare il finalismo e sganciarlo dall'essenzialismo, e così anche dall'idea di un progetto intelligente, piuttosto che abolirlo tout court. La polemica degli ultimi decenni fra gli adattazionisti ultra-darwiniani (Maynard Smith, Dawkins, Dennett da una parte) e revisionisti dall'altra (Gould, Lewontin, Eldredge per non parlare dei critici come Fodor e Piattelli Palmarini) verte ancora una volta sul ruolo del caso e quello della teleologia, con pensatori come Gould e Lewontin che si trovano a disagio col "paradigma panglossiano"* rappresentato dal neo-evoluzionismo, dove ogni caratteristica morfologica di un animale trova la sua giustificazione razionale dal punto di vista della sopravvivenza dell'individuo (non più della specie, come nel finalismo aristotelico, e forse addirittura del gene "egoista").

Eppure questa scissione tra finalismo ed essenzialismo rappresenta a mio avviso anche il contributo più importante e originale del darwinismo (rivedendo qui l'opinione che avevo espresso nel mio vecchio post), che è la seconda grande rivoluzione scientifica dopo quella galileiana anche in quanto non si tratta di una sua stanca ripetizione, non di un tardo trionfo del meccanicismo che finalmente riesce a farsi largo, con notevole ritardo rispetto alla fisica, anche nella biologia. La verità è proprio che il meccanicismo riduzionista in biologia non funziona (funziona soltanto nella fisica, e forse nemmeno in tutta la fisica), e che Darwin ci ha insegnato il perché, ovvero che se vogliamo capire le caratteristiche di un organismo occorre proprio ragionare in termini di funzione, di finalità. 

L'unilateralità dell'interpretazione di Solinas è resa evidente dalle citazioni sparse e frammentate alle quali si appoggia, nelle quali talvolta Darwin si mostra critico proprio della nozione di "causa finale", mentre dall'altro lato è anche costretto a riconoscere come persista un linguaggio indubbiamente teleologico nel corso di tutto il libro L'origine delle specie. Benché questo linguaggio pervada l'intera opera di Darwin (per non parlare degli approcci contemporanei, come quelli in uso nella psicologia evoluzionistica o sociobiologia) esso viene liquidato come semplice "residuo" da scartare di un paradigma in declino, come rami secchi da potare, appunto. Vi sono anche delle contraddizioni nel momento in cui si tenta di negare l'aspetto teleologico, laddove si scrive ad esempio con approvazione che "gli organi rudimentali, atrofizzati e abortiti potevano essere intesi quali testimonianze viventi della storia della specie, quali arcaismi. Per Darwin, si trattava prevalentemente di parti che un tempo dovevano aver svolto qualche funzione utile agli organismi, ma che, nel corso delle modificazioni, avevano perduto tale funzione" (corsivo mio), e dove quindi non si capisce in che senso il discorso intorno alle funzioni degli organi, alle loro finalità, debba essere considerato superato, pur se storicizzato e liberato dalle essenze.

Si può forse comprendere la riluttanza ad accettare questo elemento nel pensiero di Darwin, o addirittura la tentazione di classificare l'interpretazione finalistica come una sorta di "controrivoluzione", proprio per il desiderio di non vedere sottostimata la rivoluzione di Darwin ed enfatizzare gli aspetti di rottura con la tradizione piuttosto che di continuità. Desiderio che, se proprio dovesse guidare le nostre interpretazioni, credo sarebbe comunque soddisfatto una volta spezzata l'illusoria compattezza e non separabilità delle componenti dell'impianto aristotelico, e la trasformazione che il pensiero teleologico attraversa, senza essere eliminato, tramite questa separazione. Ma la riluttanza ha forse anche un'altra spiegazione.

La responsabilità di questa persistenza del finalismo viene in parte attribuita da Solinas alla famosa analogia stabilita da Darwin fra la selezione artificiale, opera degli uomini che accoppiano le specie e le selezionano proprio in vista di uno scopo (generalmente ma non necessariamente consapevole) e quella naturale. Analogia che permette di comprendere appunto in che modo opera la Natura ma che rischia di essere fuorviante nel momento in cui si personifica la Natura attribuendole scopi e intenzioni simili a quelli umani, essendo al contrario la selezione naturale un meccanismo del tutto impersonale. Questo lo trovo abbastanza giusto, ma la critica potrebbe anche andare nell'altro senso: in realtà non è possibile stabilire un netto divario fra selezione artificiale e selezione naturale, come fa Darwin. Le variazioni introdotte dall'uomo nelle specie domestiche sono in ultima analisi spiegabili, persino esse, come tratti adattattivi proprio dal punto di vista della selezione naturale, così come lo sarebbero quei tratti delle specie animali o vegetali che si sono evoluti per essere di reciproca utilità ad altre specie animali o vegetali (l'uomo e le mucche costituiscono in fondo un caso di simbiosi). L'uomo fa parte della natura, non è un elemento estraneo, anche quando manipola la natura stessa.

Ebbene, è proprio questa immagine dell'uomo del tutto assimilato che sembra incontrare l'opposizione di molti critici dell'ultradarwinismo. Se si eliminano i fini e la razionalità del percorso adattativo (per quanto fluttuante e inconsapevole possa essere) dalle spiegazioni naturali eliminiamo anche l'uomo dalla Natura, ovvero lo poniamo al di sopra o al di fuori di essa. E ci priviamo anche della possibilità (che poi sarebbe la posta più alta) di spiegare proprio come possano nascere cose come la vera razionalità e intenzionalità degli esseri umani da un meccanismo intrinsecamente cieco e privo di scopo. Il darwinismo è finalista nel senso che introduce e spiega l'origine della finalità nella natura, che così è un effetto della selezione naturale, non un punto di partenza astorico.

È chiaro che l'universo post-darwiniano, non è più un universo ordinato e armonico diretto verso un fine supremo (fra l'altro una lettura attenta dei passi di Darwin nei quali egli si mostra sospettoso nei confronti della causa finale potrebbe rivelare, secondo me, che egli intende il termine "final" in modo ambiguo e leggermente confuso, e tende a sovrapporne il significato con quello di "ultimate cause" ovvero proprio la causa ultima e più fondamentale, quella a monte di tutto il creato).** Il mondo di Darwin, si diceva, è piuttosto un mondo diretto, in modo abbastanza caotico e certo non preordinato, nonostante l'apparenza del risultato finale, da una miriade di fini in conflitto fra di loro, in una lotta senza quartiere dove appunto è in gioco la sopravvivenza, quella del più adatto.

La storicizzazione che distrugge l'antico essenzialismo, l'atemporalità delle forme aristoteliche, avviene a questo livello, è la storia di tanti "geni egoisti" in lotta per il predominio contrapposta alla storia di un Dio che tutto ha previsto fin dall'origine dei tempi e fin dall'origine ha creato le forme, le essenze immutabili di ogni specie. I geni, i veri protagonisti della storia, sono invece costretti ad adattare in continuazione la funzione all'organo e viceversa l'organo alla funzione, senza che vi sia alcun senso unico. Dire che non esiste finalismo nella teoria dell'evoluzione è un po' come dire che non si può far ricorso a spiegazioni finalistiche nel corso delle nostre ricostruzioni storiche, ad esempio di un conflitto bellico fra grandi potenze, perché sarebbe metafisico attribuire una direzione preordinata alla storia umana.

È significativo anche che proprio queste caratteristiche della meravigliosa concezione della vita che emerge dalla teoria dell'evoluzione per selezione naturale siano quelle che danno fastidio, da un punto di vista ideologico, ai quei critici "di sinistra" del darwinismo che ne vedono appunto le terribili implicazioni per quanto riguarda l'immagine del cosmo (e come si diceva dell'uomo nel cosmo, reso una marionetta del suo patrimonio genetico), non più inevitabilmente diretto verso le magnifiche sorti e progressive del materialismo dialettico, l'unione di tutti i proletari del mondo e il trionfo del collettivismo e dell'altruismo, ma una eterna e spietata lotta fra individui, o peggio ancora fra geni che manipolano cinicamente gli individui. Criticano il teleologismo darwiniano enfatizzando, nel caso di Gould, il ruolo del caso e anche rivalutando le cuveriane catastrofi naturali nell'imprimere una svolta alla storia delle specie (una metafora delle rivoluzioni sociali contra il lento riformismo?), ma in nome di un altro teleologismo, a ben vedere molto più vicino a quello di stampo aristotelico. 



* Fra parentesi trovo curioso che per criticare l'idea di una funzione utile associata ad ogni più piccolo dettaglio anatomico, eventualmente spiegabile come epifenomeno o conseguenza necessaria di altri adattamenti (in analogia con le lunette di San Marco) Gould e Lewontin facciano ricorso proprio a Pangloss, il filosofo immaginato da Voltaire nel Candide per ridicolizzare le teorie di Leibniz, il quale però si proponeva proprio di spiegare l'origine del male come necessaria e inevitabile conseguenza del bene, ovvero una concezione che si sposa benissimo proprio con la teoria dei tratti inutili o addirittura dannosi come strascichi di precedenti adattamenti evolutivi.

** Si consideri il passo del Taccuino M (settembre 1838) citato da Solinas come prova della "crescente sfiducia nei confronti delle cause finali": "Questa mancanza di volontà di considerare il creatore come colui che governa attraverso leggi è forse dovuta al fatto che finché consideriamo ciascun oggetto come un atto separato di creazione. lo ammiriamo di più. perché possiamo confrontarlo con lo standard delle nostre menti. Cosa che non è più possibile quando riconsideriamo la formazione delle leggi che rimandano ad altre leggi. E che alla fine creano perfino la percezione di una causa finale (the perception of a final cause)". Da notare che anche i moderni biologi quando vogliono evitare il ricorso al linguaggio teleologico parlano di "causa distale" in opposizione alla "causa prossimale", quella più immediata e diretta. Ad esempio potremmo spiegare l'attrazione che le femmine di una certa specie hanno per certe caratteristiche dei maschi sostenendo che quelle caratteristiche stimolano gli ormoni sessuali della femmina (causa prossimale), ma perché questo avviene? Una spiegazione più generale, di livello più alto, è che i maschi con quelle caratteristiche assicurano alle femmine una progenie maggiormente in grado di sopravvivere e riprodursi (causa distale). In realtà nonostante il cambiamento di termine si tratta sempre di finalismo.