mercoledì 14 dicembre 2011

la figlia del tempo


Mi piacerebbe parlare della passione per la ricerca, quella cosa bizzarra che spinge alcuni di noi – a volte blogger più o meno oscuri e anonimi, a volte invece fortunati che della ricerca sono riusciti a fare il loro mestiere, a volte semplici curiosi che mai comunicheranno a qualsiasi pubblico il risultato delle loro ricerche – a perdere ore, giorni, mesi, anni alla risoluzione di un enigma, all'approfondimento di un tema, e senza naturalmente altra ricompensa che la soddisfazione intellettuale.

Ma non trovo un modo migliore, di parlarne, che citare quello che hanno scritto altri, e il libro che maggiormente esemplifica ed esalta questa passione, secondo me, non è l'autobiografia di un qualche scienziato premio Nobel che ci racconta di quando da ragazzo cominciava a osservare la natura e fare i suoi primi esperimenti. Si tratta invece di un libro poliziesco, anche se anomalo.

Josephine Tey (pseudonimo di Elizabeth MacKintosh) scrisse fra la fine degli anni Venti  e la fine degli anni Cinquanta del Novecento una serie di romanzi polizieschi aventi per protagonista l'ispettore Grant, un caparbio investigatore scozzese. La figlia del tempo è il penultimo di questi romanzi, e meritatamente il più famoso. In questo strano giallo l'ispettore Grant si ritrova sfortunatamente in un letto d'ospedale con una gamba rotta, e quindi con molto tempo libero in cui annoiarsi. Un'amica per distrarlo gli porta delle stampe di famosi ritratti, fra cui quello di Riccardo III, ed è su costui che Grant inizia a riflettere.

Riccardo III d'Inghilterra è noto ai più per essere il protagonista di uno dei drammi storici di Shakespeare, il quale narra le macchinazioni del gobbo e deforme Riccardo per salire abusivamente al trono, al costo di qualunque crimine sia necessario. Compreso l'assassinio dei due nipotini, i famosi "principi nella torre", che la tradizione storica vuole appunto rinchiusi dallo zio nella Torre di Londra per assicurarsi la successione al trono del loro defunto padre e poi fatti assassinare.

Grant comincia appunto a interrogarsi su quanto di vero ci sia dietro questa consolidata narrazione tramandata soprattutto da Shakespeare e dalla propaganda dei Tudor (i vincitori nella guerra delle due Rose in cui gli York, di cui faceva appunto parte Riccardo, vennero sconfitti). Arrivando infine, grazie alle sue indagini da branda e con l'aiuto di un ricercatore storico, a riabilitare del tutto la figura di Riccardo, che non solo, secondo Grant, non fu un despota ma un sovrano saggio e amato dal popolo, ma viene anche assolto dall'infamante accusa relativa ai due nipotini (e comunque non era né gobbo né deforme ma pure un bell'uomo).

Alla fine del libro subentra anche una piccola delusione, quando Grant e il suo amico storico si accorgono di non avere fatto la grande scoperta del secolo, ma che dubbi sulla colpevolezza di Riccardo III, e tentativi di riabilitarlo, ce ne sono già stati fin dal XVII secolo (la storiografia contemporanea, per la cronaca, tende pure essa alla riabilitazione della sua figura complessiva, ma permangono i dubbi sull'assassinio dei nipotini; sulla questione si può consultare la Ricardian Society). Ma questo non sembra turbare Grant più di tanto, in fondo. Si è divertito, in ospedale, più di quanto non si divertisse a dare la caccia ai criminali suoi contemporanei. Quanto al suo collaboratore, Carradine: "è la prima volta in vita mia che mi accade qualcosa di veramente eccitante […] ho trovato qualcosa che vale la pena di fare. E sarò io a farlo. È questo che è meraviglioso", alludendo all'idea di scrivere un libro sulla vicenda di Riccardo III.

Un termine ricorre sovente nell'opera: "tonypandy". Tonypandy è una località dove nel 1910, secondo il racconto dell'ispettore Grant, una scaramuccia fra i minatori gallesi in protesta e gli agenti di polizia metropolitana (disarmati) è diventata nel ricordo dei locali una crudele repressione effettuata con le truppe dell'esercito inviate da Winston Churchill. Nel libro diventa un po' il simbolo della bufala storiografica: un esempio di tonypandy è per i protagonisti del libro il massacro di Boston, mentre a a un certo punto ci si chiede addirittura se la maggior parte degli episodi descritti dai libri di storia non siano tonypandy.

L'essenziale […] è che tutti quanti, dal primo all'ultimo, tra quanti si trovavano lì, sanno benissimo che quella storia è tutta una frottola, e tuttavia nessuno l'ha mai contraddetta. E ormai la smentita non verrà più. Una storia completamente falsa è cresciuta fino a diventare leggenda, mentre quelli che sapevano quanto era falsa sono rimasti a guardare senza aprire bocca.

È strano, ma se racconti a qualcuno la verità su una bugia diventata leggenda, quello non s'indigna con chi l'ha raccontata, ma con te. La gente non vuole che si buttino all'aria le sue idee. Prova un vago senso di disagio, secondo me, e te ne serba rancore. Così respinge la verità e si rifiuta di pensarci. Si mostrasse soltanto indifferente, la cosa sarebbe naturale e comprensibile. Ma si tratta di una reazione molto più forte, molto più decisa. È un vero e proprio fastidio.

Tutti gli studiosi (di professione e non) si sono imbattuti in qualche tonypandy, e non solo gli storici, ma anche i filosofi, i linguisti, gli antropologi, e chissà, forse anche i fisici e i matematici. In questo blog a volte mi sono divertito a raccontare i tonypandy che ho scoperto. Non io personalmente, ci mancherebbe, anche se a volte ho avuto conferma, dalle mie ricerche, di intuizioni che avevo già avuto. Quel che è certo è che di fronte a un tonypandy uno può appunto reagire in due modi: o accoglierlo con gioia, provando il brivido dell'investigazione e della scoperta, o con fastidio, in quanto elemento dissonante e disturbatore.

Sarebbe bello poter dire che ciò che contraddistingue il vero ricercatore è il fatto di avere sempre la prima delle reazioni sopra descritte, ma in realtà credo che in ciascuno di noi convivano i due atteggiamenti, a seconda delle opinioni che vengono messe in discussione. Alcune delle nostre opinioni più solide fanno decisamente parte della nostra identità, e ci è molto difficile abbandonarle, mentre per tutto il resto ci possiamo lasciare andare ad una sorta di estasi distruttrice. Del resto si potrebbe notare che i due esempi principali di tonypandy descritti da Josephine Tey, ovvero i tumulti di Tonypandy, appunto, e il massacro di Boston, denunciano forse una certa mancanza di oggettività da parte della scrittrice scozzese.

E c'è del buono, anche, in entrambi gli atteggiamenti: non tutto può sempre essere messo in discussione, e non per il puro gusto di farlo, o il rischio è quello della deriva complottistica, della paranoia, o di un certo scetticismo che sconfina nel relativismo e quindi nel vuoto culturale, nella completa mancanza di appigli. L'atteggiamento conservatore fa parte della ricerca allo stesso titolo dell'atteggiamento iconoclasta e rivoluzionario, ed è altrettanto rispettabile. E però è inutile nasconderlo: la gioia e la felicità provengono dal tonypandy, dallo smascheramento di una bufala, dalla sensazione di stare esplorando sentieri mai percorsi. E quella è una cosa con la quale, forse, nemmeno il sesso può competere.


P.S. Ehm, "qualcuno" mi ha chiesto di rettificare l'ultima frase, che, credevo fosse evidente, era ovviamente un artificio retorico, un'iperbole. Figuriamoci se.

3 commenti:

  1. Bello l'articolo, mi sono rispecchiato in molte delle situazioni descritte.

    Tranne quella sul sesso, quella dipende molto dall'eta' del ricercatore (e dal partner ovviamente) :)

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  2. Secondo me la differenza tra il ricercatore e il complottista è al momento in cui si scopre la verità: il ricercatore l'accetta il complottista no.
    Siamo tutti ricercatori all'inizio, se poi una volta scoperto ciò che stiamo indagando lo riconosciamo come vero (anche qualora andasse contro le nostre ipotesi iniziali) rimaniamo tali, altrimenti, se non accettiamo ciò che abbiamo scoperto perchè è contro il nostro credo/religione/modo di pensare, allora ci trasformiamo in complottisti.

    Ci sarebbero anche considerazioni di metodo da fare, ma credo che tutto si riduca a quanto siamo disposti ad accettare ciò che troviamo.

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  3. Post interessante, che prende spunto da un libro apparentemente "di consumo" ma più profondo di quello che sembra (ogni tanto capita). Condivido tutto, anche la considerazione finale, anche se capisco la richiesta di rettifica (ahem...). Del resto, la passione del ricercare qualcuno la chiamava libido sciendi - ci sarà un motivo, no? :-)

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