
Quando Pilato chiede a Gesù "cos'è la verità?" (Giovanni 18, 38) non ottiene una risposta (forse anche perché non l'attende). Secondo la dottrina cristiana, "Pilato non si rende conto che sta rivolgendo la domanda sulla verità alla Verità stessa che sta davanti a lui, in veste di imputato, passabile di pena di morte". I cristiani rammentano spesso questo passo per criticare l'atteggiamento "pilatesco" dei moderni pensatori relativisti nei confronti della verità (*).
Condivido il bersaglio, ma lo stesso non mi convince troppo questa interpretazione, perché un conto è attaccare il relativismo, un altro cedere al dogmatismo più rigido. La verità sarebbe una persona, sia pure un po' speciale come Gesù? Troppo presuntuoso. Forse poteva funzionare 2000 anni fa, ma adesso chi se la sentirebbe di andare in giro a dire "Io sono la via, io sono la verità e la vita" (Giovanni 14, 6), senza essere giustamente preso un po' in giro?
Secondo me Gesù avrebbe fatto bene a rispondere qualcosa del genere (anche se non gli avrebbe ugualmente salvato la vita):
“Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso, mentre dire di ciò che è che è o di ciò che non è che non è, è vero”.
La definizione aristotelica di verità (si trova nella Metafisica), nonostante la sua antichità, infatti rimane una delle più valide. In primo luogo Aristotele giustamente attribuisce la proprietà della "verità" ai discorsi intorno alle cose, e non alle cose stesse e, va da sé, nemmeno alle persone. La verità non è una cosa, un oggetto, una persona, ma è un attributo, e in particolare un attributo dei discorsi. Senza linguaggio non ci sarebbe la verità, ma ci sarebbe solo il mondo.
In secondo luogo, qui c'è persino un abbozzo di "principio di composizionalità": una frase vera diventa falsa se ci appiccichiamo davanti il connettivo logico "non", e approfondendo il discorso Aristotele avrebbe anche potuto dire che un enunciato composto da due enunciati tenuti insieme dal connettivo "e", è vero solo se sono veri entrambi gli enunciati di partenza. Ma si potrebbe persino partire dai singoli termini (che da soli non sono né veri né falsi) e con l'aiuto della nozione di "soddisfazione" capire in che modo contribuiscono al valore di verità di un enunciato: ad esempio "x è intelligente" è soddisfatto quando alla x sostituiamo il termine "Rita Levi Montalcini", ma non è soddisfatto da Gasparri. Vengono quindi stabilite le condizioni in base alle quali si può dire che un enunciato è vero, che è l'essenza della definizione.
Se insomma prendiamo la definizione aristotelica, rimasta allo stadio di abbozzo incompiuto, e cerchiamo di approfondirla, è piuttosto facile arrivare alla definizione tarskiana di verità. Sì, perché oggi la risposta alla domanda di Pilato, "che cos'è la verità", esiste, ed è stata trovata nel 1933 da un logico polacco, chiamato Alfred Tarski. Prima di esaltarci troppo, sarà bene premettere che quella di Tarski, per quanto corretta, è una definizione ma non un criterio, ovvero risponde alla domanda "cosa significa essere vero", ma non ci permette di stabilire che cosa è vero in particolare, che poi forse è quel che voleva sapere Pilato.
Comunque, secondo Tarski, una definizione adeguata di verità, per un dato linguaggio, è fornita da una teoria che, seguendo il principio di composizionalità visto sopra, riesca ad associare per ogni enunciato P del linguaggio in esame, un corrispondente enunciato (nel linguaggio della teoria) della forma "‘P’ è vero se e solo se Q".
"La neve è bianca" è vero se e solo se la neve è bianca.
Grazie al cazzo, direte voi, ma faccio notare che l'apparente banalità della frase precedente è dovuta solo alla casuale sovrapposizione fra linguaggio oggetto e linguaggio della teoria (metalinguaggio), ma in realtà avrei anche potuto dire:
"雪是白的" è vero se e solo se la neve è bianca.
Se per ogni enunciato in cinese sappiamo produrre (partendo dai singoli termini e con l'aiuto del principio di composizionalità) una frase in italiano come quella sopra, sappiamo cosa significa essere vero in cinese, cioè sappiamo a quali condizioni una particolare frase in cinese è vera o falsa, che non è mica poco. Il problema è che in realtà fare questo significa anche conoscere il cinese, cioè essere in grado, per ogni enunciato cinese, di trovare il corrispettivo sinonimo in italiano, il che forse rende di nuovo banale la definizione. Banale, però, non significa inutile, soprattutto quando serve ad escludere delle alternative.
In primo luogo la verità non è "corrispondenza": in Tarski, o in Aristotele, e contrariamente a quello che si legge nella quasi totalità dei manuali di filosofia, non c'è nessun riferimento ai "fatti", o al concetto di "corrispondenza ai fatti", il che è una fortuna perché nessuno ha mai saputo definire che cosa sia un "fatto", se non in modo tautologico identificandolo con una frase vera. La verità è un predicato semplice, atomico. Un enunciato è vero e basta, non vero e quindi connesso in maniera particolare con uno speciale tipo di entità.
In secondo luogo, e ancora più importante, la verità è qualcosa. Intendo dire che c'è un senso oggettivo, nel dire di una particolare frase che è vera o falsa: la tale frase è vera a determinate condizioni, che possono essere enunciate (anche se può non essere facile stabilire se le condizioni sussistono). Il che vuol dire che si può essere realisti senza avere una teoria della corrispondenza, cioè senza identificare la verità con un oggetto. E vuol dire anche che si può rispondere alla domanda di Pilato, senza con ciò aderire a nessuna particolare dottrina, senza pretendere di conoscere la verità, e soprattutto senza fare gli sboroni e dire assurdità come: "la verità? eccomi qui".
In realtà però, le cose sono un po' più complicate: a rigore Tarski ha definito solo il significato del termine "vero-in-L", dove L sta per un particolare linguaggio. Si può capire cosa significhi essere "vero-in-italiano" o "vero-in-cinese", ma ancora non sappiamo cosa significhi essere "vero". Anzi, la definizione di Tarski può essere usata proprio per dimostrare che è impossibile definire la nozione semplice di verità. Infatti tale definizione fa un uso essenziale della distinzione fra linguaggio e metalinguaggio: il predicato "vero" ha senso solo se usato per riferirsi a un linguaggio diverso da quello nel quale esso è usato, altrimenti si generano inevitabilmente antinomie come quella del mentitore ("questa frase è falsa"). E quindi non può essere definito un predicato di verità universale, che comprenderebbe anche se stesso fra gli oggetti del discorso.
Ma questo non dovrebbe comunque indurci allo scetticismo radicale e al relativismo, perché il fatto che la verità non sia definibile probabilmente significa solo che essa è una nozione talmente fondamentale da essere, lei, la base di tutte le altre definizioni dei nostri concetti. Senza avere una nozione intuitiva di cosa sia la verità non potremmo parlare, e non potremmo neppure pensare. Tanto è vero, ad esempio, che la banalità degli enunciati della forma "‘雪是白的’ è vero se e solo se la neve è bianca" si trasforma in qualcosa di molto interessante se noi, seguendo un percorso inverso a quello di Tarski, partissimo dalla nozione primitiva di verità per costruire una teoria del significato per il cinese, ovvero una teoria che ci permetta di interpretare gli enunciati cinesi e trovare i corrispettivi sinonimi in italiano (che è la strada seguita da Donald Davidson).
Ma allora Gesù in fondo potrebbe aver fatto bene a tacere di fronte a Pilato. Ma non perché lui fosse la via, la verità, la vita. È solo perché è inutile tentare di rispondere a qualcuno che dubita che la verità esista, quasi quanto è inutile parlare con qualcuno convinto di avere già la verità in tasca. Tale persona non è un essere pensante, e tanto varrebbe rivolgersi al muro.