Se Alan Turing ha elevato il linguaggio, la capacità di conversare e produrre enunciati dotati di senso, a criterio per stabilire quando una qualsiasi macchina possa davvero essere considerata "pensante", è perché il linguaggio è effettivamente una delle abilità più sorprendenti e uniche degli esseri umani. In realtà uno dei difetti del test di Turing è che è persino troppo esclusivo. Sarebbe già un grande risultato, per l'IA, costruire un robot con l'intelligenza di un cane, ma una macchina del genere non potrebbe mai superare il test.
Già Cartesio, del resto, aveva negato un'anima agli animali non umani, proprio sulla base del fatto che essi non parlano. Secondo Cartesio non c'è niente che un animale faccia che non possa essere riprodotto anche da uno stupido meccanismo privo di qualsiasi intelligenza. Gli animali non sono altro che macchine complesse, i cui movimenti possono essere equiparati a un sistema di leve e pulegge, che agiscono in un determinato modo a determinati stimoli. L'apparente intelligenza del loro comportamento è solo un segno della bravura del progettista, il Creatore.
Gli uomini, in quanto animali, cioè in quanto esseri corporei, non si distinguono affatto dalle altre creature. Essi però sono anche dotati di un principio incorporeo, di una sostanza immateriale che si chiama "anima", e che miracolosamente riesce anche ad avere un effetto sui corpi materiali. E la migliore prova empirica dell'esistenza di questa "sostanza pensante", per Cartesio, è proprio il comportamento verbale (separatamente dalle argomentazioni a priori, quali il cogito ergo sum).
Il comportamento verbale umano infatti esibisce quelle caratteristiche di creatività che sembrerebbero inspiegabili, da un punto di vista rigidamente materialista. Esso ad esempio consente, a partire da un vocabolario finito, di generare un'infinità potenziale di nuovi enunciati, corrispondenti ai "pensieri" nella testa di chi parla, e riferentesi a qualsiasi possibile situazione reale o immaginaria. Il linguaggio è un coltellino svizzero, che si presta a molteplici usi: con esso è possibile non solo comunicare situazioni di fatto o impartire ordini ("mi stai pestando un piede, levalo"), ma è possibile mentire o ingannare il prossimo ("guarda dietro di te, una scimmia a tre teste!"), inventare storie per il semplice piacere di farlo ("c'era una volta..."), scrivere poesie ("il verde melograno, a cui tendevi la pargoletta mano"), esprimere i propri sentimenti, insultare il prossimo, fare promesse o minacce, discorsi celebrativi, eccetera eccetera.
È questa la caratteristica del linguaggio che lo distingue dalla semplice comunicazione, che esiste anche nelle forme di vita più infime. Anche le api, per esempio, hanno un sistema di comunicazione piuttosto elaborato che gli permette di comunicare alle compagne la posizione e la distanza, relativemente all'alveare, di una fonte di polline. Stupefacente, non c'è dubbio, ma ancora niente rispetto alle capacità esibite dagli umani.
Le tesi dualiste di Cartesio sulla rigida separazione fra anima e corpo sono oggi quasi universalmente rifiutate, ma è opinione diffusa tra i filosofi contemporanei, ancora, che il linguaggio non sia semplicemente "espressione" del proprio pensiero, ma che in una certa misura esso "costituisca" la stessa essenza del pensiero elaborato, o almeno lo condizioni pesantemente. La formulazione vaga di questo principio è dovuta al fatto che non esiste accordo sul suo significato preciso: si va dalle tesi estremiste secondo cui il contenuto dei pensieri di una data persona è limitato dal suo vocabolario e rispecchia la sua grammatica (tesi di Sapir-Whorf), a quella innocua e banalmente vera secondo cui non sarebbe possibile formulare certi pensieri senza l'ausilio del linguaggio (es. "oggi è martedì").
Se una qualche versione intermedia di questo principio è corretta (come credo), significa che è molto rischioso e azzardato formulare ipotesi di tipo antropomorfo riguardo al contenuto mentale degli animali non umani, anche di quelli più intelligenti e dalle capacità cognitive più elaborate. Dobbiamo resistere all'idea per la quale gli animali "pensano" nello stesso senso in cui noi "pensiamo", o che abbiano il nostro stesso tipo di "intelligenza". Wittgenstein diceva che se un leone potesse parlare noi non lo capiremmo, ma forse è più corretto dire che se un leone potesse parlare non sarebbe più un leone, perché sarebbe un nostro simile. Il linguaggio umano è un unicum in natura, che rende l'uomo una cosa speciale fra tutte le altre creature.
Non necessariamente migliore, più nobile, o più in alto nella scala evolutiva: in fin dei conti anche altri animali esibiscono caratteristiche uniche e speciali, come potrebbe essere il caso dell'elefante e la sua proboscide. Il linguaggio (e il pensiero razionale) non è una caratteristica interessante perché ci pone al vertice del creato o ci dà il diritto di fare quello che vogliamo degli altri animali non intelligenti (anche se ci dà un grande potere). È interessante per noi uomini perché siamo uomini, e ci interessa quel che ci riguarda in modo speciale.
Ora, il fatto che questo suoni ancora troppo antropocentrico è probabilmente all'origine dei tentativi che sono stati effettuati nei decenni passati per rovesciare questo particolare primato dell'uomo sulle altre specie. Certe motivazioni ideologiche sono persino condivisibili, se servono a rovesciare l'illusione che l'uomo sia padrone del mondo e al centro dell'Universo, creato a immagine e somiglianza di Qualcosa e non in continuità con la natura. Ma sempre di ideologia si tratta, e non dovrebbe inquinare la ricerca scientifica. È quanto è successo, invece, con le celebri ricerche sulle scimmie e il linguaggio dei segni.
Le scimmie sono i nostri parenti più prossimi, quindi è giusto cercare lì le origini delle nostre peculiari capacità. E in effetti animali come gorilla e scimpanzé esibiscono della abilità comunicative non comuni. La loro esistenza è fondata in gran parte sullo scambio di segnali, che possono essere fondamentali per la sopravvivenza a breve termine ("attenzione, un serpente!"), ma anche svolgere un ruolo importante per quanto riguarda la coesione del gruppo e lo scambio di informazioni al suo interno.
Alcuni ricercatori però, a partire dagli anni Settanta, piuttosto che studiare e analizzare la comunicazione scimmiesca nel suo ambiente naturale (cosa che sarebbe stata molto interessante) hanno invece cercato di insegnare alle loro scimmie da laboratorio proprio il linguaggio umano. Per capirci, sarebbe un po' come prendere un piccione e dire "siccome vogliamo capire come fa a volare, proviamo a fargli pilotare un aereo di linea". E queste ricerche sono diventate famosissime, finendo ad esempio nel bel romanzo Congo, di Micheal Chrichton, la cui protagonista è proprio un gorilla parlante, Amy, ispirata però da casi realmente esistenti e altrettanto famosi, come gli scimpanzé Washoe e Nim Chimpsky (il cui nome vorrebbe essere un omaggio o una presa in giro di Noam Chomsky), e il gorilla Koko (forse l'unico gorilla femmina al mondo ad essere stata accusata di molestie sessuali sulle ricercatrici).
Uno dei primissimi tentativi di insegnare il linguaggio alle scimmie fu effettuato dai coniugi Kellogg, i quali a partire dal 1968 decisero di allevare uno scimpanzé, Gua, e di crescerlo in compagnia del loro vero neonato, Donald, esattamente come se fossero fratelli. L'idea alla base dell'esperimento era che crescendo nello stesso ambiente e ricevendo lo stesso tipo di trattamento i due avrebbero forse acquisito insieme le stesse capacità, aiutandosi l'un l'altro. Inizialmente Gua si dimostrò più sveglio dello stesso Donald: all'età di 16 mesi era in grado di comprendere 100 parole (o comandi verbali), più di quanti fosse capace di comprenderne Donald, ma non andò oltre. In seguito l'esperimento venne interrotto perché ci si accorse che Gua aveva una cattiva influenza su Donald: praticamente non era lo scimpanzé che apprendeva dall'umano, ma l'umano che stava diventando uno scimpanzé (natura - cultura = 1-0).
Washoe, un altro scimpanzé, venne allevato a partire dal 1967 dai coniugi Gardner i quali, avendo constatato l'impossibilità per le scimmie di acquisire il linguaggio verbale a causa di limiti fisiologici, decisero di insegnargli l'ASL, la lingua americana dei segni. Essi, seguendo la scuola comportamentista allora in auge, ricorsero alla tecnica del "condizionamento operante", ovvero cercarono di incoraggiare l'uso dei segni con adeguate ricompense. Ad esempio Washoe aveva capito che poteva ottenere maggiori quantità di una cosa desiderata se avesse usato il segno corrispondente a "more", "di più", e aveva afferrato il concetto estendendolo anche a situazioni diverse da quella in cui si era verificato l'apprendimento originario (in pratica, una volta imparato a chiedere più banane, si allargò fino a chiedere più noccioline). Washoe avrebbe imparato in questo modo qualcosa come 250 segni, ma secondo i resoconti più favorevoli ne avrebbe imparati alcuni anche senza condizionamento, ma per semplice imitazione, o addirittura ne avrebbe ideati di nuovi combinando i precedenti segni.
Nello stesso periodo, un altro scimpanzé, Nim Chimpsky, veniva educato al linguaggio dei segni da un altro gruppo di ricercatori, facenti capo a Herbert Terrace. L'esperimento era stato progettato esplicitamente allo scopo di smentire le tesi di Noam Chomsky secondo cui solo gli umani hanno un linguaggio vero e proprio. I risultati però furono molto più deludenti di quelli ottenuti da Washoe. Anche se Nim Chimpsky aveva imparato 125 segni (molti di meno secondo altre valutazioni), Terrace ne trasse l'impressione che il suo non potesse affatto essere descritto come un vero linguaggio, dotato di una vera sintassi generativa in senso chomskiano. Tutto quel che Nim poteva fare era, appunto, imitare certi segni nel contesto appropriato, mentre per il linguaggio si richiede qualcosa di più, e cioè l'uso delle regole grammaticali per generare nuove frasi e nuovi significati a partire dal vocabolario di base.
I supporter di Washoe osservarono che Nim era stato allevato in condizioni diverse da quelle della loro scimmia: in gabbia e in ambiente asettico, mentre Washoe veniva trattata in modo simile a un essere umano. Terrace, invece, osservando i filmati relativi a Washoe, ne concluse che il suo progetto era fallito esattamente nella stessa maniera in cui era fallito quello di Washoe: nemmeno lei aveva appreso l'uso del linguaggio in un senso vicino a quello umano. Scoppiò allora la grande controversia, mai del tutto sopita, fra difensori e oppositori del linguaggio scimmiesco, nel corso della quale Terrace venne persino accusato di voler sabotare il lavoro degli altri ricercatori.
Sebbene sia evidente che gran parte del disaccordo nasca da incomprensioni reciproche e dalla difficoltà di stabilire che cosa si intenda esattamente per "linguaggio", sembra assai probabile che la maggior parte dei resoconti più entusiastici siano viziati da uno scarso controllo sulla metodologia e da un certo auto-inganno compiacente con i risultati che si desidera ottenere (volendo escludere la frode vera e propria dalle ipotesi alternative). Avendo a che fare con gli animali, il rischio dell'antropomorfizzazione, ovvero di proiettare su di loro pensieri e comportamenti umani che in realtà non gli appartengono, è sempre fortissimo. Su coloro che insegnavano il linguaggio a Washoe, potrebbe aver agito quella che è una delle più vecchie e semplici illusioni: l'effetto "bravo Hans".
Hans era un cavallo che sapeva contare e fare le addizioni e altre operazioni, e che per questa sua capacità si esibiva nei circhi all'inizio del secolo scorso (nel 1904 finì anche sulle pagine del New York Times). Durante le esibizioni, una persona del pubblico lanciava la sua sfida, ad esempio "5+3", e allora Hans batteva con lo zoccolo per terra otto volte di seguito, poi si fermava, con meraviglia dei presenti. In realtà venne poi dimostrato che Hans non faceva che reagire al linguaggio corporeo del suo istruttore, il quale era persino inconsapevole di comunicargli involontariamente, con un quasi impercettibile movimento, il momento giusto in cui doveva fermarsi. Hans non sapeva fare le somme, ma avrebbe potuto essere una buona macchina della verità.
Che qualcosa di simile sia avvenuto con le scimmie e con il linguaggio dei segni è stato confermato quando ai progetti di addestramento cominciarono a partecipare anche ricercatori sordi, che avevano appreso il linguaggio dei segni come prima lingua. È da notare che fino a non troppo tempo fa anche relativamente al linguaggio dei segni vi era l'equivoco (a volte alimentato dagli stessi sordi) di non considerarlo un vero e proprio linguaggio affine a quello verbale, ma qualcosa di più simile a una pantomima, a un gioco dei mimi più elaborato e complesso. Questo alimentava l'illusione, negli stessi sordi, che quella dei segni fosse una forma di comunicazione più "naturale" e vicina alle cose stesse, invece che basata sulla convenzione e la grammatica come quella tradizionale. In realtà è stato dimostrato che l'ASL e affini sono lingue a tutti gli effetti in senso chomskiano, e delle quali sono pure state pubblicate le grammatiche relative.
Eppure questa confusione doveva essere operante in coloro che studiavano Washoe, i quali volevano confondere qualsiasi segno o gesto usato dalla scimmia in un enunciato corretto dell'ASL. Gli studiosi sordi, però, erano in grado di riconoscere molti meno segni rispetto agli altri ricercatori. Il linguaggio dei sordi non è insomma un semplice gesticolare – così come parlare non significa solo emettere suoni più o meno articolati – e se può essere confuso come tale dai profani, ciò non avviene certo con chi lo usa dalla nascita. In altre parole, nel mentre per un normale osservatore Washoe stava facendo il segno che significa "mangiare", per un sordo si stava solo portando la mano alla bocca. Se per un normale osservatore Washoe stava facendo il segno che significa "grattarsi", per un sordo si stava solo grattando.
Quando il saggio indica la Luna lo stolto guarda il dito. In questo caso, però, è avvenuto che la scimmia mostrava il dito e lo stolto guardava la Luna.
Tra le persone che utilizzano moltissimo il linguaggio logico matematico ho trovato che spesso c'e' uno strano modo di pensare. Molti pensieri sono non verbali, "astratti", molto difficili da tradurre direttamente in parole. Spesso ho in mente un concetto, ma la parola giusta proprio non la ricordo, un po' come quando tenti di tradurre in una lingua che non è la tua, e tutte le parole che ti vengono in mente si avvicinano ma non sono "quella giusta".
RispondiEliminaDel resto come leggeresti una formula un po' complessa (che so, l'equazione di Schroedinger) a parole? Io non ci riesco, e se me la leggono devo scriverla su un foglio per capirla. Se e' scritta la capisco immediatamente.
E la frase che citi come dipendente in modo indispensabile dal linguaggio, nella mia testa si traduce in una serie di "simboli", il secondo giorno che coincide col presente.
Allora mi chiedo se è vero che il pensiero presupponga il linguaggio verbale. Forse esistono anche altri linguaggi.
Gianni:
RispondiEliminaLa relazione tra pensiero e linguaggio di sicuro non si riduce ad una equivalenza, o addirittura ad una preminenza del linguaggio sul pensiero, come vorrebbero alcune teorie semplicistiche che spesso si rifanno alla scuola wittgensteiniana. Sono convinto che esistano forme di pensiero non verbale.
Tuttavia credo che il linguaggio condizioni fortemente la qualità del pensiero. Anche il pensiero simbolico astratto cui fai riferimento, pur se non direttamente esprimibile in modo verbale, probabilmente non esisterebbe senza il linguaggio.
L'idea che la mente possieda un suo "linguaggio macchina" dal quale poi deriva (meccanicamente?) il linguaggio naturale è affascinante e ha un certo seguito. D'altro canto l'intera biblioteca di lavori sul linguaggio non verbale e su quello che zio Freud chiamava "inconscio" conferma la varietà comunicativa a margine del linguaggio.
RispondiEliminaIl problema, o meglio uno dei grossi problemi, sta in quel "meccanicamente" messo tra parentesi. I modelli che abbiamo attualmente sono incompatibili tra loro, oltreché sostanzialmente puerili, e tra i tanti Smolensky ha mostrato le enormi difficoltà nel derivare "meccanicamente" (se preferite, "computabilmente") le facoltà di "alto livello" (i.e. il linguaggio) da microdinamiche come le reti neuronali artificiali ANN, cioè da quella che oggi crediamo sia la base funzionale (con tutti i se e tutti i ma del caso).
Perciò occorre sempre stare estremamente attenti al riduzionismo: quando Ignazio Licata, cito a braccio, sbertuccia gli "eredi del sogno assiomatico di Hilbert" che vorrebbero "zippare l'Universo in una equazione" non sta certo prendendo per i fondelli Haskell Curry o William Lawvere e i suoi seguaci (sottoscritto incluso), ma vuol suonare la sveglia a quello scienziato naturale (presenti esclusi) che si illude che in Natura il "tutto si tiene" sia semplice da cogliere e da esprimere.
Dal canto mio, noterei solo che la tesi di Sapir-Whorf è verissima, ma solo da un dato valore di IQ in giù. Credo che solo qualche cartone animato sia riuscito a dare in modo efficace un'idea simbolica e visiva di cosa avviene nella testa oligoneuronale di un Homer Simpson qualsiasi il cui vocabolario include poco meno di centoventi parole, novantacinque delle quali (traslato da questa parte dell'Oceano) inerenti il calcio. :)
C'è la teoria del "mentalese" che trovo anche abbastanza plausibile, a qualche livello. Mi irritano solo un po' quei seguaci di Chomsky che ritengono di risolvere il tal modo i problemi filosofici riguardanti il significato, che ne vengono solo rimandati.
RispondiEliminaTemo di dover dire che da qualche anno mi irrita qualsiasi cosa ruoti attorno a Chomsky. Non ho mai tollerato il modo veemente in cui ha sempre preteso di aver ragione su Piaget (le cui idee invece hanno molti meriti). Ma soprattutto l'ho bandito dalle mie letture da quando - forse reso temerario dagli oggettivi successi scientifici di alcune sue brillanti intuizioni degli anni Sessanta - si sente autorizzato a pontificare a sproposito su tutto, e ad ammannirci i suoi pareri radicali (o ridicoli, basta comprare qualche vocale).
RispondiEliminaUna sorte che pare coinvolgere molti altri, bravi e meno bravi, anche nostrani: senza fare nomi, un divulgatore presenzialista che si crede tanto ganzo ed originale ad essere comunista ortodosso in un ambiente accademico monoliticamente comunista come Torino (dove si venerano i Pareyson e i Bobbio, e dove i soliti "collettivi" studenteschi hanno impedito di parlare non dico al Papa, ma ad un personaggio moderato come il buon Marcello Veneziani), e che ha restituito recentemente il premio Peano perché non gli garba uno dei recenti assegnatari, che è uno stimatissimo galantuomo e risponde al nome di Giorgio Israel.
Detto questo, giusto un paio di stimoli sul discorso di Gianni:
1) Sensazioni, emozioni, stati d'animo sono connaturati al cervello, eppure pressoché impossibili da "tradurre" col linguaggio (per fortuna abbiamo l'arte).
2) La definizione di "linguaggio" di riferimento è quella della linguistica. Quindi si parla di linguaggio naturale, che è in pratica l'insieme universo di simboli (e regole) dal quale poi si estraggono come sottoinsiemi propri i linguaggi formali.
3) "Nessun matematico pensa per formule", diceva il Genio di Ulm...
Non sono un matematico, sono un fisico. Ma penso per formule. Cioè il linguaggio matematico formale per me è molto più intuitivo di quello verbale. In realtà uso un metalinguaggio a un livello più astratto delle formule di matematica, almeno quando penso al mio lavoro, e questo mi aiuto a "trovare la strada" nelle formule, a cogliere collegamenti, relazioni. Ma mi rende molto difficile spiegarla a chi non ha la stessa forma mentale. E la pago con una grossa difficoltà a capire i segnali non verbali, per es. "abbocco" a qualsiasi scherzo. La musica invece mi risulta altrettanto intuitiva, anche se non ho talento musicale.
RispondiEliminaAh, sono convinto che senza linguaggio non esisterebbe matematica e fisica, quel che mi chiedo è se non esistano linguaggi altri, fatti in modo differente dal nostro, di cui quello matematico-fisico hanno degli elementi. Ad esempio mi affascina il linguaggio dei cetacei, così differente dal nostro da impedirci di capire se sia un vero linguaggio.
È per la gente come Chomsky che è stato inventato il termine, non sempre usato a proposito, di radical chic. Il logico torinese ne segue le tracce, anche se gli riconosco il merito di essere divertente.
RispondiEliminaGianni:
quel che mi chiedo è se non esistano linguaggi altri, fatti in modo differente dal nostro, di cui quello matematico-fisico hanno degli elementi. Ad esempio mi affascina il linguaggio dei cetacei, così differente dal nostro da impedirci di capire se sia un vero linguaggio.
Su questo potrei aprire una lunga e alquanto tediosa digressione: il tema è quello della "incommensurabilità" dei linguaggi, che è senz'altro un'idea affascinante. Ma ci sono anche ottime ragioni rifiutarla.
Se può interessare il classico di riferimento è questo (ma non è una lettura agevole).
tommy, molte cose che dici sono inquietantemente simili a quelle che dice il mio amico martin. secondo me dovreste conoscervi.
RispondiEliminaast
Ma è il come lo dice che costituisce un certo ostacolo (se è 'quel' Martin).
RispondiEliminaè proprio quel martin e sono sicuro che potreste andare d'accordo. per esempio la frase "se un leone potesse parlare non sarebbe più un leone" avrebbe potuto scriverla lui, solo che magari l'avrebbe scritta così: "se un ente dissimile da quell'ente che noi già sempre siamo potesse articolare la comprensibilità del Ci non sarebbe più un ente dissimile da quell'ente che noi già sempre siamo, il nulla nulleggia".
RispondiEliminaGianni, scusa ma dissento. Che mi dici di Faraday che ha scritto i suoi libri senza usare formule? E Einstein, che diceva che la relatività era una cosa semplice finché non sono arrivati i matematici? Secondo me c'è, nel mondo dei fisici di oggi, un'eccessivo desiderio di formalismo*, che si traduce a sua volta in un grande distacco del mondo accademico dalla realtà quotidiana.
RispondiEliminaPurtroppo sull'equazione di Schroedinger non posso dire, ché è al di là delle mie capacità di comprensione, ma riguardo le formule che uso nella mia vita da ingegnere, vedo PRIMA il fenomeno, e DOPO le leggi matematiche che ci stanno dietro. Io vedo la locomotiva a vapore e poi mi immagino dU=dQ-dL, vedo la pallina che cade e poi mi ricordo di z=1/2gt^2 (passando magari per qualche rappresentazione grafica). Sarà che da ingegnere sono costretto a fenomeni "quotidiani". Forse "vedere" quasar e bosoni di Higgs non è così immediato.
Di certo, finché qualcuno non trova un modo preciso, semplice, intuitivo di spiegare l'equazione di Schroedinger anche a chi è digiuno di simbolismo, saremo condannati a sentire i vari complottisti appellarsi alla "fisica quantistica" per giustificare le loro panzane. Mi fermo qui che mi sento già parecchio OT.
*Conosco un fisico che reputa le moto più sicure delle auto in quanto dotate di minore "sezione d'urto"...
Non avrei la competenza (che mi sembrate avere voi) per intervenire nel dibattito però parlando di "forme di pensiero non verbale" ho notato che, proprio come Gianni parla di "forma mentis" di chi utilizza spesso un linguaggio logico-matematico, mi sembra esistere una specie di "forma mentis artistica", un peculiare modo di pensare per associazioni mentali che ho riscontrato in diversi miei amici/amiche che hanno interessi profondi in campo artistico.
RispondiElimina@Leibniz reloaded
Sei stato un po' vago nella descrizione del divulgatore nn potresti darci un aiutino? ;D
Il discorso si fa interessante, anche se purtroppo tempo e spazio sono tiranni più che mai.
RispondiEliminaLa matematica è il linguaggio (e l'ossatura) delle scienze sperimentali e discipline descrittive, e la logica è il linguaggio (e l'ossatura) della matematica.
Ora, senza contraddizione col mio mestiere tecnologico e i miei studi interamente intrisi di formalismo logico-matematico, devo affermare che ha piena ragione Marco a sottolineare gli eccessi e i guasti del formalismo di matrice bourbakista, che ormai ha inquinato tutti i settori dello scibile: ormai ci sono simboli e formule logico-matematiche in ogni tipo di pubblicazione scientifica anche umanistica, si ricorre ovunque a formalismi strampalati e soprattutto spesso poco motivati, molti testi di filosofia analitica sono semplicemente illeggibili senza una preparazione postlauream in logica simbolica e altro formalismo matematico assortito.
Da un lato si deve avere l'onestà intellettuale di dar ragione a chi, come il premio Fields Frank Quinn, sostiene che gli enormi progressi matematici degli ultimi cinquanta o sessanta anni sono quantomeno favoriti e facilitati dagli elevatissimi standard di rigore simbolico-formale accettati dalla comunità internazionale (vulgo, i presenti confermino: le pubblicazioni scientifiche con referee sono quasi sempre e quasi tutte illeggibili perfino ad un "semplice" laureato in materia, come pure allo specialista che si occupa d'altro, principalmente per questioni di gerghi di nicchia e simbolismi).
Dall'altro lato, però, sono in prima persona da sempre impegnato in battaglie per la diffusione di un approccio logico-matematico alla Gian-Carlo Rota: costruttivo, computazionale, che privilegi ampiamente il discreto, l'algebra dei campi finiti, il dominio della calcolabilità. Appoggio pienamente non solo la scuola di Chaitin e Wolfram, ma anche le recenti istanze del vecchio amico/nemico Hofstadter sulla comprensibilità nella didattica e divulgazione della matematica, oltre ovviamente all'approccio della "Scienza Semplice".
A margine, prima di parlare del "modo in cui pensiamo" dobbiamo ricordarci che siamo tutti pesantemente condizionati da almeno uno o due decenni di mestiere. Ma quali erano i nostri processi mentali trent'anni fa, nell'età della formazione ? Quale la base naturale, l'inclinazione ? Sarebbero stati diversi i nostri processi mentali, in presenza di un diverso condizionamento ?
In coda: anch'io ho poderose capacità associative, eppure artisticamente (nel senso delle arti figurative...) non so fare un "O" col culo del bicchiere, tanto per dire. :)
Citare quell'aforisma di Einstein sui matematici che non penserebbero per formule è sempre divertente, doppiamente se c'è di mezzo un fisico condiscendente come l'amico Gianni.
Chiaramente Einstein non era un matematico, e come tutti ben sappiamo i tensori utilizzati nella formalizzazione della relatività sono dovuti al genio di due italiani, Ricci Curbastro e Levi Civita (in questa vicenda ci fu anche lo zampino del grande Riemann, tra l'altro).
Tuttavia fu sempre lui a rintuzzare il signor Mach (altra vecchia conoscenza per gli ingegneri) che aveva ancora una visione piuttosto galileiana: prima si fanno gli esperimenti, poi dai dati si estrapola la "legge di natura"... decisamente ingenuo, specialmente nel XX° secolo.
Einstein sostenne sempre, con forza, il paradigma attuale della fisica teorica. Il modello, l'intuizione matematica guidano la comprensione del fenomeno e la formulazione teorica: l'esperimento segue solo come conferma.
Mi pare che questo sintetizzi in qualche modo le posizioni di Marco e Gianni: più che di processi mentali e dotazione cognitiva, parlerei però di forma mentis professionale, dunque acquisita - per quanto una solida dotazione cognitiva o "inclinazione" di partenza sia sempre fondamentale: odio la scuola di pensiero rammollita e terrapiattista del "si può diventare qualsiasi cosa".
Oh, beh, se parliamo di inclinazioni personali, mia mamma ha un sacco di anneddoti da raccontarvi che dimostrano che difficilmente sarei potuto diventare un artista da mostre al Guggenheim :-)
RispondiEliminaNon penso di essere OT in un post che parla di linguaggio se dico quanto segue.
Leibniz, tu dici che "le pubblicazioni scientifiche con referee sono quasi sempre e quasi tutte illeggibili perfino ad un "semplice" laureato in materia, come pure allo specialista che si occupa d'altro"-
E come darti torto? Ma siamo sicuri che sia "giusto" così? Sarà perché da studente ho lavorato in un museo di divulgazione scientifica, sarà perché mi piace spiegare, ma io trovo che oggi ci sia uno iato impressionante tra la conoscenza scientifica del mondo accademico rispetto a quella dell'uomo della strada.
Controesempi: domenica scorsa Daverio su Rai3 raccontava di come l'astronomia, nel 18° secolo, fosse diventata "trendy", con astrolabi diffusi come oggi gli iPhone. Oggi, quando dico (per far colpo sulle ragazze, ma non funziona) "quello lì è Giove", se mi va bene mi chiedono come faccio a saperlo.
O ancora: Focault che fa la prova del famoso pendolo, davanti ad una folla estasiata; come anche per le emisfere di Magdeburgo, mostrate direttamente davanti all'imperatore. Vorrei vedere oggi una ricerca di bosoni W e Z davanti a Napolitano!
Ancora: uno degli scogli più grossi che incontrai sul mio cammino universitario fu la notazione vettoriale delle grandezze di corrente alternata. La luce mi si aprì con un paio di disegnetti. Prima sapevo le formule, ma sapevo anche di non averle capite. Viceversa dopo averle capite, le formule non avevo più bisogno di ricordarmele, perché in qualsiasi momento, figurandomi triangoli e freccine, me le potevo ricostruire. E il significato intimo di quelle formule si può condensare in una frase: "inutile spingere un'altalena nel momento sbagliato". Eppure, trovatomi di fronte ad un professore ottuso che (di questo ne sono ormai certo) NON VOLEVA che noi capissimo, ho impiegato giorni di "studio matto e disperatissimo" per venirne fuori.
Ma quel professore, e i suoi emuli, deve rendere conto all'uomo della strada per i suoi finanziamenti. Avete visto le reazioni isteriche dei complottisti per l'avvio dell'LHC? Sono campanelli di allarme che denotano che non parliamo più la stessa lingua. Ma forse sono anche sintomo che non capiamo completamente quello che ci illudiamo di dominare con le formule.
l'esperimento segue solo come conferma. -
RispondiEliminaNon ti seguo: Einstein "nasce" dopo gli esperimenti di fizeau, Michelson e Morley ecc. Se non ci fosse stato qualcuno che si fosse messo a cercare l'etere, non ci sarebbe stata la necessità di introdurre una nuova teoria della relatività. Idem per i quanti con la "catastrofe ultravioletta": ci voleva uno spettroscopio per vedere la Planckiana. Lo spettroscopio sta a Planck come i campanelli in progressione geometrica sul piano inclinato stanno a Galileo.
E' certramente bello avere una teoria scoperta "di qua" che poi funziona anche "di là", e c'è un ciclo esperimento-teoria come uovo-gallina. Ma possiamo stare sicuri, almeno qui, di chi sia nato prima.
Non avendo una carriera scientifica, a me viene in mente un esempio più terra terra per quanto rigurda i modi peculiari di pensiero di certe categorie: il giocatore esperto di sudoku. Dopo un po' di tempo il giocatore di sudoku non ha bisogno di concettualizzare o verbalizzare a se stesso certi nessi e soluzioni, ma semplicemente le "vede", in un modo che magari farebbe fatica ad esprimere. Però possiamo anche essere certi, che dietro l'intuizione, un modo di esprimere in parole piane il procedimento c'è, altrimenti non si avrebbe nessuna garanzia che l'intuizione sia effettivamente corretta.
RispondiEliminaPenso che Leibniz si riferisse alla visione empirista ingenua, secondo cui lo scienziato "dalla mente aperta e scevra di pregiudizi" si lascia guidare dalla sola esperienza nella formulazione delle teorie. In genere le teorie più geniali precedono gli esperimenti che le confermano, anche se è vero che particolari osservazioni di anomalie empiriche possono fungere da stimolo.
RispondiEliminaBoh, per unire l'utile al dilettevole e tagliare la testa al toro, direi di prendere questa affermazione di Gianni:
RispondiElimina"Del resto come leggeresti una formula un po' complessa (che so, l'equazione di Schroedinger) a parole? Io non ci riesco"
e chiediamogli di comunicarcela in termini semplici. Se ci riesce ha torto, se restiamo caproni sul tema, ha ragione :-)
Son fuori sede e temevo di dover rimandare il resto della discussione su Einstein e Mach al momento in cui avessi potuto produrre qualche citazione, ma un salto non programmato in biblioteca e una gentilissima signorina mi hanno aiutato anzitempo.
RispondiElimina«Nel 1922 Einstein dichiarò la sua posizione davanti a un pubblico di filosofi e non esitò ad affondare una dura critica alle idee di Mach sullo sviluppo del sapere scientifico: “Il sistema di Mach [consiste nello] studio delle relazioni che sussistono fra i dati sperimentali; secondo Mach, la scienza è la totalità di queste relazioni. Si tratta di un punto di vista scorretto: in effetti, quello di Mach era un catalogo, non un sistema. Bravo in meccanica, ma debole in filosofia: una visione miope della scienza lo indusse a respingere l'esistenza degli atomi; forse la sua opinione sarebbe differente se fosse vivo oggi.”.
Einstein, da parte sua, non poteva certo negare il valore ontologico della matematica e si opponeva con forza alla sua riduzione a strumento economizzatore della scienza, così come esigeva il pensiero machiano.»
(Rossana Tazzioli, "I grandi della scienza: Riemann", anno II n. 14 aprile 2000, pag. 93)
Segue una serie di considerazioni dell'autrice sulla visione di Einstein del ruolo fondante del calcolo tensoriale "senza il quale i principi della teoria einsteniana della relatività non avrebbero potuto esprimersi": considerazioni peraltro ampiamente condivisibili dal punto di vista epistemologico.
Credo che già questo, senza metter mano ad altri volumi, sia sufficiente a spiegare lo spunto fornito sopra.
Quindi secondo te senza il calcolo tensoriale non si può esprimere e dunque capire la relatività? Non è una domanda polemica/retorica.
RispondiEliminaTrovo giustissime le parole di Einstein: magari solo un pochetto ingenerose, nel senso che è proprio lo sfrenato empirismo machiano che lo portò ad anticipare certe intuizioni presenti nella teoria della relatività.
RispondiEliminaSpero di non dire grosse sciocchezze, ma credo che la relatività ristretta, teoria tutto sommato non particolarmente astrusa, possa anche fare a meno del calcolo tensoriale. Quella generale magari no, e infatti io non sono mai riuscito a capirci niente.
RispondiEliminaIl punto fondamentale è che senza il lavoro di Ricci e Levi-Civita il buon Einstein non avrebbe potuto formalizzare la sua teoria e le sue intuizioni, rendendole rigorose a sufficienza.
RispondiEliminaEsistono però vari livelli di comprensione, e tutti ne abbiamo un buon esempio per analogia proprio sotto i polpastrelli in questo momento.
Il mondo è pieno di persone che usano un calcolatore, ma sovente conoscono a malapena la distinzione tra memoria centrale e memorie di massa.
Di più: ci sono interi forum di appassionati (magari nella vita solerti ragionieri, cassieri o funzionari di vendita) che discettano nei dettagli di pipeline e north bridge ma sbiancherebbero di fronte alle banali equazioni di un opamp e perfino ai parametri ibridi di un transistor, quindi sono anni luce lontani dal saper leggere il progetto di una CPU a livello di polisilicio e OBDD, e perfino un banale schema elettrico.
Ciò non toglie che la comprensione che costoro hanno del calcolatore colga in modo efficace un dato livello funzionale dell'apparato, più o meno macroscopico e approssimativo.
Comprensione che, in qualche maniera, viene veicolata da riviste, tutorial, descrizioni di varia natura.
In una parola, divulgazione.
Qui poi dovremmo parlare anche di riduzionismo, attingibilità del "reale" dalle teorie fisiche e di metafisica della verità, ma limitiamoci all'ABC.
Allo stesso modo, i puri concetti e gli oggetti della relatività generale o dell'algebra topologica o della teoria dei campi o del lambda calcolo o di quel che vogliamo prescindono in larga misura dai simboli e dai formalismi (le loro definizioni sono date in termini di altri oggetti e concetti, e in ultima analisi essi sono definiti in un subset "abbastanza" rigoroso del linguaggio naturale), e come tali possono essere trasmessi con un grado di approssimazione accettabile.
Non adagiamoci troppo fideisticamente, comunque, sul rigore delle definizioni iniziali e sulla "intuitività" degli assiomi, ché di controesempi ne ho un arsenale. I meri concetti di punto, spazio, appartenenza, insieme nascondono insidie mortali dal punto di vista del rigore logico, e sono almeno ottant'anni che si cerca di "farli fuori" con teorie astrattissime (vedi Grothendieck o la teoria algebrica degli insiemi) che paradossalmente generano rigorosi formalismi che risultano semplicissimi e di rara eleganza, come i dessins d'enfants o i grafici categoriali.
Per l'approssimazione concettuale, non occorre che il sottoscritto ricordi qui che anche nei calcoli ingegneri e fisici devono essere soltanto precisi quanto basta (magari Gianni userà venti o venticinque cifre del pigreco quando gli serve, o l'equivalente floating point, ma sa benissimo che è un numero reale con parte decimale aperiodica illimitata): gli unici con obbligo contrattuale alla massima precisione possibile sono matematici e logici.
In effetti vi sono decine di testi anche eccellenti di divulgazione fisica senza neppure una formula (Smolin, Sagan, Hawking, Greene, Guth, Barrow...), ma dopo trent'anni di amene letture non posso proprio dir lo stesso del settore matematico.