"L'uomo è misura di tutte le cose", disse Protagora, il filosofo greco inventore del relativismo culturale, intendendo che valori come "bello", "buono", "giusto" non possono essere considerati come assoluti ed eterni, ma dipendono dalle preferenze individuali (ciò che piace a me potrebbe fare schifo a te) oppure dal contesto sociale e antropologico nel quale vengono calati.
Nell'opera Le antilogie (Ragionamenti contraddittori) a lui attribuita, uno dei primi esempi che vengono fatti per illustrare le diversità di costumi dei vari popoli e quindi la relatività dei valori, è quello del cannibalismo.
Presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l'una e l'altra cosa. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne indorato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dei; invece, presso i Greci neppure si vorrebbe entrare nella casa di uno che avesse compiuto tali cose. I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l'esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come donne, e si congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello, presso i Greci, nessuno le vorrebbe sposare. Anche gli Egizi non s'accordan con noi su ciò che è bello; qui è ritenuto bello che sian le donne a tessere e filar la lana; lì invece gli uomini, e che le donne facciano quel che qui fanno gli uomini. Impastare l'argilla con le mani, e la farina coi piedi, lì è bello, ma per noi è tutto il contrario.
L'usanza del cannibalismo, uno dei più forti e sentiti tabù della nostra cultura, è spesso stata utilizzata e citata come paradigma della diversità culturale, ma anche come principale terreno di scontro nei dibattiti fra etnocentristi e relativisti.
La parola "cannibale" deriva da "canibal" (probabilmente una storpiatura di "cariba", ovvero abitante della regione dei Caraibi), popolazione che venne nominata a Colombo dagli indigeni americani con cui stabilì i primi contatti, e che egli volle credere fossero i sudditi del Gran Khan. Shakespeare avrebbe ulteriormente storpiato il termine per dare il nome al suo personaggio Calibano, nella Tempesta (colui che ha imparato l'uso del linguaggio, ma solo per lanciare maledizioni). In realtà la parola dovrebbe significare qualcosa come "gente coraggiosa".
Questa popolazione comunque era ritenuta dedita all'usanza del cannibalismo, o almeno così venne detto a Cristoforo Colombo dagli indigeni spaventati. In realtà lo stesso Colombo accolse la notizia con un certo scetticismo, nonostante la sua credulità in molte altre faccende (sirene, isole abitate da sole donne, o da uomini con la testa di cane), ma la notizia che il Nuovo Mondo era abitato da popolazioni cannibali non tardò ad arrivare in Europa.
Le notizie però non si limitavano ai soli Caraibi: gli Aztechi praticavano sacrifici umani e il cannibalismo di massa, mentre una famosissima testimonianza oculare relativa al cannibalismo arriva nella metà del Cinquecento da Hans Staden, un soldato tedesco che in Brasile venne catturato dai Tupinamba, e che fu l'unico dei suoi compagni a sfuggire alla orribile sorte di essere squartato e mangiato.
Ciò non poteva non influire sulla percezione europea dei nativi americani e sul dibattito riguardo al trattamento più o meno umano da riservare loro. Cannibalismo e sacrifici umani erano appunto le accuse più pesanti rivolte agli indiani per giustificarne la schiavitù, nella famosa disputa di Valladolid sui loro diritti svoltasi nel 1555 fra il domenicano Bartolomeo de Las Casas (a favore degli indiani) e Juan Ginés de Sepulveda (contro). Nella sua difesa degli indiani, a giustificazione del cannibalismo Las Casas ricorse ad argomenti non troppo convincenti ("sono cose che capitano anche da noi, in condizioni di estremo bisogno"), non disponendo appunto in modo consapevole e maturo dell'arma ideologica fornita dal relativismo (riuscì comunque a vincere la disputa).
Fu Montaigne a evidenziare per primo (dopo Protagora) il tema della molteplicità delle culture, e il loro essere giudicabili solo a partire dai parametri di riferimento forniti dalla stessa cultura in esame, nel suo celebre saggio Sui cannibali. Barbari e civilizzati sono etichette che possono facilmente scambiarsi di ruolo, a seconda dei punti di vista:
Ora mi sembra che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto mi hanno riferito, se non che ognuno chiama barbaro quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.
Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo, che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martirii un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere o dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini, e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.
Quando l'antropologia culturale diviene una scienza matura, tuttavia, queste argomentazioni non vengono più percepite come sufficienti. Il cannibalismo, il cibarsi della carne del proprio simile, è ritenuta cosa troppo orribile e repellente perché ci si limiti a constatare la diversità dei costumi dei vari popoli. Il cannibalismo, per essere accettato, deve anche essere razionalizzato, compreso. Esso deve apparirci in una prospettiva, per così dire, più positiva. Altrimenti i razzisti e gli imperialisti potrebbero sempre usarlo come scusa per colonizzare gli altri popoli.
Nascono così le interpretazioni "simboliche" dell'antropofagia, spesso di matrice strutturalista. Solo gli ignoranti accecati dall'etnocentrismo possono davvero credere che una persona possa scegliere di cibarsi di carne umana semplicemente perché concepisce il prossimo suo come "nutrimento", e non come una persona. Al contrario, cibarsi del prossimo significa rispettarlo, rendergli onore. Ci si nutre del corpo del nemico ucciso, perché si vuole assimilarne le doti di coraggio e di forza. E il tutto avviene sempre in un contesto molto connotato dal punto di vista simbolico e rituale.
C'è chiaramente una certa tensione, in queste interpretazioni: da un lato non si accetta di bollare il prossimo come "cattivo" solo perché diverso da noi. Dall'altro si inventano giustificazioni di questa diversità, in modo che essa ci appaia in una luce più favorevole. È questa la fase "politically correct" , o buonista, della letteratura antropologica relativa al cannibalismo.
Politicamente scorrettissima, quindi, apparve l'opera di Marvin Harris, antropologo di formazione marxista, al suo apparire. In Cannibali e re, e poi in Buono da mangiare, Harris si fa gioco delle interpretazioni simbolico-strutturali del cannibalismo, giudicate come vacue, e afferma con crudezza che le motivazioni di questa pratica vanno semplicemente cercate nel bisogno di proteine animali.
Secondo Harris il cannibalismo è un'usanza normale nelle società guerriere di tipo pre-statale: cibarsi del nemico ucciso è solo un modo per ammortizzare le spese di una campagna di guerra condotta lontano da casa e senza che si disponga di una adeguata scorta di viveri. È solo con la nascita dello Stato che tale usanza diviene un tabù, e per motivi prettamente economici. Il nemico, da semplice ostacolo da eliminare, diventa potenziale suddito e pagatore di tributi al re. Ucciderlo per mangiarlo diventa uno spreco di preziose risorse, esattamente come cibarsi di un cavallo per un soldato, o di una vacca per un indiano.
Harris ha difficoltà solo a spiegare il cannibalismo degli Aztechi nel suo modello, dato che si trattava di una società statale estremamente avanzata e complessa, ma se la cava mostrando che l'ecosistema mesoamericano forniva uno scarso apporto di proteine animali, e anche che la mancanza di animali domestici di grossa taglia da usare come bestie da soma rendeva meno praticabile un'economia basata sul lavoro degli schiavi, rendendoli più appetibili come cibo (comunque riservato all'elite).
La reazione "buonista" a questa interpretazione oltraggiosa è piuttosto radicale: così William Arens nel libro Il mito del cannibale, arriva addirittura a negare la stessa esistenza del fenomeno, almeno come pratica comune e accettata culturalmente dai membri di una data società. Tutte le storie relative al cannibalismo, afferma Arens, sono state inventate dai colonialisti cattivi come pretesto per soggiogare e sfruttare gli altri popoli. Certo, è piuttosto facile dimostrare una tesi del genere, una volta che si è deciso di liquidare tutte le testimonianze, anche quelle dirette come quella di Staden, come menzognere o non attendibili (come curiosità, le tesi di Arens erano citate spesso nei film italiani degli anni '70 del sotto-genere "cannibale", dove però gli antropologi che difendevano tale posizione "progressista" finivano regolarmente mangiati).
Arens comunque riesce a persuadere del fatto che, se non proprio inesistente, il cannibalismo è fenomeno comunque esagerato nella sua estensione e anzi piuttosto raro. Molte delle testimonianze sono in effetti di seconda mano, e potrebbero anche essere il frutto di equivoci culturali: se dovessimo dare retta a tutte le fonti che parlano di cannibalismo dovremmo infatti accettare l'idea che erano cannibali i primi cristiani dell'antichità, come ventilato dai loro oppositori, per non parlare dell'accusa del sangue che viene periodicamente rivolta agli ebrei dai cospirazionisti antisemiti. O ai comunisti (dove l'origine della diceria risale alla grande carestia russa del 1921-23).
Una delle prove ritenute più sicure dell'esistenza del cannibalismo fino a tempi recenti, ci fa anche capire come mai, tutto sommato, questa usanza sia così rara. Riguarda le scoperte mediche di Carleton Gajdusek in Nuova Guinea, il quale identificò la prima malattia causata da lenti-virus (quelli che oggi sono stati più correttamente identificati come prioni), vincendo un Nobel per questo. Gajdusek pensava che l'origine della malattia (il kuru) fosse da cercarsi nel consumo della carne dei defunti, dissotterrati e mangiati.
In realtà anche le prove di Gajdusek sono state contestate (gli si oppone il fatto che il contagio sarebbe potuto avvenire con modalità diverse) nonostante lui affermasse di aver persino assistito a banchetti cannibali. Però le sue ricerche dimostrano che mangiare i parenti defunti è abitudine in effetti poco igienica per almeno due motivi: la prima è strettamente sanitaria (il cervello di una persona morta, e forse anziana e malata, potrebbe contenere prioni nocivi). La seconda è più sociale: non è molto sostenibile un sistema dove consanguinei e congiunti sono anche considerati fonte di nutrimento. Ogni morte diviene sospetta, e le accuse di stregoneria dilagano. Eppure, proprio il fatto che la stregoneria è cosa che viene presa molto sul serio in praticamente tutte le società più "primitive", dovrebbe far sospettare che qualcosa di concreto ci sia.
Questo però non vale per il cannibalismo guerriero secondo il modello di Harris, che probabilmente era il più diffuso nelle società pre-statali. Ma la political correctness di Arens ha comunque mietuto le sue vittime, dato che oggi è diventato difficile trovare testi sulla storia di qualche popolazione che menzionino questo aspetto sgradevole del loro passato. I Maori? erano vegetariani, non vi preoccupate quando digrignano i denti, è un gesto d'affetto. I Samoani nella descrizione di Margaret Mead costituiscono lo stereotipo stesso del "buon selvaggio", eppure c'è chi ha collegato l'attuale incidenza di obesità e la vera e propria dipendenza di molti Samoani dalla carne in scatola (la Spam che dà il nome alle mail spazzatura) all'antica usanza di mangiare carne umana. E anche riguardo agli Aztechi, se si fa spesso menzione dei sacrifici umani, si è molto più prudenti nel parlare di cannibalismo, perché i loro attuali discendenti potrebbero offendersi.
Una delle prove più attendibili riguarda il ritrovamento di resti umani e ossa, in un sito archeologico collegato alle presenza degli indiani Anazasi in America del Nord circa 800 anni fa, dove tali reperti mostrano segni inequivocabili di cottura e di masticazione da parte di altri esseri umani (o meglio mostravano, visto che sono stati seppelliti di nuovo). Ma i discendenti degli Anazasi, altro popolo per cui gli adepti della new age vanno in sollucchero, non l'hanno presa bene. Ma se è vero che, nella dottrina del relativismo culturale, ogni usanza è giudicabile solo secondo gli stessi parametri della cultura di appartenenza, che c'è da vergognarsi?
Ricordo un documentario su una tribu dell'Amazzonia dove le ceneri dei morti venivano mescolate ad una specie di "crema" fatta con le banane e mangiate.Questa cerimonia rituale aveva garantito alla tribù una fama di "cannibale".
RispondiEliminaGrazie per il tuo documentatissimo post!!
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