
Se
Alan Turing ha elevato il linguaggio, la capacità di conversare e produrre enunciati dotati di senso, a criterio per stabilire quando una qualsiasi macchina possa davvero essere considerata "pensante", è perché il linguaggio è effettivamente una delle abilità più sorprendenti e uniche degli esseri umani. In realtà uno dei difetti del test di Turing è che è persino troppo esclusivo. Sarebbe già un grande risultato, per l'IA, costruire un robot con l'intelligenza di un cane, ma una macchina del genere non potrebbe mai superare il test.
Già Cartesio, del resto, aveva negato un'anima agli animali non umani, proprio sulla base del fatto che essi non parlano. Secondo Cartesio non c'è niente che un animale faccia che non possa essere riprodotto anche da uno stupido meccanismo privo di qualsiasi intelligenza. Gli animali non sono altro che macchine complesse, i cui movimenti possono essere equiparati a un sistema di leve e pulegge, che agiscono in un determinato modo a determinati stimoli. L'apparente intelligenza del loro comportamento è solo un segno della bravura del progettista, il Creatore.
Gli uomini, in quanto animali, cioè in quanto esseri corporei, non si distinguono affatto dalle altre creature. Essi però sono anche dotati di un principio incorporeo, di una sostanza immateriale che si chiama "anima", e che miracolosamente riesce anche ad avere un effetto sui corpi materiali. E la migliore prova empirica dell'esistenza di questa "sostanza pensante", per Cartesio, è proprio il comportamento verbale (separatamente dalle argomentazioni a priori, quali il
cogito ergo sum).
Il comportamento verbale umano infatti esibisce quelle caratteristiche di creatività che sembrerebbero inspiegabili, da un punto di vista rigidamente materialista. Esso ad esempio consente, a partire da un vocabolario finito, di generare un'infinità potenziale di nuovi enunciati, corrispondenti ai "pensieri" nella testa di chi parla, e riferentesi a qualsiasi possibile situazione reale o immaginaria. Il linguaggio è un coltellino svizzero, che si presta a molteplici usi: con esso è possibile non solo comunicare situazioni di fatto o impartire ordini ("mi stai pestando un piede, levalo"), ma è possibile mentire o ingannare il prossimo ("guarda dietro di te, una scimmia a tre teste!"), inventare storie per il semplice piacere di farlo ("c'era una volta..."), scrivere poesie ("il verde melograno, a cui tendevi la pargoletta mano"), esprimere i propri sentimenti, insultare il prossimo, fare promesse o minacce, discorsi celebrativi, eccetera eccetera.
È questa la caratteristica del linguaggio che lo distingue dalla semplice comunicazione, che esiste anche nelle forme di vita più infime. Anche le api, per esempio, hanno un sistema di comunicazione piuttosto elaborato che gli permette di comunicare alle compagne la posizione e la distanza, relativemente all'alveare, di una fonte di polline. Stupefacente, non c'è dubbio, ma ancora niente rispetto alle capacità esibite dagli umani.
Le tesi dualiste di Cartesio sulla rigida separazione fra anima e corpo sono oggi quasi universalmente rifiutate, ma è opinione diffusa tra i filosofi contemporanei, ancora, che il linguaggio non sia semplicemente "espressione" del proprio pensiero, ma che in una certa misura esso "costituisca" la stessa essenza del pensiero elaborato, o almeno lo condizioni pesantemente. La formulazione vaga di questo principio è dovuta al fatto che non esiste accordo sul suo significato preciso: si va dalle tesi estremiste secondo cui il contenuto dei pensieri di una data persona è limitato dal suo vocabolario e rispecchia la sua grammatica (tesi di Sapir-Whorf), a quella innocua e banalmente vera secondo cui non sarebbe possibile formulare certi pensieri senza l'ausilio del linguaggio (es. "oggi è martedì").
Se una qualche versione intermedia di questo principio è corretta (come credo), significa che è molto rischioso e azzardato formulare ipotesi di tipo antropomorfo riguardo al contenuto mentale degli animali non umani, anche di quelli più intelligenti e dalle capacità cognitive più elaborate. Dobbiamo resistere all'idea per la quale gli animali "pensano" nello stesso senso in cui noi "pensiamo", o che abbiano il nostro stesso tipo di "intelligenza". Wittgenstein diceva che se un leone potesse parlare noi non lo capiremmo, ma forse è più corretto dire che se un leone potesse parlare non sarebbe più un leone, perché sarebbe un nostro simile. Il linguaggio umano è un unicum in natura, che rende l'uomo una cosa speciale fra tutte le altre creature.
Non necessariamente migliore, più nobile, o più in alto nella scala evolutiva: in fin dei conti anche altri animali esibiscono caratteristiche uniche e speciali, come potrebbe essere il caso dell'elefante e la sua proboscide. Il linguaggio (e il pensiero razionale) non è una caratteristica interessante perché ci pone al vertice del creato o ci dà il diritto di fare quello che vogliamo degli altri animali non intelligenti (anche se ci dà un grande potere). È interessante per noi uomini perché siamo uomini, e ci interessa quel che ci riguarda in modo speciale.
Ora, il fatto che questo suoni ancora troppo antropocentrico è probabilmente all'origine dei tentativi che sono stati effettuati nei decenni passati per rovesciare questo particolare primato dell'uomo sulle altre specie. Certe motivazioni ideologiche sono persino condivisibili, se servono a rovesciare l'illusione che l'uomo sia padrone del mondo e al centro dell'Universo, creato a immagine e somiglianza di Qualcosa e non in continuità con la natura. Ma sempre di ideologia si tratta, e non dovrebbe inquinare la ricerca scientifica. È quanto è successo, invece, con le celebri ricerche sulle scimmie e il linguaggio dei segni.
Le scimmie sono i nostri parenti più prossimi, quindi è giusto cercare lì le origini delle nostre peculiari capacità. E in effetti animali come gorilla e scimpanzé esibiscono della abilità comunicative non comuni. La loro esistenza è fondata in gran parte sullo scambio di segnali, che possono essere fondamentali per la sopravvivenza a breve termine ("attenzione, un serpente!"), ma anche svolgere un ruolo importante per quanto riguarda la coesione del gruppo e lo scambio di informazioni al suo interno.
Alcuni ricercatori però, a partire dagli anni Settanta, piuttosto che studiare e analizzare la comunicazione scimmiesca nel suo ambiente naturale (cosa che sarebbe stata molto interessante) hanno invece cercato di insegnare alle loro scimmie da laboratorio proprio il linguaggio umano. Per capirci, sarebbe un po' come prendere un piccione e dire "siccome vogliamo capire come fa a volare, proviamo a fargli pilotare un aereo di linea". E queste ricerche sono diventate famosissime, finendo ad esempio nel bel romanzo
Congo, di Micheal Chrichton, la cui protagonista è proprio un gorilla parlante, Amy, ispirata però da casi realmente esistenti e altrettanto famosi, come gli scimpanzé
Washoe e
Nim Chimpsky (il cui nome vorrebbe essere un omaggio o una presa in giro di Noam Chomsky), e il gorilla
Koko (forse l'unico gorilla femmina al mondo ad essere stata accusata di molestie sessuali sulle ricercatrici).
Uno dei primissimi tentativi di insegnare il linguaggio alle scimmie fu effettuato dai coniugi Kellogg, i quali a partire dal 1968 decisero di allevare uno scimpanzé, Gua, e di crescerlo in compagnia del loro vero neonato, Donald, esattamente come se fossero fratelli. L'idea alla base dell'esperimento era che crescendo nello stesso ambiente e ricevendo lo stesso tipo di trattamento i due avrebbero forse acquisito insieme le stesse capacità, aiutandosi l'un l'altro. Inizialmente Gua si dimostrò più sveglio dello stesso Donald: all'età di 16 mesi era in grado di comprendere 100 parole (o comandi verbali), più di quanti fosse capace di comprenderne Donald, ma non andò oltre. In seguito l'esperimento venne interrotto perché ci si accorse che Gua aveva una cattiva influenza su Donald: praticamente non era lo scimpanzé che apprendeva dall'umano, ma l'umano che stava diventando uno scimpanzé (natura - cultura = 1-0).
Washoe, un altro scimpanzé, venne allevato a partire dal 1967 dai coniugi Gardner i quali, avendo constatato l'impossibilità per le scimmie di acquisire il linguaggio verbale a causa di limiti fisiologici, decisero di insegnargli l'ASL, la lingua americana dei segni. Essi, seguendo la scuola comportamentista allora in auge, ricorsero alla tecnica del "condizionamento operante", ovvero cercarono di incoraggiare l'uso dei segni con adeguate ricompense. Ad esempio Washoe aveva capito che poteva ottenere maggiori quantità di una cosa desiderata se avesse usato il segno corrispondente a "more", "di più", e aveva afferrato il concetto estendendolo anche a situazioni diverse da quella in cui si era verificato l'apprendimento originario (in pratica, una volta imparato a chiedere più banane, si allargò fino a chiedere più noccioline). Washoe avrebbe imparato in questo modo qualcosa come 250 segni, ma secondo i resoconti più favorevoli ne avrebbe imparati alcuni anche senza condizionamento, ma per semplice imitazione, o addirittura ne avrebbe ideati di nuovi combinando i precedenti segni.
Nello stesso periodo, un altro scimpanzé, Nim Chimpsky, veniva educato al linguaggio dei segni da un altro gruppo di ricercatori, facenti capo a Herbert Terrace. L'esperimento era stato progettato esplicitamente allo scopo di smentire le tesi di Noam Chomsky secondo cui solo gli umani hanno un linguaggio vero e proprio. I risultati però furono molto più deludenti di quelli ottenuti da Washoe. Anche se Nim Chimpsky aveva imparato 125 segni (molti di meno secondo altre valutazioni), Terrace ne trasse l'impressione che il suo non potesse affatto essere descritto come un vero linguaggio, dotato di una vera sintassi generativa in senso chomskiano. Tutto quel che Nim poteva fare era, appunto, imitare certi segni nel contesto appropriato, mentre per il linguaggio si richiede qualcosa di più, e cioè l'uso delle regole grammaticali per generare nuove frasi e nuovi significati a partire dal vocabolario di base.
I supporter di Washoe osservarono che Nim era stato allevato in condizioni diverse da quelle della loro scimmia: in gabbia e in ambiente asettico, mentre Washoe veniva trattata in modo simile a un essere umano. Terrace, invece, osservando i filmati relativi a Washoe, ne concluse che il suo progetto era fallito esattamente nella stessa maniera in cui era fallito quello di Washoe: nemmeno lei aveva appreso l'uso del linguaggio in un senso vicino a quello umano. Scoppiò allora la grande controversia, mai del tutto sopita, fra difensori e oppositori del linguaggio scimmiesco, nel corso della quale Terrace venne persino accusato di voler sabotare il lavoro degli altri ricercatori.
Sebbene sia evidente che gran parte del disaccordo nasca da incomprensioni reciproche e dalla difficoltà di stabilire che cosa si intenda esattamente per "linguaggio", sembra assai probabile che la maggior parte dei resoconti più entusiastici siano viziati da uno scarso controllo sulla metodologia e da un certo auto-inganno compiacente con i risultati che si desidera ottenere (volendo escludere la frode vera e propria dalle ipotesi alternative). Avendo a che fare con gli animali, il rischio dell'antropomorfizzazione, ovvero di proiettare su di loro pensieri e comportamenti umani che in realtà non gli appartengono, è sempre fortissimo. Su coloro che insegnavano il linguaggio a Washoe, potrebbe aver agito quella che è una delle più vecchie e semplici illusioni: l'effetto "
bravo Hans".
Hans era un cavallo che sapeva contare e fare le addizioni e altre operazioni, e che per questa sua capacità si esibiva nei circhi all'inizio del secolo scorso (nel 1904 finì anche sulle pagine del
New York Times). Durante le esibizioni, una persona del pubblico lanciava la sua sfida, ad esempio "5+3", e allora Hans batteva con lo zoccolo per terra otto volte di seguito, poi si fermava, con meraviglia dei presenti. In realtà venne poi dimostrato che Hans non faceva che reagire al linguaggio corporeo del suo istruttore, il quale era persino inconsapevole di comunicargli involontariamente, con un quasi impercettibile movimento, il momento giusto in cui doveva fermarsi. Hans non sapeva fare le somme, ma avrebbe potuto essere una buona macchina della verità.
Che qualcosa di simile sia avvenuto con le scimmie e con il linguaggio dei segni è stato confermato quando ai progetti di addestramento cominciarono a partecipare anche ricercatori sordi, che avevano appreso il linguaggio dei segni come prima lingua. È da notare che fino a non troppo tempo fa anche relativamente al linguaggio dei segni vi era l'equivoco (a volte alimentato dagli stessi sordi) di non considerarlo un vero e proprio linguaggio affine a quello verbale, ma qualcosa di più simile a una pantomima, a un gioco dei mimi più elaborato e complesso. Questo alimentava l'illusione, negli stessi sordi, che quella dei segni fosse una forma di comunicazione più "naturale" e vicina alle cose stesse, invece che basata sulla convenzione e la grammatica come quella tradizionale. In realtà è stato dimostrato che l'ASL e affini sono lingue a tutti gli effetti in senso chomskiano, e delle quali sono pure state pubblicate le grammatiche relative.
Eppure questa confusione doveva essere operante in coloro che studiavano Washoe, i quali volevano confondere qualsiasi segno o gesto usato dalla scimmia in un enunciato corretto dell'ASL. Gli studiosi sordi, però, erano in grado di riconoscere molti meno segni rispetto agli altri ricercatori. Il linguaggio dei sordi non è insomma un semplice gesticolare – così come parlare non significa solo emettere suoni più o meno articolati – e se può essere confuso come tale dai profani, ciò non avviene certo con chi lo usa dalla nascita. In altre parole, nel mentre per un normale osservatore Washoe stava facendo il segno che significa "mangiare", per un sordo si stava solo portando la mano alla bocca. Se per un normale osservatore Washoe stava facendo il segno che significa "grattarsi", per un sordo si stava solo grattando.
Quando il saggio indica la Luna lo stolto guarda il dito. In questo caso, però, è avvenuto che la scimmia mostrava il dito e lo stolto guardava la Luna.