Nella sera del 21 luglio del 2001 i
reparti della polizia mobile, col supporto dei carabinieri, fecero irruzione
nella scuola Diaz di Genova, dove erano accampati gli attivisti del Genova
Social Forum che protestavano contro il G8 che si teneva in quei giorni in
città. In un’atmosfera già surriscaldata dagli scontri di piazza e dalla morte
– il giorno precedente – del manifestante Carlo Giuliani, l’irruzione si
risolse in un pestaggio violentissimo e indiscriminato che fece in seguito
parlare il vicequestore Michelangelo Fournier, presente agli avvenimenti, di
una scena da “macelleria messicana”.
Sebbene l’espressione venne già usata
nel corso di un interrogatorio a ridosso degli avvenimenti, nel 2001, acquistò
popolarità nei media soltanto qualche anno più tardi. Il curioso modo di dire
con tutta probabilità evocava, nell’immaginario dei lettori, una situazione di disordine
e scarsa igiene, come può essere quella di un luogo addetto alla macellazione
di animali in un paese percepito come “terzo mondo” (anche sotto l’influenza
del cinema americano) e quindi carente quanto a normative sanitarie. Oppure il
fatto che il Messico è effettivamente considerato come uno dei luoghi più
pericolosi dove vivere, a causa della violenza dei narcotrafficanti.
Qualcuno però si ricordò che Fournier
non era stato il primo a usarla, e che quindi si trattava in realtà di una
dotta citazione (come confermato dalla frase, successivamente pronunciata in
un’intervista: “mannaggia a me e la mia fissa per la storia del Novecento”). A
evocare la “macelleria messicana” era stato uno dei capi della resistenza
partigiana – che dì a poco sarebbe divenuto Presidente del Consiglio italiano –
e cioè Ferruccio Parri, per esprimere lo sdegno per lo scempio che era stato
fatto il 29 aprile del 1945, a Piazzale Loreto, dei cadaveri di Benito
Mussolini, di Claretta Petacci, e di altri gerarchi fascisti, appesi a testa in
giù al traliccio di un benzinaio, esposti alla rabbia e al vilipendio della
folla. La questione quindi diventa: perché a Ferruccio Parri venne in mente il
Messico?
L’ipotesi più frequente, avanzata per
esempio da Pino Cacucci, grande conoscitore del paese, è che c’entra la
rivoluzione messicana avvenuta fra gli anni ’10 e gli anni ’20 del Novecento;
Cacucci attribuisce cioè al “sensazionalismo pressapochista e superficiale dei
giornalisti italiani” che raccontavano gli eccessi della rivoluzione la nomea
che il Messico aveva come luogo deputato alle violenze. Per
il direttore di Internazionale Giovanni De Mauro invece il riferimento
sarebbe addirittura alla battaglia di Alamo del 1836, dove persero la vita Davy
Crockett e qualche altro centinaio di persone. Quest’ultima ipotesi mi sembra
del tutto campata per aria, probabilmente ispirata al fatto che inserendo
“mexican butchery” su Google Books si trovano giusto un paio di occorrenze
legate all’episodio di Fort Alamo. Peccato che “butchery” in inglese sia
sovente usato nel senso di “massacro” (“the savage
killing of large numbers of people”) e che vi si possa appiccicare
qualsiasi altro aggettivo legato a una nazionalità o un’etnia, dove l’aggettivo
indica sempre il responsabile della strage. Per esempio “italian butchery”
riferito ai massacri in Etiopia e così via (molto frequenti le occorrenze di
“indian butchery”).
Per quanto riguarda la teoria di Pino
Cacucci, invece, è interessante come lui stesso fornisca gli argomenti per respingerla,
nel parlarne come di “un’uscita infelice e fuori luogo”: perché un comandante
partigiano avrebbe dovuto mancare di rispetto nei confronti della prima
rivoluzione del secolo? Parri non aveva esempi ben più idonei e più vicini di
“bassa macelleria”, come quelli offerti dalla Grande Guerra, o appunto gli
stermini commessi in Africa anche da parte delle truppe italiane? In realtà la
teoria mi pare strampalata soprattutto perché l’episodio al quale Parri si
riferisce non è affatto qualificabile come un “massacro”: Mussolini e gli altri
erano già stati uccisi, e non era certo la loro esecuzione che Parri condannava
(con la possibile eccezione della Petacci), ma l’esposizione dei corpi. La
macelleria è qui intesa proprio come luogo fisico, come il posto dove i
cadaveri delle bestie vengono fatti a pezzi e appesi ai ganci. Di nuovo,
allora, perché “messicana”?
Su Wikipedia è scritto che alcuni
attribuiscono la frase, invece che a Parri, a un altro capo della resistenza, e
cioè a Leo Valiani. Purtroppo anche questa notizia è priva di fonti e pure
cercando altrove non si riesce a capire chi siano questi “alcuni” [aggiornamento: si tratta probabilmente di una semplice svista di Sergio Romano, in questo articolo]; salta subito
all’occhio però che la frase, pronunciata da lui, avrebbe molto più senso, dato
che Valiani era da poco tornato dal Messico. C’era stato, esule, dal 1940 al
1943. Quanto al giudizio negativo poteva provenirgli dalla sua diretta
esperienza personale, visto che lui stesso era sfuggito a un tentativo di
linciaggio da parte di una folla.
Valiani in quell’occasione stava
partecipando, insieme allo scrittore e rivoluzionario russo Victor Serge, a un
comizio pubblico di protesta per l’esecuzione di due comunisti polacchi in
Unione Sovietica (Ehrlich e Alter) uccisi per ordine di Stalin, quando vennero
attaccati da un folto gruppo di stalinisti ortodossi che probabilmente avevano l’intenzione di uccidere Serge: furono salvati appena in tempo dall’arrivo della
polizia (cfr. Leo
Valiani, Sessant’anni di avventure e
battaglie, 1983). Il Messico non doveva essere un posto facilissimo per
i dissidenti dalla politica di Stalin, come dimostra anche la tragica fine di
Trotsky, ucciso a picconate alla nuca e a tradimento dallo zio di Christian De
Sica. Può darsi quindi che Valiani parlando di “macelleria messicana” stesse
esprimendo un duro giudizio non tanto sul Messico e sulla sua rivoluzione
quanto sugli eccessi del comunismo, dal quale si era ormai distanziato anche
dal punto di vista ideologico.
Anche se questa interpretazione
risulta appena più plausibile, rimane il fatto che la frase viene
principalmente attribuita a Parri e non a Valiani, e non si potrebbe nemmeno
escludere che l’attribuzione a Valiani nasca, a posteriori, proprio in virtù della
sua esperienza messicana. Se vogliamo dirla tutta, non si può nemmeno essere
sicuri che quella frase, così come viene tramandata, sia mai stata pronunciata
da qualcuno. Se la fonte di Fournier è quasi certamente la famosa Storia
d’Italia di Montanelli e Cervi –
dove nel volume dedicato alla liberazione (uscito nel 1983) un intero capitolo
è intitolato “Macelleria messicana” – troviamo
una precedente occorrenza della frase in un numero del periodico Epoca del 28 gennaio 1973 (da me
consultato): “Quando dissero al comandante Maurizio
(Ferruccio Parri) che avevano appeso Claretta Petacci a un gancio, ruggì: ‘È una macelleria messicana!’”.
Si tratta di un articolo firmato da
Guido Gerosa – che segue un altro articolo di Franco Bandini sui misteri sulla
morte del Duce – dal titolo “Hitler lo ha saputo?” e col sottotitolo “Come
appresero la notizia i protagonisti del conflitto mondiale e gli uomini
politici italiani”. Se qualcuno fosse a conoscenza di occorrenze ancora
precedenti e me le segnalasse ovviamente mi farebbe un favore, ma può essere un
indizio sulle fonti utilizzate da Gerosa il fatto che in quella parte dell’articolo
gli avvenimenti sembrano narrati dal punto di vista di Charles Poletti, che era
il governatore americano della Lombardia (noto anche per i suoi rapporti
ambigui con la mafia siciliana). Poletti sembra cioè ritagliarsi un ruolo da efficiente
e pragmatico deus ex machina: trovati
i vertici del Comitato di Liberazione in preda all’angoscia per quello che
stava succedendo in Piazzale Loreto consigliò di prendere la cosa con filosofia
(“È fatta ormai”), ma suggerì anche di porre fine allo strazio portando i
cadaveri in un obitorio.
In successive interviste Poletti
rievoca gli avvenimenti in termini molto simili, arrivando addirittura a
giustificare di fronte a uno sconfortato Parri la reazione della folla (“penso
che dovremmo comprendere questo tipo di comportamento dopo tutte queste
emozioni represse e le sofferenze della gente sotto il fascismo e il nazismo”) ma
anche con una divertente variazione: “In ogni modo, per evitare che continuasse
la gazzarra intorno agli impiccati, domandai di vedere Parri […]. Lo trovai
sconvolto e preoccupato. ‘Quei cadaveri – gli dissi – bisogna farli sparire al
più presto. Non posso tollerare che il furore del popolo vada al di là di certi
limiti e sconfini in una sarabanda africana’”, dove troviamo quindi che la “macelleria
messicana” si è trasformata in una sincretistica “sarabanda africana” e
soprattutto dove a pronunciare la frase è adesso Poletti e non più Parri (cfr. Charles
Poletti, Charles Poletti. “Governatore d’Italia”,
a cura di Lamberto Mercuri).
Se proviamo a decifrare il sottotesto
ideologico (cosa del resto non difficile) è evidente la volontà da parte di
Poletti di presentare il governo italiano come disorganizzato, incapace di
affrontare la situazione e di gestirla persino da un punto di vista emotivo,
nel mentre gli alleati americani si dimostrano in grado di comprendere i moventi
della folla ma anche di porvi rimedio. Non sarebbe quindi sconvolgente se scoprissimo
che la sconnessa espressione attribuita a Parri fosse una deliberata invenzione
di Poletti. Frasi diverse ma somiglianti si trovano comunque formulate anche
altrove: per esempio nel 1949 sul periodico La
Settimana Incom l’episodio di
Piazzale Loreto venne definito dal giornalista Gaetano Baldacci un “macello da
Termidoro” (cfr. il bel volume di Sergio
Luzzatto Il corpo del Duce), espressione
decisamente meno ambigua e più comprensibile che allude agli eccessi e alle ghigliottine della Rivoluzione Francese (anche se il Termidoro fu, per la precisione, il colpo di stato che mise fine al periodo del Terrore di Robespierre).
Ma assumendo invece che la frase sia
stata davvero pronunciata, e pronunciata da Parri, vorrei proporre la mia personale
teoria, consapevole che si tratta di una labilissima ipotesi praticamente priva
di fonti e supporto empirico, ma che mi sembra almeno godere del vantaggio di
avere un senso. Per illustrarla al meglio, credo che occorra fare ancora
qualche passo indietro, e parlare degli episodi che precedettero i fatti di
Piazzale Loreto nel ’45. Quel posto infatti aveva una certa tradizione in fatto
di macelleria.
Come noto il luogo in cui scaricare e
abbandonare il cadavere di Mussolini, che era stato fucilato il giorno prima,
non venne scelto a caso ma aveva un valore simbolico. L’anno prima, il 10
agosto del 1944, e proprio nello stesso angolo della piazza, erano stati
fucilati 15 partigiani i cui corpi scomposti vennero poi lasciati esposti all’aperto
per l’intera giornata e sotto la calura estiva, ricoperti di mosche,
sorvegliati da un plotone di militi fascisti. L’atto voleva essere a sua volta
una rappresaglia per un attentato (mai rivendicato da nessuno) che era avvenuto
un paio di giorni prima contro un camion tedesco nelle vicinanze, attentato che
aveva ferito solo un soldato tedesco e ucciso sei cittadini milanesi. Siamo
cioè di fronte a una sorta di rituale consolidato le cui origini si perdono
nella notte dei tempi: l’esposizione dei cadaveri (o parti di essi) a scopo
intimidatorio e come gesto simbolico di supremo disprezzo nei confronti del
nemico, trattato letteralmente come un animale da macello. Nel periodo che
precedette la liberazione italiana episodi simili, perpetrati come rappresaglia
dalle truppe nazifasciste, furono purtroppo abbastanza frequenti.
Prima ancora della Seconda Guerra
Mondiale, nel 1920, Piazzale Loreto era stato il teatro di un altro episodio
cruento: in quell’occasione una folla di manifestanti anarchici aggredì il
brigadiere dei carabinieri Giuseppe Ugolini, che tentò di reagire sparando ma
venne linciato. L’autopsia stabilì che nel corso dell’aggressione gli erano
state amputate quattro dita. Per una straordinaria coincidenza a commentare
l’episodio fu proprio Benito Mussolini dalle pagine del Popolo d’Italia, con parole che avrebbero potuto benissimo
riferirsi al suo destino 25 anni più tardi: “La storia italiana non ha episodi
cosi atroci come quello di piazzale Loreto. Nemmeno le tribù antropofaghe
infieriscono sui morti. Bisogna dire che quei linciatori non rappresentavano l’avvenire,
ma un ritorno all'uomo ancestrale (che forse, era moralmente più sano dell’uomo
civilizzato)”.
Al di là della coincidenza, è
interessante (ed è un indizio) come il primo paragone che viene in mente a
Mussolini, sia pure per respingerlo, è quello con le “tribù antropofaghe”. Se
nemmeno esse, comunque, arrivano a tali livelli di ferocia, è certo che tali
comportamenti rappresentano “un ritorno all’uomo ancestrale” in opposizione
all’uomo civilizzato. È interessante anche perché Mussolini ha ovviamente
torto, al confine con la malafede, quando afferma che la storia italiana non
conosce episodi così atroci (per fare un solo esempio, si potrebbe citare la morte
di Jacopo de’ Pazzi dopo la congiura dei Pazzi e il suo trattamento
post-mortem). A quanto pare quando si ha a che fare con una realtà sgradevole,
e prossima, si preferisce evocare come termini di paragone popoli lontani nel
tempo e nello spazio, piuttosto che esempi più vicini e immediati.
Riassumendo, abbiamo a che fare con un
comportamento rituale, potremmo anche dire di tipo sacrificale, codificato forse anche a livello inconscio nella
cultura popolare che – in particolari occasioni e con il giusto stimolo – è in
grado di rispolverare tradizioni che sembrano dimenticate, ma che al tempo
stesso evoca la barbarie assoluta, ciò che è più distante da noi e dalla nostra
cultura. Si potrebbe obiettare come l’esposizione del cadavere di Mussolini fu
in realtà una sorta di necessità logistica, per tenere sotto controllo una
folla che si accalcava sempre di più per vederne il corpo steso e rischiava di
schiacciarlo, ma simili considerazioni di razionalità potrebbero valere per
molti rituali apparentemente selvaggi.
Per tornare a Parri, e per concludere,
prima della guerra era stato un insegnante di storia e geografia al liceo. Ci
potremmo chiedere quale Messico gli era più familiare, se quello temporalmente
vicino di Pancho Villa ed Emiliano Zapata o quello, ben più anteriore, di
Cortés e Montezuma. Gli Aztechi identificavano loro stessi col nome di
“Mexica”, mentre il termine col quale li conosciamo oggi è stato coniato, allo
scopo di distinguerli dai moderni messicani, da Alexander von Humboldt all’inizio
dell’Ottocento. In ogni caso le narrazioni che parlano della conquista
dell’impero azteco da parte degli spagnoli portano spesso, nel titolo, la
parola “Messico”, come nel caso del monumentale La
conquista del Messico di William Prescott
scritto nel 1843, uno dei libri più popolari sull’impresa di Cortés e degli
spagnoli.
Ci sono poi i libri scritti dei conquistadores stessi, come Cortés e
Bernal Díaz del Castillo. In questi resoconti Parri avrebbe potuto benissimo
trovare descrizioni di “macellerie messicane” che ben si adattavano a quel che
intendeva esprimere. Una delle caratteristiche del popolo azteco che meglio si
è impressa nella cultura popolare infatti è proprio il sacrificio umano su
grande scala, probabilmente anche esagerato, nella sua estensione, dai primi
cronisti. Ne La conquista del Messico
di Bernal Díaz del Castillo si possono leggere brani come: “ogni giorno
sacrificavano davanti a noi tre, quattro, o anche cinque indiani, e ne
offrivano i cuori ai loro idoli, e lordavano di sangue le pareti degli oratori,
e gli tagliavano le gambe, le braccia, e le cosce, e se le mangiavano come da noi si mangia la carne nelle
macellerie”.
Né mancano gli scritti in italiano,
come Gli
Antichi Messicani di Carlo Cattaneo
che abbonda di particolari splatter: “un prigioniero veniva afferrato e
prosteso supino sulla pietra del sacrificio e tenuto fermo da quattro sacerdoti
per le braccia e le piante, mentre un quinto gli premeva la gola con un giogo
di legno in forma di serpente. Allora il sommo sacerdote, con un coltello di
pietra ossidiana, specie di vetro vulcanico assai tagliente, gli fendeva a
traverso il petto […]. Poi gettavano il cadavere, giù per le scale grondanti di
sangue, ai devoti che seduti l'aspettavano e se lo recavano sulle spalle alle
orride cene […] Le carni umane, consacrate dall'orribile sacrificio, venivano
divise a tutte le famiglie, sicché tutti i credenti in quella tremenda fede vi
partecipassero; e abbrustolate, venivano poste sopra polente di mais, e senza
miscela di profani intingoli, ingoiate”. A proposito dei cadaveri dei gerarchi
fascisti, riporta ancora Luzzatto che fra i commenti della folla ve n’erano
anche riguardanti la floridezza delle carni delle vittime (“sono belli grassi”):
si tratta solo di una critica sociale (loro ingrassano mentre il popolo
deperisce) o c’è anche una connotazione cannibalistica?
Per quanto riguarda l’esibizione dei
resti, possiamo ricordare gli tzompantli,
che erano intelaiature di legno, nei quali i teschi dei nemici e delle vittime
sacrificali venivano allineati per essere esposti pubblicamente. Nella
rastrelliera presente nella piazza principale di Tenochtitlàn vi erano migliaia
di teschi, forse 60.000, anche se tali numeri vanno sempre accolti con
diffidenza. Ancora oggi comunque un certo ricordo dei macabri sacrifici permane,
in Messico, attraverso l’uso di fabbricare i calaveras, teschi di zucchero che vengono regalati in occasione del
giorno dei morti. Anche lo scempio di Piazzale Loreto trova un seguito
simbolico fino ai nostri giorni, tramite la memificazione del corpo appeso di
Benito Mussolini.
Ferruccio Parri, parlando di
macellerie messicane, alludeva ai sacrifici umani praticati dagli aztechi?
Probabilmente non lo sapremo mai. Inoltre mi rendo conto che si potrebbe anche
reagire, ad una simile ipotesi, con un sonoro “chi se ne frega” ma concepisco
questo mio post come un minuscolo contributo alla storia del “selvaggismo” (savagism), ovvero la costruzione
dell’identità dell’altro, in particolare delle popolazioni considerate più
lontane ed esotiche, proiettandovi le caratteristiche più odiate della nostra
stessa cultura (è un tema di cui mi sono occupato recentemente, e un po' più seriamente,
in questo articolo). Come riferimento o precedente bibliografico, potrei citare
un capitolo di Cannibal
Talk dove l’antropologo Gananath Obeyesekere analizza un episodio di
linciaggio avvenuto nella Francia del 1870 (al centro di un libro di Alain
Corbin, Le village des cannibales) per mostrare come nella Francia
moderna continuino a viaggiare, in maniera sotterranea ma per emergere talvolta
in maniera improvvisa, pensieri e ansie associati allo smembramento corporale e
al cannibalismo tipico dei “selvaggi”.
Cacucci non ha tutti i torti: le parole di Parri (ammesso che le abbia dette davvero) sarebbero davvero e in ogni caso fuori luogo, nello stigmatizzare un popolo e attribuirgli una violenza che appartiene tutta a noi (anche considerando che la vera macelleria, in America, è semmai stata quella degli europei contro gli indigeni). In questo senso dobbiamo concordare con la definizione che Giorgio Bocca diede di Piazzale Loreto (o almeno con la seconda parte della definizione): “un atto rivoluzionario su cui si farà dell’inutile moralismo”.
Aggiornamento: dalla discussione su Facebook sono emerse altre due ipotesi che mi pare giusto menzionare.
1) le “macellerie messicane”, nel senso di slaughterhouse, avrebbero avuto una brutta nomea negli Stati Uniti a causa dell’abitudine dei messicani di mangiare carne di cavallo, alimento tabù per gli statunitensi; questo potrebbe essere un indizio a favore dell’ipotesi per cui l’espressione è stata inventata da Charles Poletti.
(grazie alla nonna di peter per la consulenza)
Cacucci non ha tutti i torti: le parole di Parri (ammesso che le abbia dette davvero) sarebbero davvero e in ogni caso fuori luogo, nello stigmatizzare un popolo e attribuirgli una violenza che appartiene tutta a noi (anche considerando che la vera macelleria, in America, è semmai stata quella degli europei contro gli indigeni). In questo senso dobbiamo concordare con la definizione che Giorgio Bocca diede di Piazzale Loreto (o almeno con la seconda parte della definizione): “un atto rivoluzionario su cui si farà dell’inutile moralismo”.
Aggiornamento: dalla discussione su Facebook sono emerse altre due ipotesi che mi pare giusto menzionare.
1) le “macellerie messicane”, nel senso di slaughterhouse, avrebbero avuto una brutta nomea negli Stati Uniti a causa dell’abitudine dei messicani di mangiare carne di cavallo, alimento tabù per gli statunitensi; questo potrebbe essere un indizio a favore dell’ipotesi per cui l’espressione è stata inventata da Charles Poletti.
2) facendo una ricerca sull’espressione francese “boucherie mexicaine” è emersa una citazione di Léon Degrelle (altra particolarissima figura, che potrebbe aver ispirato il personaggio di Tintin) dove si parla delle persecuzioni antireligiose in Messico; ne prendo atto ma la considero allo stesso livello di probabilità, come possibile ispirazione di Parri, dell’ipotesi Fort Alamo.
Aggiornamento del 7 gennaio 2018: un’occorrenza precedente a quella di Guido Gerosa su Epoca del 1973 è stata infine scoperta, in una discussione su twitter del collettivo Wu Ming. Si tratta di un libro dello storico inglese Richard Collier dal titolo Duce! Duce! Ascesa e caduta di Benito Mussolini, pubblicato in italiano nel 1971, probabile fonte di Gerosa. Anche qui l’episodio sembrerebbe narrato dal punto di vista di Charles Poletti.
Aggiornamento del 7 gennaio 2018: un’occorrenza precedente a quella di Guido Gerosa su Epoca del 1973 è stata infine scoperta, in una discussione su twitter del collettivo Wu Ming. Si tratta di un libro dello storico inglese Richard Collier dal titolo Duce! Duce! Ascesa e caduta di Benito Mussolini, pubblicato in italiano nel 1971, probabile fonte di Gerosa. Anche qui l’episodio sembrerebbe narrato dal punto di vista di Charles Poletti.
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