Diciamolo, quella storia della virtù che sarebbe
premio a sé stessa non ci ha mai convinto fino in fondo: a noi belle persone
non basta sapere di essere delle bellissime persone, ma vorremmo che lo
sapessero anche gli altri, vorremmo che ce lo dicessero, che ce lo ripetessero
in continuazione. È per questo che è stato inventato Facebook, fra le altre
cose. Lasciamo ad altri il riempire le loro bacheche con vuoti contenuti fatti
di selfie disinibiti sulla spiaggia al tramonto con uno spritz in
mano, di fotografie di piatti dall’apparenza più o meno commestibile, di
buongiornissimi e tazzine di caffè, di catene di sant’Antonio e di fake news,
per noi Facebook è soprattutto lo strumento ideale per la narrazione della
nostra chebellapersonitudine.
Ma come fare a essere universalmente riconosciuti
come persone meravigliose? Il nostro obiettivo è essere elogiati non solo dagli
amici o dai parenti stretti ma raggiungere il maggior numero di utenti
possibile, quindi creare contenuti virali: la nostra bellezza interiore deve
essere tale da suscitare non solo della semplice ammirazione ma anche la voglia
di diffondere il buon esempio, deve voler essere raccontata a sua volta, deve
anzi suscitare l’illusione che condividere il racconto possa trasmettere un po’
di bella persona che siamo anche a chi condivide, che la nostra bellezza sia
addirittura contagiosa. Qui di seguito cercherò di compilare una guida alla
creazione di tali contenuti virali, servendomi di alcuni esempi elaborati
all’uopo e commentati.
Fra gli ingredienti essenziali, prima di tutto,
occorre una brutta persona alla quale contrapporre la propria nobiltà. La
brutta persona può essere effettivamente presente nel racconto oppure no, ma la
sua presenza implicita deve comunque aleggiare. Può far parte semplicemente del
contesto sociale più ampio, come condizione che rende possibili le situazioni
narrate alle quali noi ci contrapponiamo, o come immaginario interlocutore. La
brutta persona potrebbe essere il maleducato che getta il mozzicone di
sigaretta sulla spiaggia, quello che maltratta gli animali, il tizio che
fischia alle ragazze per strada, oppure, e di questi tempi in particolare, il
razzista.
Occorre poi una vittima, qualcuno (la cui
presenza anche in questo caso potrebbe essere implicita) in posizione di
debolezza che noi intendiamo proteggere dalla brutta persona: il cucciolo di
foca, la donna molestata per strada, lo straniero, o anche l’onesto cittadino
che paga le tasse. Talvolta la vittima coincide col narratore ma tale scelta a
mio avviso non è consigliabile. Il genere “che bella persona che sono” non deve
essere confuso con quello, completamente diverso, del “povero me”: non vogliamo
suscitare pietà ma ammirazione e inoltre un eccesso di vittimismo può
allontanare le simpatie dei lettori. Possiamo sì narrare situazioni di estremo
disagio, senza vergognarci di toccare le corde del sentimentalismo, ma
risulteremo più efficaci raccontandole in terza persona, come osservatori. Ci
dilungheremo, semmai, nel descrivere le nostre emozioni di bella persona
nell’osservare situazioni che “ci fanno fremere di rabbia”, “ci indignano
profondamente”, “ci fanno venire le lacrime agli occhi”.
Occorre infine un evento, una situazione creata
appunto dalla brutta persona e che si riflette in modo negativo sulla vittima,
alla quale noi reagiamo facendo emergere, con la nostra reazione, tutta la
magnificenza e lo splendore che abbiamo dentro. Passiamo a un esempio di
narrazione che descrive una situazione tipo:
Questa mattina
stavo recandomi a fare la mia solita donazione di sangue
Questa deve essere un’informazione buttata lì
apparentemente per caso sulla quale non occorre tornare, e serve solo a creare
dal primo istante un pregiudizio positivo verso il narratore. Altri esempi
potrebbero essere: “stavo andando al centro di recupero per cuccioli di foca
disabili dove svolgo volontariato”, oppure “intendevo recarmi a concimare
naturalmente il mio orticello sociale dove coltivo cipolle biologiche”.
e sono salito su una vettura dell’autobus.
I mezzi pubblici sono da sempre il luogo ideale
per far interagire persone che non si conoscono fra di loro e quindi far
emergere i conflitti fra brutte persone da una parte, vittime e belle persone
dall’altra. Non stiamo a specificare troppo l’ora, la località, e la linea di
autobus, non vogliamo che qualcuno si metta a fare verifiche o che dica “c’ero
anch’io”, ma non perché temiamo i controlli – non ammettiamo dubbi sulla nostra
sincerità – ma solo perché non vogliamo distrarre il lettore dal contenuto
essenziale (noi, noi, noi).
Vicino a me era compostamente seduta una signora
di colore, vestita con i suoi sgargianti e tradizionali abiti colorati, e con
un piccolo bambino in braccio che veniva allattato con un biberon.
Abbiamo trovato una vittima. Per essere efficaci
al massimo, non basta dire “c’era una nera/uno zingaro/un cucciolo di foca”, ma
dobbiamo aggiungere dettagli che aiutino a empatizzare con lei. La signora è
seduta “compostamente” per indicare da subito l’alto livello di civiltà
rispetto a chi la circonda, ella deve svettare in mezzo alla folla grazie al
suo atteggiamento sempre dignitoso, come quello di una principessa in esilio, e
anche il suo vestiario esotico deve riflettere questo status. Non abbiamo
soltanto una signora in autobus, e non si tratta semplicemente di una generica
“straniera”, ma siamo in presenza di Rigoberta Menchù in persona, di Vandana
Shiva col pallino rosso in fronte, di Frida Kahlo e le sue sopracciglia, della
regina di Saba. Allo stesso tempo il bambino introduce un elemento di ulteriore
debolezza. La persona che abbiamo di fronte è una madre, non deve difendere
solo sé stessa ma anche il suo cucciolo indifeso.
Alla fermata successiva sale il controllore.
Entra in scena il nostro vilain, e
noi passiamo al tempo presente per creare un maggiore coinvolgimento. In questo
caso si tratta di un uomo in divisa, che rappresenta l’autorità. Tale scelta è
un po’ rischiosa perché molti lettori solidarizzano con l’autorità a
prescindere (mentre altri l’avversano in quanto tale), quindi potrebbe essere
più indicato un passeggero come gli altri. Il senso di profonda ingiustizia
d’altra parte è amplificato proprio dall’abuso di autorità della brutta
persona, e non sarebbe lo stesso se il sopruso fosse perpetrato da una persona
qualunque.
Dopo aver cominciato a controllare i biglietti
dei passeggeri in fondo alla vettura, non appena scorge la signora di colore il
volto prima rilassato del controllore si contrae in una smorfia malevola.
Creiamo un po’ di attesa, di suspence.
Via via che si avvicina al sedile della signora,
gli sguardi feroci verso di lei si fanno sempre più insistenti. Egli borbotta
fra i denti parole incomprensibili ma che certo non suonano come apprezzamenti.
Controlla svogliatamente i biglietti degli altri passeggeri in attesa di
potersi avventare sulla sua preda, della quale già pregusta il sapore del
sangue. Gli occhi gli si fanno di brace, il volto violaceo, la fronte calva si
imperla di sudore, grandi sbuffi di aria calda escono dalle sue narici, il
torace dell’uomo si alza a si abbassa a ritmi impetuosi, mentre anche il pingue
ventre sembra sconquassato dalla tensione, e le sue piccole gambe eseguono un
curioso balletto di avvicinamento.
La brutta persona deve suscitare un autentico
senso di repulsione, più riusciamo a sottolineare questo aspetto più verrà
esaltata la nostra magnificenza. Non bisogna temere di fare ricorso pure alla
descrizione delle caratteristiche fisiche, anche se è preferibile non
introdurle in maniera troppo diretta. Si noti come nel paragrafo precedente siamo
riusciti ad accennare al fatto che il nostro vilain è pelato, grasso e
basso (oltre che sudato e quindi forse maleodorante). D’altronde le sue
frustrazioni dovranno avere origine da qualche parte.
Quando arriva davanti alla signora, il
controllore prorompe finalmente in un tonante e trionfale quanto brutale: “ehi
tu, fammi vedere il biglietto, veloce”.
L'oltraggio è avvenuto, oltraggio consistente nel
tono arrogante e maleducato con cui il prepotente si rivolge alla sua vittima.
Qui il rischio è quello di esagerare partendo da subito con un oltraggio
gravissimo, ad esempio il controllore avrebbe potuto dire: “ehi tu, sporca
ne*ra”, oppure avrebbe potuto prenderla a calci, o buttare il bimbo dal
finestrino. Ma è meglio procedere per gradi, e descrivere una situazione che si
fa via via sempre più esplosiva.
Nel mentre il bambino che tiene in braccio
comincia a mostrare segni di agitazione, la signora benché sorpresa accenna un
timido sorriso e si rivolge così al suo interlocutore, in un ottimo italiano
appena venato da un accento straniero: “certo, potrebbe aspettare un secondo,
per favore? come vede ho le mani occupate”.
Il contrasto fra la maleducazione del cattivo e
l’atteggiamento calmo e composto della vittima deve emergere nettissimo. In
ogni modo, dopo aver descritto il contesto sfavorevole alla vittima, qui
abbiamo appena creato il pretesto, la miccia che farà esplodere l’odio della
brutta persona.
Il controllore a questo punto si mette a urlare
forsennatamente, tra i pianti disperati del povero bambino: “ecco, voi arrivate
qui e credete sempre di fare come volete! ma non siamo a casa vostra! e se non
siete capaci di rispettare delle semplici regole tornate indietro col gommone,
la pacchia è finita, capito?”.
Fino ad adesso siamo stati testimoni passivi, ma
di fronte a questa esplosione di odio razziale occorre intervenire e diventare
protagonisti. La nostra entrata in scena dev’essere trionfale, occorre
immaginarci a cavallo di un bianco destriero con un manto azzurro.
A questo punto non posso fare a meno di
avvicinarmi ai due signori e apostrofare così il controllore: “chiedo venia,
buon uomo, ma non si rende conto che le sue stentoree vocalizzazioni hanno
appena provocato uno stato di agitazione in codesta piccola creatura bisognosa di
cibo e calore? sono persuaso che la distinta passeggera qui presente sarà
quanto prima in grado di esporre il suo titolo di viaggio regolarmente
obliterato, se solo lei volesse pazientare”.
Il nostro linguaggio deve segnare al tempo stesso
la distanza fra noi e la cattiva persona, che si esprimerà in modo ovviamente
rozzo e sguaiato, ma anche fra noi e la vittima, che in quanto tale e bisognosa
di soccorso avrà un linguaggio sì dignitoso, ma anche semplice, umile, non
forbito come il nostro.
Il controllore mi risponde: “lei si facci i fatti
suoi, buonista! è per colpa di voi radical chic che l’Italia si è riempita di
simili parassiti delinquenti”, “mi pare che lei sia vittima di un pregiudizio
razziale, cosa che non mi stupisce visto che deve aver ricevuto un’educazione
che non la mette nemmeno in grado di usare i congiuntivi in maniera
appropriata. Ma suggerisco di lasciare alla signora la possibilità di
dimostrare la propria innocenza”, “ah, io sarebbi ignorante, è arrivato il
professorone! Sa cosa le dico? Meglio ignorante che amico di questi ne*ri! puah”, e sputa per terra.
Adesso che la brutta persona si è rivelata in
tutto il suo orrore, è tempo, per la bella persona di mostrare sacrosanta
indignazione. E anche di tirare fuori un paio di argomenti che fanno parte del
kit essenziale degli strumenti retorici della bella persona.
Io non ci vedo più e mi rivolgo in tono pacato ma
fermo al mio interlocutore: “Ma si rende conto di quello che dice? Ma non sa
che le sue parole vanno contro l’articolo 3 della Costituzione? Non sa quanto i
nostri antenati hanno combattuto, sulle colline, per liberare l’Italia da
persone che come lei volevano discriminare altre persone in base al colore
della loro pelle? Non capisce che sta riportando indietro il nostro paese a
settant’anni fa?”.
Fino ad ora abbiamo raccontato una storia di
ordinario razzismo sui mezzi pubblici, e la nostra normale reazione di
protesta. Gli ingredienti fondamentali già ci sono, ma se vogliamo diventare
virali occorre qualcosa di più, dobbiamo suscitare nel lettore vera rabbia, e
per raggiungere lo scopo non dobbiamo temere di sacrificare un po’ di
verosimiglianza.
Il controllore prima mi guarda furioso, ma
all’improvviso scoppia in una risata satanica. “Ma… cosa le prende?”, dico io.
“Ahahah, voi proprio non avete capito. Lo so benissimo che prima certe cose non
si potevano dire, ma adesso è cambiato tutto! tutto! adesso c’è SALVINI! Sì,
SALVINI! finalmente noi razzisti possiamo dire senza paura di essere razzisti!
e anzi, sa cosa le dico? che si stava meglio quando c’era LUI, è inutile che mi
guardi così, sa benissimo a chi alludo, sto parlando del DUCE, di BENITO,
ahahah, che bello poterlo nominare. E per sovrapprezzo, guardi bene cosa
faccio!”. E in quell’istante, con mio grandissimo sgomento, alza tutto fiero il
braccio a formare un saluto romano.
Questo è il momento della nera disperazione,
della solitudine, del sentimento della sconfitta.
I miei incubi peggiori si stanno realizzando
proprio davanti ai miei occhi, sento il mio volto rigarsi di lacrime e il mio
cuore che affonda lentamente in un mare di angoscia. Provo a guardarmi in giro
sull’autobus e a mormorare, agli altri passeggeri: “e voi non gli dite niente,
davvero volete permettere che accadano queste cose?” ma tutti distolgono lo
sguardo o fanno finta di osservare con esclusiva attenzione lo schermo dei loro
smartphone.
La solitudine non serve soltanto a comunicare la
tristezza del momento, ovviamente, ma anche a far risaltare l’eccezione costituita
dalla propria bella persona. Inoltre abbiamo inserito un breve accenno di
critica all’alienazione della vita moderna provocata dai mezzi di
comunicazione, che rendono l’uomo contemporaneo non in grado di sintonizzarsi
sugli eventi reali che li circondano bla bla bla.
“Hai capito,
sporca ne*ra? Io vi farei affondare a tutti col barcone, a te e pure al tuo
bambino che tanto da grande diventerà uno spacciatore e un violentatore”.
L’orrore continua ma adesso siamo giunti a una
situazione apparentemente senza uscita, e occorre un colpo di scena. Dobbiamo
introdurre un altro personaggio.
In quel momento dal fondo dall’autobus si alza
con fatica aiutandosi con un bastone una signora anzianissima, molto elegante,
e urla al controllore con tono di estrema gravità: “insomma, la smetta”. Il
fatto di aver trovato improvvisamente un nuovo avversario comincia a far
perdere un po’ di baldanza al controllore che comunque esclama: “e adesso lei
cosa vuole, vecchia megera?”.
Se abbiamo dei conigli nel cappello, tiriamoli
fuori adesso.
“Giovanotto, io ho 98 anni, e sono proprio una di
quelle persone che sono state ricordate poco fa, che hanno combattuto contro i
fascisti. Quand’ero ancora una ragazza ho fatto la staffetta per i partigiani,
ho rischiato la mia vita innumerevoli volte, una volta i fascisti mi hanno
persino catturata e torturata. Dopo la guerra mi hanno riempito di medaglie, mi
hanno trattato da eroina. Ciononostante, oggi, non mi sono sentita un’eroina ma
una vigliacca, perché ho assistito a un atto di vile prevaricazione contro una
persona debole, una cosa che va contro tutti i principi per cui da giovane ho
combattuto, e non ho mosso un dito. E sarei rimasta in silenzio, se non fosse
stato per quest’altro buon giovine [indica noi] che a quanto pare da solo possiede
gli attributi per opporsi alla barbarie che in questo triste giorno ha avuto
l’ardire di ripresentarsi. Ma adesso ho trovato anch’io il coraggio, e le dico
che se davvero intende continuare a vessare questa povera signora e il suo
bambino, ebbene prima dovrà passare sul mio anziano e fragile corpo!”.
È un momento molto delicato, perché nel momento
stesso in cui celebriamo la nostra bella persona, dobbiamo passare dall’azione
individuale a quella collettiva. Non siamo più soli contro il nemico, anche se
siamo quelli che hanno dato il via alla ribellione.
Una ragazzina con lo zaino in spalla, che sta
evidentemente recandosi a scuola, si fa avanti e dice: “è vero, io sono giovane
e non ho vissuto certe cose, ma la maestra mi ha spiegato che durante il
fascismo gli ebrei non potevano andare a scuola e venivano deportati e io non
voglio che qualcuno faccia del male alla mia compagna di banco”. Anche un punk
a bestia pieno di piercing si mette a urlare: “ehi, zio, non vogliamo il
fascismo e il razzismo, cioè che storia, raga!”. È poi la volta di un signore
in giacca e cravatta: “giusto, nemmeno io voglio il razzismo!”.
Si tratta del momento “attimo fuggente” (dal
finale del film quando tutti i ragazzi si alzano e urlano: “capitano, mio
capitano”), sempre molto efficace nel creare un certo pathos.
In una sorta di
crescendo meraviglioso, tutti i passeggeri dell’autobus, a turno, si fanno
avanti e dicono in faccia al controllore: “non vogliamo il razzismo”. Il
controllore si fa sempre più piccino e sembra voglia sparire, rivelando così la
tipica vigliaccheria dei fascistelli, e poi quando l’autista apre le porte esce
fuori senza più dire una parola.
Abbiamo vinto, ma non è sufficiente. Dobbiamo
assaporare il trionfo.
La signora africana si inginocchia con grande dignità
e compostezza e si mette a baciarmi i piedi mentre io mi schernisco, poi mi
porge una statuina di plastica rappresentante una Venere paleolitica, dicendo:
“questa apparteneva a mia madre, e prima a mia nonna, e prima ancora alla mia
bisnonna. È un oggetto sacro di grandissima importanza per la mia famiglia, ma
io te lo vendo per soli 10 euro, e visto che sta per piovere aggiungo questo
ombrellino”, mentre tutto l’autobus prorompe in un applauso fragoroso al nostro
indirizzo.
E, infine, la morale edificante.
Così, per almeno
qualche minuto, mi sono sentito estremamente fiero, e ho sentito che c’è ancora
una speranza per il nostro paese. I nemici dell’accoglienza e dell’integrazione
possono sembrare invincibili, ma a volte basta un piccolo gesto per sconfiggere
l’ignoranza e far trionfare il bene. Basterebbe che ognuno di noi si sforzasse
di non restare indifferente, non occorrono grandi gesti di eroismo ma a volte è
sufficiente reagire all’ignoranza e alla prepotenza dei nuovi barbari per
vederli scappare. Ho voluto raccontare questo episodio non per vantarmi
certo
ma solo per dare
un barlume di ottimismo ai tanti che intravedono un futuro molto buio per
l’Italia e per i valori sui quali è stata costruita.
Questo è lo scheletro di un tipico post virale di
una bella persona su Facebook, ma naturalmente ci possono essere molti altri
tipi e variazioni sul tema. Per esempio, se qui lo schema, molto classico, è
“eroe solitario che affronta il drago e salva la principessa”, un modo molto
più sottile per dipingersi come bella persona potrebbe essere, per paradosso,
proprio il denunciarsi come pieni dei pregiudizi tipici delle brutte persone
(ma per poi ravvedersi). Il racconto cioè consiste nel trionfo della bella
persona sulla brutta persona interiorizzata. Vediamo.
Ieri notte mi è
capitata una singolare avventura. Mi trovavo da sola, tornando a casa dopo una
festa in maschera organizzata per autofinanziare il circolo vegano al quale
sono iscritta, dentro un vagone della metropolitana. Ero un po’ brilla e
vestita col costumino sexy della principessa Leia Organa prigioniera di Jabba
the Hutt, ciononostante mi sentivo tranquilla.
Questo finché nel
vagone non è entrata un’altra persona. Si trattava di un ragazzo di origine
africana con una tuta da ginnastica, un cappellino con la visiera portato alla
rovescia, i pantaloni col cavallo basso che gli conferivano un’andatura strana,
e con i capelli rasta, che si è messo a sedere di fronte a me a gambe un po’
divaricate e ascoltando della musica da un cellulare, muovendo ritmicamente la
testa e ogni tanto sollevando lo sguardo verso di me. Ho cominciato a sentirmi
un po’ a disagio, e a non vedere l’ora che la metropolitana arrivasse alla
stazione dove ero diretta.
Il fatto di
essere sola in compagnia di un perfetto sconosciuto mi turbava, e inoltre, lo
ammetto, trovavo il suo abbigliamento non troppo rassicurante. “Sarà uno
spacciatore?” mi sono chiesta, “o magari un magnaccia… o chissà, potrebbe
proprio essere uno stupratore seriale in cerca di vittime, ecco perché mi
guarda in modo lascivo. E se tutte quelle cose che si dicono sugli stranieri
fossero vere? E se domani finissi sui giornali come ennesimo caso di donna
barbaramente stuprata e uccisa da un nero?”.
Ero sempre più
nervosa e a un certo punto ho cominciato proprio ad avvertire un certo panico.
Ho preso quindi la risoluzione di uscire dal vagone non appena si fossero
aperte le porte. E infatti quando la metro ha cominciato a rallentare io mi
sono alzata e avvicinata alle porte. Intanto tenevo sotto controllo il ragazzo
che alzando un attimo lo sguardo mi ha fatto un cenno di saluto, però è rimasto
seduto, cosa che mi ha un po’ rassicurato. Quando le porte si sono aperte sono
uscita tutta contenta e ho fatto due passi fuori dal vagone, cominciando a
rilassarmi. Fatti pochi metri, però, e sentendo le porte chiudersi, mi sono
girata, e lì mi accorgo con orrore che il ragazzo è uscito anche lui e sta
correndo verso di me!
Mi sono sentita
il cuore in gola e con una fortissima scarica di adrenalina mi sono messa a
correre anch’io per la stazione. “Sei una cretina” mi dicevo intanto “aveva
ragione la zia Concetta, questi stranieri sono tutti uguali, non hanno rispetto
per le donne, e ora io pagherò con la vita, o peggio, il prezzo della mia
ingenuità”. Intanto il ragazzo urlava: “aspetta, fermati!” mentre io mormoravo
fra me “col cavolo, bastardo, se proprio vuoi stuprarmi devi prima prendermi”.
Solo che purtroppo non appena ho raggiunto le scale mobili sono inciampata sul
primo gradino rovinando a terra.
“Ecco, è finita”
ho pensato, mentre ho visto che il ragazzo mi raggiungeva, per poi mettermi a
urlare: “non farmi del male ti prego, fai pure quello che vuoi ma almeno non
picchiarmi!”. “Principessa Leia, hai dimenticato questo sul sedile”, mi ha
detto lui gentilmente, porgendomi un portafogli che doveva essere scivolato
dalla borsetta.
Improvvisamente mi sono sentita una merda. E ho
capito come persino io, che mi credevo tanto illuminata e di sinistra, sia
piena di brutti pregiudizi razzisti. Ringraziando il ragazzo, commossa, ho
aperto il portafogli e ho detto “lascia che ti ricompensi per la tua
gentilezza”, ma lui mi ha risposto, con molta dignità: “non voglio niente, ho
semplicemente fatto il mio dovere; vedi, sono convinto che le persone debbano
aiutarsi fra di loro, altrimenti questa città diventerebbe una giungla”. “Ma ti
prego”, ho insistito “dimmi una maniera in cui io possa mostrare la mia
gratitudine”. “Lascia perdere, non avrei più rispetto della mia persona se
accettassi una ricompensa solo per essermi comportato da essere umano e non
potrei più guardarmi allo specchio” e ha cominciato ad allontanarsi. “Dimmi
almeno come ti chiami” ho urlato, al che lui si è girato sventolando i suoi
rasta, e in quel momento mi sono accorta che era un bellissimo ragazzo, mi ha
sorriso con i suoi splendenti denti bianchi, e mi ha detto il suo nome seguito
da “che la forza sia con te, principessa”. Poi i suoi denti sono gradualmente
svaniti nel buio della stazione.
Il racconto non può finire così, perché
nonostante l’episodio di ravvedimento non abbiamo fatto abbastanza per apparire
come bella persona, e anzi la bella figura l’abbiamo lasciata fare solo a
quella che dovrebbe essere la vittima. Ma c’è una seconda parte.
Questa mattina ho fatto delle indagini sul conto
del ragazzo a partire dal suo nome. Ho scoperto che è arrivato due anni fa in
Italia dall’Eritrea, dove prima di fuggire perché perseguitato dalla dittatura
per motivi politici aveva preso una laurea in ingegneria automobilistica. È
venuto con un barcone insieme alla sua famiglia, ovvero una madre paralizzata,
un padre cieco, e una sorellina di quattro anni malata che dovrebbe subire una
delicatissima e costosa operazione al cuore. Lui è l’unico sostentamento per
tutti costoro e per sopravvivere fa ben tre lavori: il manovale, il cameriere,
e il buttafuori in discoteca.
Allora ho deciso
di fare una cosa che mi ha fatto sentire un po’ in colpa: ho disobbedito al
ragazzo. Ho messo un assegno da centomila euro in una busta e l’ho spedito per
assicurata all’indirizzo del mio eroe, con una breve nota dove ho scritto:
“Spero che bastino per curare la tua sorellina e per dare alla tua famiglia un
po’ di sollievo. Non preoccuparti, posso permettermelo, siamo qui per aiutarci
l’uno con l’altro altrimenti questo paese diventerebbe una giungla. Non avrei
rispetto per me stessa se non facessi quello che considero il mio dovere, si
tratta di un modo per continuare a guardarmi allo specchio. Firmato:
Principessa Leia. P.S. Nei prossimi giorni dovrebbe arrivarti anche un’offerta
di lavoro da un’importante ditta di automobili di lusso, e chissà, forse anche
un invito a cena dalla figlia dell’amministratore delegato”.
Morale:
Da soli non
possiamo cambiare la società, è difficile riuscire a fare la differenza, per
noi piccole formiche schiacciate da un ingranaggio più potente, per tutti
quanti. Possiamo però impedire che la società ci cambi, e che ci inietti i suoi
pregiudizi, le sue paure, che ci renda simili a tutte le altre persone
“perbene” là fuori. E spero di aver fatto una piccola differenza almeno per la
famiglia del ragazzo che ha voluto essere gentile con me. Non perché voglia
farmi applaudire e ricevere molti like
certo
ma solo perché
quel ragazzo gentile si merita una vita migliore di quella che avuto fino ad
adesso.
Naturalmente occorre anche un po’ di fantasia,
non esiste un generatore automatico di post di belle persone, ma altre
situazioni potrebbero riassumersi in, per esempio:
a) esco di
casa con un’amica ma per il modo in cui siamo vestite riceviamo apprezzamenti
molesti da un gruppo di maschi, con grande imbarazzo dell’amica che è molto
timida, ma io li stendo tutti con qualche mossa di karatè e lo spray al
peperoncino, e di seguito gli rifilo una lezione sul patriarcato dopo la quale due
di loro si accorgono che il loro atteggiamento macho serviva solo a mascherare
un’omosessualità repressa e si baciano tra loro, mentre gli altri corrono a
iscriversi a un corso di uncinetto.
b) offro il
pranzo a un mendicante straniero e vengo insultato per questo dal barista che
cerca di dirmi: “prima gli italiani, con tutti i problemi che abbiamo ad
arrivare a fine mese”, solo che io gli
faccio notare che non fa mai lo scontrino ai clienti, che i suoi dipendenti
lavorano tutti a nero e inoltre siccome lavoro per i NAS e trovo un sacco di
cose non a norma gli faccio chiudere il locale e lo spedisco pure in galera (questo
farà impazzire di gioia molti contatti).
c) trovo un
gruppo di persone in piazza che manifestano contro l’ideologia gender, e non potendo tollerare questo affronto
alla libertà sessuale decido di mettermi a urlare il più forte possibile delle
frasi estratte dai libri di Judith Butler, quindi dopo venti minuti di questa
tortura cercano di allontanarmi, dandomi l’opportunità di postare una foto dal
pronto soccorso dove si vede il livido che mi hanno lasciato sul braccio quando
mi hanno spintonato e di denunciare la vile aggressione di gruppo contro una
donna indifesa e solitaria (nel mentre la polizia assisteva alla violenza senza
fare niente).
e via dicendo.
Se seguite queste istruzioni, naturalmente
mettendoci il vostro tocco personale e unico, vi garantisco che i vostri post
su Facebook otterranno un successo strepitoso, centinaia di condivisioni, decine
di nuove amicizie e soprattutto tantissimi complimenti, migliaia di commenti
che riporteranno le seguenti deliziose frasi: “che bella persona che sei”, “meno
male che al mondo ci sono anche quelli come te”, “che creatura meravigliosa ho
la fortuna di avere fra gli amici di Facebook”, “tu rendi il pianeta un posto
migliore”. Quanto al trasformare questo capitale di “che bella persona” in
qualcosa di più utile, come soldi o opportunità di lavoro, ci sto ancora lavorando
ma non appena avrò trovato una strategia ideale sarà mia premura comunicarvela.
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