domenica 16 agosto 2015

la fallacia delle fallacie


Vanno molto di moda gli elenchi di fallacie, se ne trovano moltissimi in internet, esistono anche molte pubblicazioni più o meno valide. Fra le valide non posso fare a meno di consigliare il recente libro di Francesco Rende, Manuale di autodifesa verbale, se non altro perché – credo in ricordo di tante discussioni avute in rete – mi cita fra i ringraziamenti. Per inciso, geniale mossa di marketing: ne ho comprate cento copie da distribuire ai parenti, prima di rendermi conto che forse non era proprio una cosa bella, vista anche la compagnia in cui mi trovavo (Guia Soncini, per dirne una). Una cosa che ho imparato nel corso degli anni, tuttavia, è che più le persone si fissano e si riempiono la bocca sulle fallacie di tipo logico più è probabile che non sappiano argomentare o anche solo ragionare in maniera corretta, oppure che siano in malafede.

Occorre ammettere che tali elenchi sono divertenti, se fatti bene anche interessanti. Dei dubbi sulla loro effettiva utilità pratica potrebbero sorgere se si considera ad esempio che un simile elenco è pubblicato in bella mostra anche nel sito che è la bibbia dei fuffari italiani, cioè luogocomune.net, un coso dove la gente parla di scie chimiche e su come l'undici settembre se lo siano fatti da soli gli americani. Se provate a parlare con un complottista, infatti, lo scoprirete allenatissimo nel rilevare le fallacie dei vostri ragionamenti: vi interromperà ogni cinque secondi accusandovi di usare lo straw man (fra l'altro presunta fallacia di recente invenzione, che non esiste negli elenchi tradizionali, da Aristotele a Schopenhauer), l'argomento ad hominem, quello ad auctoritatem, il piano inclinato, e chi più ne ha più ne metta. Mi viene in mente un aneddoto del filosofo – teorico dell'anarchismo epistemologico – Paul Feyerabend: durante il periodo della contestazione studentesca un gruppo di giovani ribelli venne da lui, che aveva una certa e meritata fama di anticonformismo, per chiedergli di dare lezioni di logica: "se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo prima imparare a pensare", "questa poi – rispose Feyerabend – o cosa diavolo c'entra la logica col saper pensare?".

Tutte queste persone sono convinte che occorre essere impeccabilmente logici nell'affrontare un argomento e lo ricordano in continuazione, salvo dimenticare di esserlo a loro volta quando è il loro turno di parlare. Non si può fargliene una colpa, del resto, perché mi sono infine convinto che è impossibile non usare fallacie in una conversazione, e anche che si tratta, almeno quando non se ne abusa, di modi perfettamente legittimi di ragionare. Le persone che si fissano sulle fallacie sembrano concepire una discussione come se fosse qualcosa che non ha nulla a vedere con le discussioni vere, che possiamo avere nella realtà, cioè come una specie di algoritmo il cui scopo è quello di derivare un teorema da determinate premesse. Viene in mente l'utopia leibniziana, in cui di fronte a qualsiasi divergenza di opinione due uomini avrebbero dovuto semplicemente sedersi a un tavolino con un abaco e dire con rassegnazione "ebbene, calculemos", magari con l'aiuto della notazione binaria.

Se il fine fosse quello di derivare conclusioni certe da premesse altrettanto certe ovviamente avrebbero ragione, solo che nessuna persona normale fa questo, di solito. Lo scopo di una discussione è convincere il prossimo del proprio punto di vista. L'apertura mentale che consiste nel riconoscere che anche la propria opinione potrebbe essere sbagliata è un presupposto abbastanza importante, così come quello che è possibile raggiungere una posizione condivisa diversa dalle precedenti, ma non va confuso con l'idea per cui la discussione è un esercizio matematico affine alla scoperta di nuovi teoremi da condurre insieme all'interlocutore. È triste vedere come quella che Schopenhauer chiamava la nobile arte di ottenere ragione, appunto, la dialettica, sia stata cosi neutralizzata e ridotta a volgare errore, in questo modo annichilendo, se si prendessero sul serio certe questioni (cosa che per fortuna le persone normali non fanno), le reali potenzialità di una discussione, triste questo teorizzare astratto sul corretto modo di argomentare senza alcun rispetto e curiosità per la prassi concreta, per l'osservazione empirica, questo non volersi nemmeno interrogare sulle effettive funzioni e possibilità di certe pratiche.

Ma facciamo infine degli esempi che illustrino il mio punto di vista. La più famosa di tutte le fallacie è probabilmente quella ad hominem, che (dice Francesco Rende) "si verifica quando viene aggredita, anziché la conclusione, la persona che la asserisce o la difende". L'esempio più classico è quando si attacca una certa teoria, ad esempio che i vaccini sono pericolosi per la salute, mostrando che i suoi sostenitori più in vista sono tutti dei ciarlatani. Ammesso che lo siano, si sostiene, non ne consegue logicamente che l'affermazione "i vaccini sono pericolosi per la salute" sia falsa. Nei casi più estremi l'argomento può assumere la forma della semplice ingiuria: "credo che 2+2 faccia 4", "ma stai zitto che non capisci niente". In realtà in passato l'espressione era usata per intendere qualcosa di molto più soft: se andiamo a leggere il Saggio sull'intelletto umano, di Locke (libro quarto, capitolo 17, paragrafo 21), troviamo la seguente definizione di ad hominem: "lo stringer dappresso un uomo con certe conseguenze tratte dai suoi principi o conclusioni". Potrebbe sembrare una mera e irrilevante questione linguistica, ma in realtà quel che intendo mostrare è che non c'è affatto soluzione di continuità fra il tipo di argomento descritto da Locke e gli altri, considerati più abusivi.

Da notare che Locke lo considera, insieme agli altri descritti nello stesso capitolo (argumentum ad verecundiam, cioè ad auctoritatem, e ad ignorantiam), proprio come un modo imperfetto di argomentare, sebbene lo faccia con parole molto più sfumate dei detrattori di oggi: "né, dal fatto che altri mi abbia dimostrato che sono su una via errata, consegue che egli sia nella giusta. […] Tutto questo, forse, potrà predispormi a ricevere la verità, ma non mi aiuta ad ottenerla: la conoscenza deve provenire da prove ed argomenti, e la luce deve sorgere dalla luce delle cose stesse, e non dalla mia timidezza, ignoranza od errore". Si tratta, qui, di un punto epistemologico assai delicato del quale lo stesso Locke sembra sottovalutare la complessità: com'è possibile, infatti, ricevere la conoscenza dalle cose stesse? Quello con cui noi abbiamo a che fare per procedere sulla via della conoscenza, il materiale di partenza, è sempre costituito da opinioni precedenti, non da verità che troviamo già confezionate e che si trovano al di fuori di noi. Non è che possiamo uscire da noi stessi per confrontare la nostra opinione sul mondo col mondo stesso. Ugualmente nel discutere con qualcuno non possiamo indicargli la verità (non siamo Gesù), possiamo solo mostrargli che è in errore.

L'argomento ad hominem così descritto, se ci si pensa, non è altro che il metodo socratico per eccellenza, l'elenchos, alla base della celebrata maieutica: "l'elenchos nel senso più ampio significa esaminare una persona con riguardo ad una affermazione che essa ha fatto, ponendole domande che richiedono ulteriori affermazioni, nella speranza che essa voglia determinare il significato e il valore di verità della sua prima affermazione. Il più delle volte il valore di verità atteso è la falsità, e così l'elenchos nel senso più stretto è una forma di confutazione" (R. Robinson, Plato's earlier dialectic). Ci si attende, in altre parole, che l'interlocutore riconosca la validità del principio, questo sì genuinamente logico, di non contraddizione. Certo, mostrare che le opinioni di una persona sono incoerenti non significa ipso facto dimostrare la verità di una specifica proposizione, per cui è legittima la questione se un tale metodo conduca effettivamente alla conoscenza, e perché dovrebbe farlo. Non possiamo certo qui esaurire l'argomento, ma possiamo forse accennare al fatto che da tale indagine, e con i suoi tentativi di risposta, Platone ha iniziato il grande cammino della filosofia occidentale.

Ribadisco: quando discutiamo con una persona intorno a un tema specifico non abbiamo a che fare con verità preconfezionate cadute dal cielo, ma ciò con cui lavoriamo sono sempre le opinioni dell'interlocutore (e le nostre) delle quali mettiamo alla prova la coerenza. Questo significa che non esista un argomento effettivamente usato che non sia in un certo senso ad hominem. Prendiamo uno dei casi di presunta fallacia più citati, il tu quoque o appello all'ipocrisia "in cui si cerca di gettare discredito sulla tesi del proprio avversario sostenendo che non agisce o non ha agito in modo coerente con ciò che sostiene" (F. Rende). Ad esempio se qualcuno difende lo stile di vita vegetariano per motivi animalisti ma gli facciamo notare che indossa abiti di pelle. Dice sempre Rende che "l'incoerenza di chi propone una tesi, infine, non ha nulla a che vedere da un punto di vista logico con la tesi in questione e la discussione dovrebbe vertere sulla tesi proposta e non su vizi e virtù di chi la propone".

Certo, questo sarebbe verissimo se il nostro scopo fosse quello di derivare logicamente conclusioni vere dalle premesse: non esiste relazione di implicazione logica fra "Tizio indossa abiti di pelle" e "la tesi di Tizio per cui è sbagliato uccidere animali allo scopo di cibarsene è sbagliata", quindi dimostrare che Tizio è incoerente non serve a dimostrare che le mie opinioni, contrarie a quelle di Tizio, siano corrette. Ma, aspettate un momento, forse si è perso di vista lo scopo del dibattito: io non devo essere convinto delle mie opinioni, non devo dimostrare a me stesso che sono corrette, perché, ehi, sono già le mie opinioni! In realtà il tu quoque assolve benissimo l'obiettivo, in una discussione, di spostare l'onere della prova riguardo a certe affermazioni sul nostro avversario dialettico. Tizio dice che il vegetarianesimo è giusto, affermazione sulla quale per ipotesi non si concorda: sta a lui mostrare come la sua opinione possa conciliarsi con altre sue idee o abitudini, o eventualmente abbandonarne alcune. Non sta a noi dimostrare a noi stessi qualcosa di cui siamo già persuasi senza che niente metta in crisi la nostra idea.

Andando avanti nella nostra disamina possiamo renderci conto che nemmeno il prendere di mira una persona che possiede una certa opinione, stavolta senza neanche preoccuparsi di esaminare in alcun modo le sue opinioni e la loro coerenza, possa essere sempre scorretto. "Caio sostiene che il bicarbonato cura il cancro", "sì, ma Caio è un povero idiota". Ricordiamo, il nostro scopo non è dimostrare teoremi, non è derivare conclusioni logiche da premesse secondo metodi deduttivamente validi; il nostro scopo è persuadere, e nel fare ciò dobbiamo lavorare con ciò che il nostro interlocutore ci offre, all'occasione usando la psicologia. Potrebbe darsi benissimo che il convincimento di qualcuno che il bicarbonato cura il cancro sia fondato sulla buona opinione che ha di Caio. In tal caso, mostrargli che Caio è un idiota potrebbe benissimo assolvere al nostro scopo con grande economia di mezzi, senza che dobbiamo metterci a fare test in doppio cieco sui trattamenti al bicarbonato a pazienti malati di cancro (che a rigore sarebbe l'unico modo per esaminare seriamente la questione).

In realtà a me sembra che il fatto che Caio sia scemo sia un motivo del tutto valido per non prendere in seria considerazione la sua opinione o perdere tempo ad esaminarla, benché naturalmente non vi sia una relazione di implicazione logica fra "Caio è scemo" e "la tale opinione (sostenuta da Caio) è sbagliata". Si analizzi il seguente dialogo: "che ore sono?", "l'orologio in salotto segna le 17:20", "ah, ma quell'orologio è fermo da anni", "scusa, ma questo è un argomento ad hominem, il fatto che l'orologio sia rotto non implica che non possano comunque essere le 17:20". Dire che Caio è scemo è del tutto equivalente a dire che l'orologio è rotto, o che la calcolatrice che stiamo usando per i nostri calcoli non funziona correttamente: significa che non è uno strumento affidabile e che è del tutto irrilevante ciò che possa affermare.

Al contrario, ha talvolta senso ricorrere all'argomento ad auctoritatem, che Locke chiama ad verecundiam perché si fonda sulla vergogna, l'imbarazzo che l'interlocutore potrebbe provare se messo a confronto con l'opinione di persone molto più autorevoli di lui. La vita è breve e se io voglio farmi un'opinione sull'opportunità di costruire centrali nucleari in Italia, anche al fine di esercitare i miei diritti di elettorato attivo, non credo di potermi mettere a studiare per anni la questione, quindi è razionale da parte mia affidarmi agli esperti, alle persone delle quali rispetto l'opinione, così come può essere razionale e pertinente, in un dibattito, esporre quale sia l'opinione del tale esperto al riguardo (il che naturalmente non vieta che il mio avversario possa avere informazioni ancora più complete del mio esperto).

La fallacia del piano inclinato consiste nell'assumere che, accettando un principio che di per sé parrebbe innocuo (ad esempio "è giusto che i gay possano sposarsi") si corre il rischio di dover accettare ulteriori conseguenze che invece ci appaiono indesiderate: "si comincia coi matrimoni gay, poi dovremo accettare anche la poligamia, poi le unioni incestuose e poi magari anche il matrimonio fra uomini e galline". Senza che nulla costringa ad accettare un simile argomento, ovviamente, non vedo neanche perché dovremmo considerarlo come fallace (se non nel senso, che abbiamo ormai visto irrilevante, che le conclusioni non seguono logicamente dalle premesse). Può darsi che il nostro interlocutore sia effettivamente spaventato dall'eventualità che vengano riconosciute le unioni con le galline, che debbano essere messi dei paletti estremamente rigidi per scongiurarla, e che ritenga che il matrimonio gay, di per sé legittimo, debba essere ostacolato in quanto avvicinerebbe questo esito drammatico.

Potrei continuare, gli esempi di fallacie abbondano, e di ciascuna è possibile trovare casi in cui si può ritenere lecito il loro uso, così come naturalmente casi di vero abuso. Ma vorrei qui dire un'altra cosa: quel che mi scoccia della fallaciofobia è che priva le discussioni di ogni divertimento, della stessa linfa vitale dell'argomentare, del lol. Se faccio una battuta di spirito durante un dibattito e ti senti per ciò ridicolizzato, mi dispiace, ma per favore, smettila di accusarmi di usare l'uomo di paglia e di essere per ciò disonesto: può darsi che abbia eccessivamente caricaturizzato il tuo punto di vista, ma credo che chi ascolta sia sufficientemente maturo e intelligente da capirlo senza che dobbiamo stare a insegnargli la logica, quindi lasciami giocare.

Se invece divento ingiurioso allora hai ragione a offenderti e darmi del maleducato, ma ancora una volta non capisco cosa c'entra la logica. L'insulto non è una fallacia, non è un argomento logico sbagliato, per il semplice motivo che non vuole affatto essere un argomento (può essere al massimo un sintomo del fatto che sono esasperato dalla tua ignoranza, oppure a corto di argomenti, o altro ancora). Se offendo tua madre perché non sono d'accordo con te riguardo l'opportunità di costruire centrali nucleari ti assicuro che esistono repliche migliori rispetto a "non conosci la logica, gne gne gne": tirarmi un cazzotto potrebbe essere una di queste, ma allora potrei farti notare che stai usando l'argomento ad baculum, se ancora riuscissi ad articolare o te ne importasse qualcosa.

Anche la violenza è una cosa brutta, ma non è necessario dire che non è logicamente valida per condannarla, questo sarebbe un esempio di quell'idolatria della logica, del pensiero razionale, che Feyerabend giustamente denunciava.

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