giovedì 19 marzo 2015

e niente


Fino al 1990 c’era un cinema, nel quartiere nel quale vivo, che è una leggenda. Il Cinema Universale era un cinema d’essai, si proiettavano ogni giorno grandi classici della cinematografia, ma non era un posto frequentato prevalentemente da fini e distinti intellettuali e di solito non era previsto il dibattito alla fine del film. Semmai, qualche scazzottata durante.

Io ero troppo giovane per frequentarlo assiduamente (e comunque non abitavo così vicino), credo di esserci stato un paio di volte (una volta vidi Kagemusha di Kurosawa). Ma non ero troppo giovane per sapere che quel cinema era una leggenda già all’epoca, per sentir raccontare storie e aneddoti continui su quel che vi accadeva, e quindi per sapere che era un posto forse unico al mondo, dove accadevano cose che non sarebbero potute accadere altrove, e che dopo la chiusura del cinema non sarebbero accadute mai più.

Prima che il film iniziasse, si potevano vedere i segni lasciati dai continui lanci di scarpe sullo schermo, se si riusciva a penetrare la densa cortina creata dal fumo di sigaretta (di tabacco e non solo). Appena il film iniziava, invece, cominciava il delirio vero. Diciamo che non era il posto adatto se uno voleva seguire tutti i dialoghi con attenzione senza perdersi nemmeno una battuta. In realtà, e come tutti sapevano (a parte gli sfortunati capitati lì per sbaglio) il film era solo un pretesto, e lo scopo di pagare il biglietto (quando lo si pagava, perché pare che vi fossero modi di aggirare l’odioso balzello) era il cazzeggio puro.

Immaginate un cinema pieno di persone che per due ore di proiezione non fanno che urlare i peggiori epiteti e volgarità in fiorentino ai personaggi del film, accompagnate da scrosci di applausi fischi o proteste varie. A quanto pare gli schiamazzi erano tali che talvolta erano costrette a intervenire anche le forze dell’ordine, come in quell'episodio, non si sa appunto quanto leggendario, in cui al termine della proiezione di Fragole e sangue, dopo la scena finale del pestaggio degli studenti da parte della polizia, al riaccendersi delle luci gli spettatori si trovarono circondati da celerini. Altre leggende circolavano: la più famosa, con numerosissime varianti, quella del tizio che entra a film iniziato in Vespa, fa il giro della sala, forse più volte, e poi se ne esce trionfante. In altre occasioni le proiezioni furono animate dalla compagnia di animali liberati in sala nei momenti topici: piccioni, o ranocchi. Era normale, uno mentre passeggiava in campagna vedeva dei ranocchi e poteva pensare “sai che? questi li raccolgo in un sacco e stasera li porto al cinema”.

Quel che rendeva speciale l’esperienza dell’Universale, ovviamente, non stava nella spazio in sé, così come non era l’offerta cinematografica (pure interessante), ma era la comunità di persone che animavano quello spazio, arricchendolo e venendone a loro volta arricchiti. Una comunità con i suoi rituali, con i suoi personaggi di spicco, con i suoi modi di dire. Ogni volta che iniziava il film, ad esempio, era usanza che qualcuno si mettesse a gridare forte “COM’È LA GRAZIELLA?” (la cassiera), e che tutti i presenti rispondessero in coro “TROIAAA!”. Oppure “COM’È ROMANONE?” (la maschera, fra l’altro un vero avanzo di galera), e tutti “BUCO!”. Se due personaggi, in un film d’amore, si lasciavano andare a qualche tenera effusione, venivano subito richiamati a una maggiore concretezza dal popolo presente: “MACCHÈ BACINI E BACINI, BUTTAGLIELO NEL CULO!”. Il neologismo più celebre, rimasto nella memoria collettiva, pare fosse occasionato dalla più nota scena di Ultimo tango a Parigi, quella dove insomma Marlon Brando fa le cose con la Schneider: un genio gridò “ABBURRACCIUGAGNENE!”.

Come in tutte le comunità non regnava certo l’amore universale, ma poteva anche capitare che qualcuno si sentisse escluso. Partecipare alle attività in maniera attiva non era una cosa scontata, bisognava in qualche modo farsi accettare. Per quanto l’umorismo non fosse di livello proprio raffinato, occorreva pur sempre avere la battuta pronta e soprattutto divertente da sfoggiare al momento giusto, non è che andasse bene tutto. Una battuta debole, urlata da un novizio, poteva pure esporlo al pubblico ludibrio. Anche le liti erano abbastanza normali. Eppure anche questo alla fine contribuiva a rendere più ricca l’esperienza di chi ci andava, il conflitto fa parte in fondo della vita di qualsiasi comunità, che cresce e si evolve imparando a gestirlo. Si trattava, poi, di una comunità in trasformazione, attraversata dai grandi cambiamenti che avvenivano intanto nella più grande comunità che la includeva, quella italiana, che passava dalle contestazioni e dall’impegno politico degli anni ’70 al riflusso del decennio successivo, con l’esplodere del problema della droga (abbondantemente percepito nella microcomunità), e il rifugio nichilista nel disimpegno, nell’umorismo cinico un po’ fine a se stesso.

Così tutti i fiorentini insomma, quel 30 dicembre 1989 in cui il cinema chiuse i battenti, non poterono non sentirsi tristi, persino quelli che non ci erano mai stati, perché sapevano bene che finiva un’esperienza irripetibile, un microcosmo unico, come lo sono tutte le comunità più vive, irripetibile perché non si sarebbe mai riprodotto l’insieme di circostanze storiche, socioculturali e antropologiche che determinarono quell’esperienza. E infatti non avrebbe senso tentare di ripeterla, i cinema non sono più quelli di una volta, le modalità di fruizione sono cambiate, anche i film non sono gli stessi, e soprattutto, anche a prescindere da tutto ciò, le persone non sono le stesse, il quartiere stesso è cambiato (meno, si può forse rivendicare, di altre parti della città). Sul cinema Universale si può leggere un libro di Matteo Poggi, Breve storia del Cinema Universale, appunto, o guardare il documentario girato da Federico Micali (che ha anche un progetto in crowdfunding per un film di fiction).

Il 9 aprile prossimo sarà un altro giorno triste, perché segnerà la fine di un’altra comunità. FriendFeed era un social network (in realtà inizialmente progettato soprattutto come aggregatore) nato nel 2007, che per un insieme di circostanze a me non chiarissime (forse un’interfaccia davvero semplice, elegante e funzionale) cominciò ad attrarre quelli che, alla fine del decennio scorso, erano i blogger italiani più in vista, che a loro volta funsero da polo di attrazione per molti altri utenti che desideravano semplicemente essere presenti in quello che era percepito come un luogo dell’internet dove accadevano le cose, dove occorreva essere. Accadde poi che nel 2009 Facebook si comprò FriendFeed (allo scopo, pare, di incorporare alcune features del suo codice) e che da quel momento FriendFeed diventò un social network agonizzante, lasciato a se stesso dai suoi sviluppatori, non più aggiornato, ma pur sempre funzionante.

Queste sono le condizioni che hanno probabilmente consentito la creazione di una comunità virtuale né troppo piccola né troppo grande – credo che gli utenti attivi italiani, che insieme ai turchi erano i maggiori frequentatori del socialino, non siano mai stati più di qualche migliaio, negli ultimi tempi eravamo forse nell’ordine delle centinaia – in grado di di percepirsi appunto come “villaggio” la cui composizione e le cui caratteristiche erano in parte casuali e imprevedibili in parte frutto di consapevoli ma non meno caotiche scelte degli abitanti, in grado di cercarsi fra di loro e di autoselezionarsi, ma di poter seguire anche quello che accadeva in gruppi più distanti e remoti. Amici o nemici, insomma, ci conoscevamo tutti (o quasi).

Occorre intendersi: FriendFeed non aveva probabilmente niente di davvero unico e originale, se non nel senso in cui qualsiasi comunità appunto è un unicum antropologico. Nessuno può davvero intenderne le caratteristiche senza averci vissuto, ed è probabile che a nessuno possa davvero interessare senza questa stessa condizione, motivo per cui ho un po’ esitato a scrivere quest’epitaffio, decidendo infine che niente mi vieta di fare un uso intimista del blog. Il fatto, puro e semplice, è che gli sviluppatori dopo anni di felice abbandono nel quale ci hanno lasciato piena libertà (cosa per la quale siamo loro grati), hanno deciso come è loro diritto di liberare spazio sui loro server, e quindi questa comunità verrà rasa al suolo.

Anche noi avevamo il nostro gergo specifico, le nostre usanze, i nostri esponenti di spicco e i nostri scemi del villaggio. Abbiamo coltivato le nostre amicizie (che non mi vergogno di definire tali anche quando puramente virtuali), qualcuno ha persino trovato l’amore. Abbiamo litigato e abbiamo fatto le nostre brutte figure parlando dei più svariati argomenti, oppure le brutte figure le abbiamo fatte fare ad altri. Una cosa bella del socialino, in effetti, è che non faceva davvero sconti a nessuno; caratteristica, questa dell’estrema aggressività, che lo faceva anche odiare e che ha spinto molti ad abbandonarlo con rancore. Abbiamo avuto i nostri traumi collettivi (non parlate a un friendfeeder di parti plurigemellari) e i nostri momenti di gloria o di delirio collettivo, siamo cresciuti e siamo cambiati, qualcuno è anche morto. Insomma è il luogo dove passavo il mio tempo.

Adesso che esiste una precisa scadenza c’è chi cerca di riorganizzarsi migrando altrove, addirittura creando da capo cloni del vecchio FriendFeed. Sono tentativi generosissimi che fanno anche comprendere il grado di affezione che legava gli utenti gli uni agli altri, e ai quali auguro il successo, ma non sono persuaso che sia possibile far rinascere ciò che, giustamente, a un certo punto deve morire. Tutto quel che ho da dire è che abbiamo una storia, per noi è importante, qualcuno forse si ricorderà di noi.

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