mercoledì 10 giugno 2015

contestare l'autorità


Circa un anno fa, quando avevo cominciato ad occuparmi della questione dell'obbligo scolastico, avevo scritto, a proposito dei fautori della descolarizzazione dei decenni passati, come Ivan Illich (autore del classico Descolarizzare la società), che ciò che mi distanziava da quei pensatori era il loro progetto sovversivo, la loro idea che la società industriale e capitalista dovesse essere profondamente trasformata o rovesciata, a differenza del mio conservatorismo, la mia volontà di conservare l'esistente e salvarlo dalla rovina incombente. Tutto sommato si trattava di una formulazione volutamente provocatoria e un po' scherzosa: ehi, ragazzi, in fondo sono anch'io un rivoluzionario, andiamo a fare bordello!

Più seriamente, qui vorrei affrontare l'eredità di certi vecchi maestri del pensiero anarchico (non sono solo, in questo processo di valutazione dell'eredità), di certe utopie antistataliste al tempo stesso contrarie al progresso e al capitalismo. Perché qui si nasconde forse l'antinomia di certe concezioni libertarie: perché in nome della libertà dovremmo anche combattere le forze del mercato e del progresso scientifico, le quali, almeno intuitivamente parlando, sono dei veicoli di libertà, forze che ci emancipano dai bisogni primari come la fame e da ataviche disgrazie come la malattia? E come si può costringere il prossimo ad essere "libero" secondo la nostra idea peculiare di libertà senza in realtà dominarlo?

Illich è il caso più esemplare di questa contraddizione che in realtà ritroviamo spesso nei pensatori anarchici di sinistra, senza arrivare a certe estreme conseguenze (penso ad esempio a Colin Ward): egli ambisce a una società "conviviale", dove la persona integrata con la collettività utilizza gli strumenti frutto del progresso tecnologico in modo autonomo, sottraendoli al monopolio di pochi specialisti che tengono tutto sotto controllo: tecnocrati che oltre a decidere le modalità di accesso al benessere stabiliscono anche la misura del benessere e della ricchezza, della felicità e del disagio, illudendo l'uomo moderno di poter soddisfare i suoi desideri ma in realtà creando in continuazione nuovi bisogni e nuove dipendenze. Nella società conviviale invece "prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni" (cfr. La convivialità). Esempi di strumenti il cui uso ha contribuito a impoverire l'uomo invece di arricchirlo sono, per Illich, i mezzi moderni di trasporto e la moderna medicina, oltre che le tecniche dell'educazione.

Contemporaneamente Illich promuove un'etica del limite, che appunto dovrebbe invitare l'uomo a usare i mezzi con parsimonia, con "austerità" anzi, a usare la bicicletta invece dell'automobile, o ad accettare la propria mortalità senza curarsi troppo della salute. Il problema, qui, è che non si capisce chi dovrebbe stabilire questi limiti, se non un dittatore benevolo, e in che modo si potrebbe costringere la gente a non usare l'automobile senza fare uso dell'autorità. Forse meglio tacere riguardo al discorso sulla medicina (nel libro Nemesi medica), dove l'invito di Illich alla passiva rassegnazione e all'accettazione del dolore, per quanto forse in sintonia con il costante sfondo religioso del suo pensiero, non può non apparire profondamente cinico ed immorale, e conservatore nel peggior senso del termine (vi è da riconoscere una certa coerenza almeno sul piano personale, visto che Illich rifiutò di curare il proprio stesso tumore).

D'altra parte Colin Ward nei saggi che compongono il suo Anarchy in Action elogia l'ordine spontaneo contro l'autoritarismo statale, in un libro che intende contrastare l'immagine dell'ideologia anarchica come utopica ed innocua fornendo invece esempi di organizzazione spontanea e non coercitiva già esistenti, mostrando che l'anarchia non è esclusivamente un progetto ma è già realtà in molti contesti basati sul solidarismo e la mutua assistenza senza imposizioni esterne (i sindacati di base, i gruppi di acquisto solidale, il movimento di occupazione delle case). Il punto è che fra questi esempi, che ovviamente piacciono ai decrescisti, avrebbe potuto metterci anche il libero mercato e il capitalismo, mentre profitto e culto delle merci compaiono invece tra le forze distruttive, disgregatrici della convivialità.

Anche in epoche più recenti, è diventato un luogo comune scagliarsi contro le forze del mercato che stravolgendo e oltrepassando le stesse regole del consenso democratico minaccerebbero la libertà. Idea stramba: se qualcosa minaccia la libertà dell'individuo è proprio la dittatura della maggioranza sotto la veste democratica. In realtà si può dire che "il mercato siamo noi" ben più che lo Stato, nel senso che nel libero mercato non c'è (non dovrebbe esserci) nessun potere che prende decisioni sopra la testa degli individui, ma il suo funzionamento e le sue dinamiche dipendono da miriadi di micro-decisioni individuali che si combinano in maniera spontanea, naturale. Ciò che talvolta sembra schiacciarci e dominarci non è che questo anarchico processo di decisione collettiva che appunto sfugge al controllo di qualsiasi potere individuale, nei suoi pro e nei suoi contro (il problema, nel voler controllare il processo, è che diventa subito evidente per chi sono i pro e chi subisce i contro: di solito i pro stanno dalla parte dei controllori).

In effetti, poi, non è troppo difficile trovare una certa giustificazione alla contraddizione, che rimane reale: quello contro cui protestava Illich non è il progresso in sé, non è la scienza medica, né l'istruzione in sé, ciò contro cui lottano gli anarchici di sinistra non è la ricchezza e il libero scambio delle merci, ma è la appunto la burocratizzazione del progresso, il suo impossessarsene da parte degli apparati di potere, statali e non, e il trasformare quindi quella che dovrebbe essere una forza emancipatrice, portatrice di libertà, in una nuova occasione di controllo e sottomissione degli individui da parte di un potere sempre più onnipresente e onnicomprensivo.

Cercando di non scadere in uno di quei discorsi complottisti alla Big Pharma, occorre ammettere che questo è abbastanza valido anche per il settore sanitario, il cui attuale ipertrofismo è solo in parte giustificato da una legittima e sacrosanta domanda di salute. Ovvero c'è effettivamente da chiedersi se non siamo andati verso un'eccessiva medicalizzazione della società che valuta e investe ogni aspetto dell'esistenza sotto il profilo della salute e della malattia, laddove inoltre nuove malattie vengono inventate ogni giorno allo scopo apparente di alimentare le fobie della popolazione, e comportamenti una volta normali vengono adesso classificati come patologici. Questo sembra particolarmente vero per quanto riguarda la salute mentale: ogni minimo segno di disagio esistenziale oggi viene classificato nel DSM e considerato degno di attenzione da parte di una classe di professionisti iscritti all'albo, ai quali si è costantemente invitati a rivolgersi per farci esaminare e valutare. Attraverso il nostro continuo affidarci agli specialisti del benessere abbiamo deciso di rientrare nello stato di minorità a noi stessi imputabile.

Il discorso vale, in realtà, anche per il capitalismo: altro che laissez faire, oggi la maggior parte delle persone del pianeta crede (senza minimamente rendersi conto della contraddizione) che il neoliberismo sia un'emanazione del potere di istituzioni diaboliche come le Banche Centrali le quali, lungi dal lasciar fare, si arrogano la pretesa di fissare arbitrariamente valori come il costo del denaro, di intervenire sull'economia manipolando grandezze come l'inflazione e i tassi d'interesse, peraltro in genere andando incontro a un fallimento dietro l'altro nei loro propositi.

Il discorso vale ovviamente per la scuola laddove se è possibile ragionare in termini di costi e benefici come si è fatto per la sanità, e ammettere che i benefici dell'istruzione sono molti, probabilmente superiori ai costi – che pure esistono, in termini di omologazione ideologica e culturale, di addestramento all'obbedienza, di manipolazione dall'alto della libera diffusione delle idee – non c'è niente che possa giustificare da un punto di vista etico l'obbligo scolastico. Siamo tutti grati alla medicina quando è in grado di curare le malattie, ma non siamo arrivati al punto in cui si considera lecito obbligare il prossimo a curarsi come noi vorremmo che si curasse, anzi, si considera una battaglia liberale l'esatto contrario. Qualcuno adesso obietterà qualcosa intorno alla vaccinazione obbligatoria, ma non mi sembra un paragone adatto all'istruzione: se è il contagio che temiamo, basta ricordare che è la cultura ad essere contagiosa, non l'ignoranza. Quindi l'obbligo assolve esattamente al suo compito di evitare il diffondersi di certe forme culturali non gradite all'establishment.

So che rischio di essere monotono, ma la soluzione per tutti questi problemi è a portata di mano: è il libero mercato (quando davvero libero, non gestito da burocrati). È una forza che del resto già sta esercitando il suo potere, come risulta dai continui richiami alla perdita di sovranità che gli stati lamentano, pressati da esigenze finanziarie che pretenderebbero di risolvere per decreto (come se si potessero decidere a colpi di maggioranza anche i principi dell'aritmetica). È comprensibile il disorientamento, lo spavento, ma dovremmo gioire di fronte a questa perdita di monopolio del potere. Dovremmo gioire del fatto che il progresso tecnologico rende davvero possibile quella convivialità, quella libertà di usare gli strumenti con piena autodeterminazione che una volta sembrava davvero utopica.

E qui torniamo a quella straordinaria agenzia educativa di tipo completamente nuovo che è Internet, e a Michele Serra, che un anno fa si chiedeva, tremolante, "Facebook è l'unico club al quale è obbligatorio essere iscritti?". No, Michele, nel caso non sarebbe l'unico, ma non è affatto obbligatorio, ed è il suo bello: sembrerà difficile da credere ma quelle centinaia di milioni di persone che lo usano lo fanno semplicemente perché lo vogliono, non perché qualcuno li costringa. Non ti piace che Zuckerberg sappia tutto di te e dei tuoi amici? semplicissimo, non dirgli niente, non è come l'anagrafe dove uno è davvero obbligato a registrarsi e a dire la verità. Volendo puoi scegliere di iscriverti a un altro social network, puoi persino progettarne uno di tuo gradimento e metterti a fare concorrenza a Zuckerberg. Ma se ti mette a disagio il fatto che una maggioranza di persone sceglie uno strumento che a te non piace non ti stai lamentando per una tua privazione di libertà, stai deplorando la libertà degli altri.

Anche se credo che se Ivan Illich fosse vivo oggi starebbe tutto sommato dalla parte di Serra e contro Facebook. Ma questo perché in fondo era un conservatore. Sul serio.

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