
È noto che niente è maggiormente in grado di scaldare gli animi e dare vita alle più accese discussioni, in Internet, quanto le inezie grammaticali. Uno può scrivere tutto quel che vuole, al giorno d'oggi, c'è la libertà d'espressione. Per cui si è giunti ad accettare quasi tranquillamente anche le opinioni più ignobili, purché vengano enunciate in un italiano formalmente e semanticamente corretto ("i negri che ci portano via le donne e il lavoro, io dico che bisogna fare piazza pulita", "aargh, cos'è, un anacoluto? e poi non si dice negri").
Ma che male fa, in buona sostanza, l'ignoranza della lingua? Beh, dipende. I grammar nazi sono persone abbastanza odiose, e quasi sempre più detestabili di coloro che criticano, perché distolgono l'attenzione da quello che dovrebbe essere il topic di una discussione per impuntarsi, in maniera anche dogmatica e intollerante, su cose di nessun conto, come la posizione di un accento o un apostrofo. Sembra inoltre che il livello di odio scatenato da un errore sia direttamente proporzionale alla sua insignificanza, o alla sua ambiguità.
Spesso infatti quelli che vengono indicati come errori imperdonabili neanche lo sono, se ci si prendesse la briga di controllare con attenzione. Si scrive "qual'è" o "qual è" (senza apostrofo)? Migliaia di disgraziati ogni anno vengono condannati alla morte sociale per aver usato la prima grafia. Il motivo è che si tratterebbe di un caso di troncamento della parola (come quando si dice "nel qual caso"), e non di elisione di vocale davanti a un'altra vocale ("un'altra" invece di "una altra"). Ma la stessa distinzione fra troncamento ed elisione in realtà è piuttosto fumosa. La grafia "qual" è sopravvissuta solo in casi abbastanza rari nella nostra lingua (al contrario del comunissimo "un" al posto di "uno"), il che fa sì che nell'espressione "qual è" la parola venga comunque percepita, soggettivamente, come intera ed elisa, piuttosto che troncata. Se "qual" sparisse del tutto dall'uso e sostituito ovunque da "quale", sarebbe difficile giustificare ancora la regola. In definitiva, la maggior parte delle grammatiche normative indica "qual è" come espressione da usarsi, e solo per questo motivo è giusto attenervisi, ma non per questo l'altro uso è da considerarsi un abominio.
Qualcosa di simile avviene con la regola del "sé", che perde l'accento davanti a "stesso". Perché mai? Perché, si dice, l'accento serve a risolvere le ambiguità, mentre non può esserci ambiguità possibile nel caso di "se stesso". Ma quando mai si usa l'accento solo per risolvere le ambiguità? ma chi l'ha detto? il "sé" è una cosa diversa dalla congiunzione "se", e conseguentemente una parola diversa, scritta in modo diverso, e basta. Non c'è una regola che dice che il "tè" (la bevanda) perde l'accento quando non rischia di confondersi col pronome "te", e sarebbe assurda (senza contare che nel caso di "se stesse", l'equivoco è invece possibile). Già, ma vallo a spiegare a quei puntigliosi individui, adesso.
Taccio del fatto che spesso si vorrebbero abolire certe espressioni non perché sbagliate ma perché considerate scorrette da un punto di vista etico. Qualcuno ad esempio propone di non far precedere mai un articolo davanti a un cognome, anche quando il cognome è quello di una donna. Ovvero non "Gasparri e la Carfagna", ma "Gasparri e Carfagna", semplicemente, in modo da rimediare ad un'odiosa discriminazione e a un pregiudizio nascosto fra le pieghe del linguaggio. Ne taccio perché di cose simili ho già parlato. Taccio pure del fatto che spesso queste persone ammaliate dal linguaggio sono seriamente convinte che una certa lingua sia "superiore" ad un'altra, più ricca o più espressiva, salvo il non saper indicare un'unità di misura per la ricchezza e l'espressività di una lingua (oltre l'aneddotica).
Insomma, non è mica detto che chi parla male pensa male. Detto questo, però, Nanni Moretti ha anche ragione: le parole sono importanti. Quando lo sono? Se l'ignoranza di una regoletta ortografica è cosa che può facilmente essere perdonata (e facilmente rimediabile, del resto) e se l'errore può capitare, soprattutto quando si scrive in fretta e in contesti informali (come una chat), quando invece gli errori sono troppi non si può negare che ciò faccia una brutta impressione.
Una persona che non si dà mai la briga di controllare se ha messo almeno gli spazi tra una parola e l'altra, o qualche vestigia di punteggiatura all'interno di un lungo periodo, è una persona che fa pochi sforzi per farsi comprendere, per essere facilmente leggibile da tutti. È come un sito web compilato male, oppure scritto tutto in comic sans: non c'è nulla di essenzialmente sbagliato nell'uso di un font al posto di un altro, salvo che alcuni vengono a noia molto presto, o addirittura limitano la leggibilità del testo. E $3 $(r1v373 (0$ì, pr1m4 0 p01 qµ4£(µn0 v1 m4nÐ3rà 4 ƒ4n(µ£0.
Poi c'è quel tipo di espressioni che si fanno detestare solo per il loro abuso, e denotano una certa pigrizia, una propensione alle frasi fatte, al luogo comune. Magari sono espressioni originariamente innocenti, o che al loro apparire erano pure intelligenti, ma sono come battute umoristiche che ripetute centinaia di volte non fanno più ridere: "a prescindere", "ma anche no", "piuttosto che", "nella misura in cui", "per certi versi".
Peggio di questo, c'è quel tipo di errore che è sintomo non tanto di ignoranza, ma di una reale confusione mentale. Chi non riesce a completare una semplice frase soggetto-verbo-predicato, chi sbaglia continuamente i tempi verbali, chi non sa concordare i soggetti con i verbi e gli aggettivi, beh, è qualcosa di più che poco pratico con i magici arcani della nostra lingua, e con le sue sottigliezze. È confuso, nella migliore delle ipotesi. E questo comincia ad essere un problema di sostanza, non solo di forma.
Noi censori dovremmo combattere di più per questioni di sostanza, che per inezie sugli accenti, eppure non vedo in giro molte persone che si sbattono per un italiano scritto bene, nel senso che sia comprensibile e corretto dal punto di vista dell'analisi logica. Dico di più. In realtà dovremmo indignarci per i ragionamenti sbagliati, per i sofismi che le persone lasciano scivolare con disinvoltura nei loro discorsi. Queste sono le cose che non dovremmo perdonare, e questi sono i veri pericoli per la società.
John Allen Paulos ha scritto un libro, Innumeracy, sulla piaga dell'analfabetismo numerico, nel quale denuncia appunto il fatto che esiste molta più indulgenza (e auto-indulgenza) per un'ignoranza anche grave e totale delle più elementari nozioni matematiche, che per la scarsa dimestichezza con la lingua. Nessuno vi escluderà mai da un salotto perché non sapete che il diametro di un cerchio sta circa 3,14 volte nella sua circonferenza, o che il lato e la diagonale di un quadrato sono incommensurabili. Anzi, la gente se ne compiace. "Io quando vedo un'equazione mi va in tilt il cervello, ih ih".
Ma questo è un genere d'ignoranza (e non parlo solo della matematica, ovviamente) che produce danni seri, produce Sandro Roberto Giacobbo per dirne una. Produce una cultura di professori di greco e latino che passano il tempo libero a scrivere deliranti pamphlet contro le scie chimiche. Produce persone apparentemente colte (che si vantano di essere colte e istruite, almeno), che però scrivono cose del genere.
Produce distorsioni giornalistiche che passano inosservate, come quando qualche speaker si lascia scappare che ogni giorno muoiono un milione di senzatetto nelle strade d'America, e nessuno batte ciglio non rendendosi conto di quanto sia sballata la scala (per moltissime persone, "un milione" significa semplicemente "un numero molto grande", un po' come i selvaggi dell'Amazzonia che non sanno contare oltre il due). Rimaniamo affascinati quando sentiamo dire che ogni minuto in Amazzonia vengono disboscati 4 stadi di calcio, ma non ci mettiamo mai a contare quanti stadi di calcio contiene l'Amazzonia. Ci facciamo incantare dagli abracadabra numerici, continuamente, senza mai mettere in allerta lo spirito critico.
Io ho un certo rispetto per i grammar nazi, in fondo nel loro piccolo svolgono anche loro un'opera meritoria. Solo, quando ne incontro uno, mi viene voglia di chiedergli come si calcola l'area di un trapezio, o di risolvermi una semplice equazione di secondo grado. Oppure la formula chimica del sale da cucina. Non pretendo moltissimo, credo. Ma se non lo sanno, perbacco, tornassero a scuola.