Feci la conoscenza di un calzolaio di nome Schröder… che più tardi andò in America… Mi diede da leggere dei giornali e io poco li leggevo, perché mi annoiavano; ma poi mi interessarono sempre di più… Parlavano della miseria dei lavoratori, e di come i lavoratori dipendevano dai capitalisti e dai grandi proprietari terrieri, in un modo così vivo e vero che ne fui sbalordito. Era come se prima fossi vissuto con gli occhi chiusi. Accidenti quello che scrivevano su quei giornali era la verità. Tutta la mia vita fino a quel giorno ne era una prova (un bracciante tedesco, 1911 circa).
Gli è che la gente non aveva la più lontana idea di ciò che stava per accadere. In fondo i soli veramente ragionevoli erano i poveri, i semplici, che stimarono subito la guerra una disgrazia, mentre i benestanti non si tenevano dalla gioia, quantunque proprio essi avrebbero potuto rendersi conto delle conseguenze. Katzinski sostiene che ciò proviene dalla educazione, la quale rende idioti; e quando Kat dice una cosa, ci ha pensato su molto (Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, 1929).
Le due citazioni, la prima delle quali compare ne L’età degli imperi di Eric Hobsbawm,
dovrebbero render chiaro come l’educazione può assumere diverse valenze, anche
in considerazione del contesto nel quale viene somministrata. Nel caso del
bracciante tedesco abbiamo a che fare col potenziale emancipatorio della
lettura, con la capacità che ha di far oltrepassare i limiti ristretti
dell’esperienza quotidiana per meglio rischiararla e far comprendere al lettore
la propria situazione. C’è da chiedersi, naturalmente, chi ha interesse oltre
al bracciante in questione a risvegliare la sua coscienza e fornirgli
l’educazione di cui ha bisogno. Forse i suoi padroni? O non avrebbero piuttosto
interesse i padroni a tenere nell’ignoranza i lavoratori?
Il secondo passo mette in evidenza quello che è il lato
oscuro della scolarizzazione (dal quale, nel caso in questione, i più poveri
sarebbero almeno stati risparmiati a scapito dei benestanti), ovvero l’esatto
contrario dell’emancipazione e del risveglio dello spirito critico, ma
l’indottrinamento e il cieco asservimento agli interessi di un potere
superiore. Peccato che questo secondo lato sia stato relegato sullo sfondo da
una mitologia sempre più pervasiva e onnipresente secondo la quale l’educazione
non può che assumere tutte le valenze positive, tanto da costituire non solo un
diritto di ciascuno, ma addirittura un obbligo che ci viene disinteressatamente
imposto in vista del nostro bene.
Ma mettendo per il momento da parte la polemica sull’obbligo
quello che si vuol mettere sotto osservazione è il mito. “Mito” qui, e seguendo
lo storico dell’alfabetizzazione Harvey J. Graff, ha il senso barthesiano di
sistema di comunicazione che connota ideologicamente la realtà tendendo non
tanto a nasconderla ma a deformarla, a occultare i rapporti di produzione che
la rendono possibile, a occultarne cioè la storicità e problematicità
rendendola “natura”, una realtà non discutibile e che in qualche modo vive
ormai di vita propria, sganciata da ogni contesto storico e da ogni possibilità
di verifica empirica. Con questo, cioè, non si intende denunciare come
interamente “falso” il sapere comune riguardo all’alfabetizzazione, ma
denunciarlo come problematico, ed evidenziare come poggi su basi spesso più
ideologiche che storiche o sociologiche.
Il mito afferma che esiste una cosa, che si chiama
“alfabetizzazione”, il cui possesso a livello individuale coincide non solo con
la capacità di avere successo nel mondo del lavoro e delle relazioni sociali ma
soprattutto con il possesso di tutte quelle qualità che ci rendono “umani” e ci
distinguono dalle bestie. L’uomo è un animale alfabetizzato. A livello
collettivo costituisce invece la misura del progresso di una determinata
società, indissolubilmente legata a qualsiasi altro indicatore di benessere
perché di questo causa o origine prima. La storia di qualsiasi popolo conosce
una drastica cesura dal momento in cui esso viene “alfabetizzato” e
“scolarizzato” e viene quindi strappato da un passato di oralità, di ignoranza
e superstizione dove tali privilegi spettavano soltanto a una sparuta
minoranza. Un popolo alfabetizzato, inoltre, è naturalmente in simbiosi con la
democrazia in quanto in grado di comprendere i propri interessi e di compiere
scelte razionali e mature, mentre le istituzioni di un popolo ignorante sono
condannate a degradarsi e trasformarsi in qualcosa di simile alla tirannia.
Quale più efficace e simbolica espressione del mito potremmo
prendere questa vignetta che ultimamente ho visto passare spesso su Facebook:
Dove il messaggio, al di là dell’ingenuità del credere che i
conflitti del pianeta si risolvano davvero con l’istruzione, è in realtà
profondamente ambiguo perché l’istruzione viene da un lato contrapposta alle
armi, strumenti di violenza e predominio, mentre dall’altro lato se ne dichiara
appunto la natura affine, proprio di strumento di sopraffazione del nemico più
efficace di qualsiasi altro. L’equivoco è anche quello di considerare
l’educazione come ideologicamente neutra, come cosa buona a prescindere dai
contenuti (mentre non è che i talebani siano contrari all’istruzione, anzi,
sono favorevolissimi alla loro peculiare idea di istruzione). Proprio questa
finzione però denuncia l’intento imperialistico, di esportazione non di una
idea neutra di istruzione, che non esiste, ma dei nostri valori occidentali e
della nostra democrazia. Ma se è così non meraviglia appunto la ostinata
resistenza che questa idea incontra in certi contesti da noi considerati barbarici.
Altra espressione emblematica del mito è una dichiarazione
della scrittrice Amélie Nothomb di questi giorni: nel video dove il terrorista
jihadista Amedy Coulibaly rivendica i suoi omicidi si vedono, su uno scaffale,
alcuni libri, tra i quali sono stati riconosciuti anche un romanzo di Pennac e
uno della Nothomb. Il commento della scrittrice è stato che questa non può
essere che una curiosa coincidenza (cosa probabile), anche perché “sicuramente
Coulibaly non sapeva leggere”, laddove il messaggio che si vuol trasmettere è
che i cattivi sono tutti analfabeti, e forse anche che chi non legge (in
particolare i libri della Nothomb) è cattivo. Ancora, di recente uno scambio
verbale fra il primo ministro Matteo Renzi e alcuni eurodeputati leghisti (“è
difficile per alcuni di voi leggere più di due libri, lo capisco”), e la
conseguente reazione, hanno evidenziato come l’accusa di non leggere sia
equivalente a un pesante insulto, e di esempi potremmo ancora produrne a iosa.
Il primo elemento di problematicità è che
l’“alfabetizzazione” non è affatto quella nozione chiara che si potrebbe
pensare, e come potrebbe essere evidenziato dalla proliferazione di aggettivi
qualificativi che sentiamo sempre più il bisogno di aggiungere al termine:
analfabetismo digitale, analfabetismo emotivo, analfabetismo religioso
eccetera. Se originariamente per alfabetizzazione si intendeva solo il processo dell’insegnare a leggere e
scrivere e far di conto (che già è un insieme di competenze piuttosto
complesso) oggi il termine conosce una grande sviluppo verso l’inclusione al
suo interno di qualsiasi competenza considerata in qualche modo utile e
necessaria per l’individuo o per la società (due poli, ricordiamolo ancora, non
necessariamente convergenti). Se quindi da un lato assistiamo, in tutta
evidenza, alla sconfitta dell’idea per cui una società finalmente alfabetizzata
è una società per forza di cose felice, prospera, e democratica, ecco che ci
viene in aiuto la nozione per cui oltre l’80% dei cittadini italiani
soffrirebbe di “analfabetismo funzionale” (quindi tutto a posto, possiamo
continuare a credere nel dogma che dobbiamo continuare a investire
nell’istruzione se vogliamo uscire dal pantano).
Anche attenendoci alla definizione più stretta, però,
dobbiamo prendere atto della non soluzione di continuità, delle innumerevoli
sfumature e ambigue zone di confine che esistono fra la totale incapacità di
leggere e scrivere e l’alfabetizzazione completa, il che può non rendere semplice
stabilire da quale parte della barriera che noi abbiamo voluto stabilire (fra
uomini e bestie) un individuo ricada, o di quanto sia alfabetizzata una società
nel suo complesso. Il che rende difficile anche stabilire quelle correlazioni
che poi dovrebbero servirci a sorreggere il mito. Il problema è che spesso le
misure del livello di alfabetizzazione di una società partono da presupposti
che sono validi solo per il contesto al quale siamo abituati, e che perdono
completamente di senso altrove. C’è ad esempio la tendenza a far coincidere la
capacità di leggere e quella di scrivere, mentre si tratta di due competenze
molto diverse che non necessariamente viaggiano accompagnate. Così le storie
dell’alfabetizzazione che contano quanti dei testimoni di un atto firmassero
con le croci piuttosto che con i loro nomi potrebbero introdurre un dato fuorviante,
anche perché la croce, oggi appunto simbolo di ignoranza, era in passato quel
che oggi è ancora quando non è apposta in fondo a un documento legale, un
simbolo sacro destinato a garantire la veracità del documento più di quanto
potesse fare un nome.
Oggi tendiamo a concepire la lettura come un esercizio
interamente individuale, da svolgersi nel silenzio, che isola l’uomo dalla
compagnia delle altre persone. È chiaro che in questo contesto la misura di
quanto è alfabetizzata una società non può che essere espressa in modo
atomizzato, semplicemente sommando le persone che sono in grado di leggere e
scrivere. In realtà però una società dove una piccola percentuale di persone
hanno queste competenze non deve essere affatto una società dove la parola
scritta non circola in maniera estesa e non raggiunge una grande percentuale di
popolazione, anche fra gli strati più umili. Una persona che non è in grado di
leggere autonomamente non per questo è condannata all’emarginazione, o a non
conoscere i prodotti della cultura anche più alta del suo tempo (così come le
persone più istruite non per questo si salvano dall’isolamento e dalla
ristrettezza mentale), può anzi arrivare a conoscerli in maniera forse anche
più coinvolgente, dato che prevede la partecipazione di altri esseri umani.
Quando costruiamo i nostri racconti di marcia inesorabile verso il progresso
forse dovremmo ricordarci, oltre che di quel che abbiamo innegabilmente
guadagnato, anche di quel che abbiamo perso, ad esempio in termini di
convivialità (per usare un termine caro a Illich).
C’è inoltre la tendenza a enfatizzare la scrittura libraria e
quella secolare, lasciando da parte da un lato quella documentaria, il cui
valore strumentale però poteva essere apprezzato anche da chi non era
interessato a leggere trattati di astronomia, ovvero da chiunque volesse tenere
con sé certificazioni e garanzie dei propri possedimenti legali o privilegi,
cosa valida per il chierico o il nobile ma spesso anche per i ceti artigiani o
persino per insospettati lavoratori della terra. Dall’altro lato si ignora
l’uso non secolare, ma religioso della parola scritta (anche in lingua latina),
la sua funzione nella preghiera e nella partecipazione ai riti religiosi. Da
qualunque parte la si guardi gran parte di quel tanto esecrato medioevo – precedente
alla ambigua “rinascita” umanistica e il suo programma culturalmente elitario
ampiamente responsabile del mito odierno, proprio nel dare tanta importanza
alla cultura libraria e secolare – deve essere rivalutato dal punto di vista
dell’alfabetizzazione: storici come M.T. Clanchy (si veda il suo bel libro From Memory to Written Record) argomentano come nel basso medioevo la
diffusione della parola scritta fosse molto più ampia e apprezzata di quanto
comunemente ritenuto. Quanto alla produzione dei documenti scritti in senso
stretto essa non poteva essere affidata che a una élite molto ristretta, ma questo
per ragioni più tecniche che legate a una presunta sottovalutazione
dell’importanza dell’istruzione in quei secoli bui. Si dimentica anche quanto
lo scrivere fosse davvero un compito tecnicamente arduo prima della diffusione
della penna biro e della carta (per non parlare delle tastiere dei computer),
che richiedeva fatica dedizione e apposita strumentazione, spesso costosa.
Tutto questo serve a spiegare quanto sia poco chiaro e
definito persino l’oggetto della nostra inchiesta, e quanto inquinato da
pregiudizi fin dalla sua formulazione. Ma è tempo di affrontare i famosi
benefici dell’istruzione, e la correlazione con crescita economica benessere e
democrazia. Quanto alla crescita economica, non ho grandi messaggi
revisionistici da lanciare: è chiaro ed è dimostrato da molte ricerche che la
crescita del capitale umano in termini d’istruzione è fortemente correlata con
lo sviluppo economico, anche se gran parte (forse la maggior parte) della
correlazione può essere spiegata da un legame causale in direzione contraria,
ovvero dal fatto che una società ricca è maggiormente in grado di finanziare
l’istruzione dei suoi membri. Anche ammettendo, e volentieri, il legame
sinergico, ci sono comunque varie postille da aggiungere. È intanto probabile
che questo legame tenda ad allentarsi con l’aumentare del livello d’istruzione:
ovvero, la competizione per i migliori posti di lavoro e il migliore reddito
assicurati da un’istruzione superiore tendono a diventare un gioco a somma
zero, dove i vincitori non fanno che togliere risorse ai perdenti piuttosto che
beneficiare la società nel suo complesso. A certi livelli l’effetto potrebbe
persino essere negativo, ma per questo rimando nuovamente al saggio di Raffaele
Alberto Ventura, Abbasso la scuola,
già citato in un precedente post.
Avendo deciso di concentrare il mio sguardo
sull’alfabetizzazione e l’istruzione elementare non posso che rilevare, agli
effetti della critica del mito, che la suddetta correlazione non è né lineare
né certa ma può conoscere varie eccezioni: la più evidente è quella per cui la
Rivoluzione Industriale ha determinato almeno nella sua prima fase un netto
calo della scolarizzazione e della frequenza scolastica (il motivo è abbastanza
semplice e noto: il bisogno di personale nelle fabbriche ebbe inizialmente
l’effetto di svuotare le scuole). C’è da dire del resto che non può che essere
così, essendo molteplici i fattori oltre l’istruzione che vanno a incidere
sulla crescita economica: ad esempio trasparenza ed efficienza delle
istituzioni, mancanza di corruzione e legalità, riforme politiche che
migliorino il mercato del lavoro eccetera. D’altronde il mito vuole che anche
tutti questi fattori siano positivamente influenzati dall’istruzione, quindi
qui bisogna un po’ decidere cosa sacrificare: o l’influenza positiva
sull’economia è meno forte di quanto si crede, o non lo è quella sulla politica
e sulla moralità. Io a dire il vero non ho molti dubbi su cosa sia più
sacrificabile, ma questo lo vedremo poi. Piuttosto, se è indubbiamente vero che
esiste una forte correlazione fra PIL del paese e tasso di alfabetizzazione, è
anche vero che al tempo stesso cresce la sperequazione, la diseguaglianza fra
ricchi e poveri nei paesi industrializzati, quindi ci si può ben chiedere: chi beneficia davvero dell’istruzione di
base obbligatoria? tutti sono compresi nei suoi vantaggi?
Venendo appunto, alla relazione fra alfabetizzazione di un
paese e la sua qualità “morale” c’è intanto da dire che questo era in realtà
l’intento originale dei riformatori ottocenteschi: più del miglioramento
economico l’innalzamento morale delle classi povere, per sottrarle
dall’abiezione dei costumi effetto dell’ignoranza. Si era in un’epoca nella
quale le masse dei poveri facevano paura, nella quale le classi lavoratrici erano
anche percepite come “classi pericolose” (per riprendere il titolo di un famoso
saggio di Louis Chevalier), e si pensò di ridurre il problema cercando di
ingentilirle tramite quel ristretto concetto di educazione che ancora oggi è
sinonimo di bon ton. Evidentemente la
definizione di un parametro di moralità è cosa molto delicata, e quindi un
obiettivo assai pericoloso. Se ad esempio della moralità fanno parte anche
l’obbedienza all’autorità, l’amor di patria, e lo spirito di sacrificio
possiamo pensare che l’educazione dei giovani tedeschi agli inizi del secolo
scorso abbia perfettamente ottenuto il suo scopo, come evidenzia la seconda
delle citazioni con cui abbiamo aperto il post. Mentre il bracciante della
prima citazione è un cattivissimo esempio di educazione per alcuni e ottimo per
altri.
A parte queste relativistiche considerazioni, comunque, mi
pare davvero che mai come in questo caso il mito sia assolutamente impermeabile
a un’evidenza che è tutta contro di lui. Se c’è una cosa che l’educazione non
fa nonostante le venga continuamente attribuita è innalzare il livello di
civiltà di un individuo o una nazione. Anzi, siamo al paradosso per cui ci si
lamenta continuamente dello scarso livello dell’istruzione generalizzata
proprio constatando gli effetti dell’alfabetizzazione. Ovvero, nel leggere gli
status su Facebook di persone colpevoli di usare quegli strumenti culturali, la
capacità di leggere e scrivere, che un’istruzione forzata ha fornito loro. Allo
stesso tempo si invocano i bei tempi andati, quando una percentuale altissima
di persone partecipava democraticamente al suffragio universale senza
astenersi, dimenticando che una buona percentuale di quei votanti era
analfabeta (molti più di adesso, se non altro).
Tutti sostengono un nesso fortissimo fra istruzione e
democrazia ma la maggioranza delle dittature che conosciamo in realtà non
sembra proprio prendere sottogamba il problema dell’istruzione e non pare che voglia
far restare ignorante le sue masse: non lo fa Cuba, che conosce uno dei più
alti livelli di alfabetizzazione del mondo intero (nonostante il basso sviluppo
economico che per amor di pace attribuiremo solo all’embargo). Non lo fa la
Corea del Nord, anch’essa con un tasso di alfabetizzazione che molti paesi
occidentali invidiano e dove l’istruzione è obbligatoria per 11 anni. Non lo fa
la Cina (dove almeno l’istruzione ha avuto risultati molto buoni per quel che
concerne la crescita economica). Non lo faceva la Germania della prima metà del
secolo, dove se comunque si volessero tenere distinti i concetti di
indottrinamento ideologico e istruzione il livello culturale era molto alto
anche prima dell’avvento del nazismo, e anzi si potrebbe discutere del ruolo
avuto dalla diffusione di certe idee scientifiche nel propagare
l’antisemitismo. Un caso di lampante di dissonanza cognitiva è l’articolo di
“Tuttoscuola” (citato qui) dove
prima si sostiene che la Libia di Gheddafi figurava agli ultimi posti nella “classifica
di democrazia” stilata dall’"Economist",
poi si nota il buon livello raggiunto dalla Libia in termini di
alfabetizzazione per concludere allegramente che “il regime gheddafiano sembra
dunque non essere stato in grado di spegnere quel bisogno di libertà
e quello spirito critico che sono sempre e comunque connessi alla diffusione
dell’istruzione tra i giovani”. Qui si rivela tutta la potenza del mito: se una
dittatura cade dopo 42 anni è ovviamente merito dell’istruzione, non dobbiamo
chiederci in che modo l’istruzione abbia operato nei decenni precedenti, o cosa
stia facendo per i nord-coreani.
Può valer la pena di insistere sul fatto che chi scrive non è
affatto contrario all’alfabetizzazione di massa. Si vuol solo sottolineare la sua natura di
tecnologia fra le altre che non può essere in se stessa una inarrestabile forza
civilizzatrice ma i cui benefici dipendono dal sistema sociale nel quale è inserita.
Essa è indubbiamente un diritto fondamentale di ciascun individuo. Vorremmo
però affermare che fra i diritti forse non merita quel posto di tutto rilievo
che al suo cospetto fa sparire tutti gli altri diritti: dobbiamo difendere
anche il diritto di guardare i programmi di Maria de Filippi in televisione
(che sarebbe poi interessante capire per quale motivo non rientrano, al
contrario dell’epica, nel concetto di istruzione), il diritto di giocare ai videogame,
il diritto di guidare un’auto sportiva, quello di giocare a calcio o andare a
vedere le partite di calcio, di avere uno smartphone
ultimo modello, di vestirsi alla moda. Non si capisce, cioè, perché tutti
questi bisogni siano solo percepiti mentre solo quello dell’istruzione è
davvero e sempre necessario, e perché solo l’istruzione ci renda umani. Sogno
un remake del film di Romero Dawn of the
dead, dove i sopravvissuti invece di rifugiarsi in un centro commerciale si
nascondano all’interno di una grande biblioteca infestata da migliaia di zombi:
“perché vengono qui?” si chiede uno dei personaggi. “Forse perché, in quel poco
di barlume di vita che gli resta, tendono a fare quello che hanno sempre
fatto".
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