I miei anni di vegetarianesimo – anni attraversati da varie incertezze e traballamenti – che precedono la mia conversione dietologica comunque non li rinnegherò mai perché credo che mi abbiano consentito di accumulare qualche punto di esperienza nel campo dell'antropologia applicata all'alimentazione, lo studio dell'atteggiamento fondamentale dell'animale uomo nei confronti del cibo. In definitiva ho scoperto una cosa: nel ventunesimo secolo siamo molto tolleranti nei confronti dei costumi altrui, possiamo sopportare chi parla in modo diverso o addirittura provare simpatia per lui, per chi ha il colore della pelle diverso dal nostro, per chi si veste in maniera diversa, per chi prega un altro Dio, per chi ha orientamenti sessuali alternativi, ma proviamo sempre un ineliminabile fastidio per chi mangia in maniera diversa da noi.
Si entra qui nel campo dei tabù alimentari: c'è stato un tempo in cui credevo, con Marvin Harris, che i tabù alimentari fossero solo dettati da convenienze di tipo economico-igienista, quindi da fattori in ultima analisi emotivamente neutri. Il tabù del maiale presso le popolazioni semitiche è molto sentito, certamente, e il disgusto è genuino, ma sotto sotto, per Harris, agisce la semplice inopportunità di allevare suini in determinati climi, o per gli indiani la non convenienza di usare la vacca come fonte di cibo rispetto ad altri usi. Tutto questo è valido, e credo faccia bene Harris a rifiutare le vacue spiegazioni culturaliste ("fanno così perché è la loro cultura"), però non spiega esattamente per quale motivo la gente, anche all'interno di una stessa cultura che condivide grosso modo gli stessi tabù alimentari, vive come un'offesa personale il fatto che altri non abbiano le stesse abitudini in fatto di cibo. Per esempio chi mangia l'aglio disprezza quelli che non lo mangiano, e viceversa.
Molti vegetariani certamente provano fastidio nei confronti dei non vegetariani, ma questo fastidio è abbastanza spiegabile dalla considerazione che i vegetariani ritengono la loro alimentazione più etica, o anzi meglio dal loro amore per i poveri animali vittime delle necessità culinarie altrui. Questo a sua volta potrebbe forse spiegare il fastidio che i non vegetariani provano per i vegetariani, che sono considerati come una setta illiberale che cerca di convertire l'umanità intera al loro stile di vita. In realtà – lasciatemi dare un giudizio super partes – le sette sono almeno due: vi assicuro, amici carnivori, che non vi comportate affatto in maniera meno intollerante, e forse siete anche peggio perché muovete dalla consapevolezza di essere maggioranza (mentre la maggior parte dei vegetariani è più timida proprio perché teme una reazione da cui sa che uscirebbe sconfitta). Per ogni vegetariano che vorrebbe abolire l'uso della carne mettendo fuori legge le macellerie c'è un non vegetariano che pensa che occorrerebbe portare via i figli dai genitori vegan. Vi ammantate di parole come etica e responsabilità, ma la verità è che non vi sopportate a vicenda perché mangiate in modo diverso.
Questo vale anche per chi cerca di nascondere il fastidio per gli altri in parole d'ordine come "salute pubblica". Chi predica sventure e terrorizza il prossimo nel dipingere a tinte fosche l'inferno che aspetta chi si nutre di carni rosse, grassi saturi, e bibite zuccherate; chi si riempie la bocca della parola "biologico" e si fa il segno della croce davanti a conservanti e pesticidi; chi vorrebbe mettere le bombe alla Monsanto perché produce Ogm che fanno suicidare i contadini poveri, o chi ritiene legittimo spaccare la vetrina di un fast food poco prima di recarsi al ristorante di lusso a versarsi del barolo. Ma vale anche per chi, cibandosi come desidera legittimamente cibarsi, non resiste al dileggio nei confronti di chi non lo accompagna; chi "compatisce" i vegetariani e i salutisti, ma non si limita a compatirli interiormente, ma deve ruttargli in faccia la sua pietà; chi concepisce il mangiare zozzo come una manifestazione di virilità da esibire a tutti come certi si aprono l'impermeabile ai giardinetti, e condisce ogni boccone con le sue battutine salaci sugli altri, i diversi.
Probabilmente, e sono consapevole di non dire nulla di originale, il cibo è considerato un rito non solitario, collettivo, che riguarda l'intera comunità e che quindi non fa parte della sfera rigorosamente privata e individuale come il sesso. Quello che uno di noi mangia è allora un atto che ci riguarda tutti, e il non adeguarsi alle norme collettive è visto come un gesto che spezza i vincoli della comunità e la mette in pericolo. E d'altra parte, chi non vuole adeguarsi non si accontenta di nascondersi nella sua cameretta ma pretende che sia l'intera comunità a seguirlo, e si metterà a predicare il suo nuovo verbo (esattamente come ho fatto anch'io, del resto).
I detti popolari ci vengono in aiuto: "chi non mangia in compagnia è un ladro o una spia", "chi mangia solo si strozza", "far finire tutto a tarallucci e vino" quando si fa la pace (ma se a me non piacessero i tarallucci o fossi astemio si continua la guerra?), e "spezzare il pane" come simbolo di fratellanza, di unione. Quello dello spezzare il pane è in particolare un gesto di speciale significato per i cristiani, in quanto simbolo della comunità dei fedeli unita nel corpo di Cristo. Torna qui, un parallelo che mi è già capitato di svolgere un paio di volte: quello fra una dieta e una religione, e i dietologi come nuovi leader spirituali. Ciò spiega facilmente perché ogni religione è dotata di specifici tabù alimentari (al di là del rinforzo dato dalle ragioni puramente materiali harrisiane) destinati da un lato a rinforzare i vincoli sociali all'interno della comunità di fedeli, dall'altra a identificare facilmente i nemici, quelli esterni e i dissidenti interni.
Il punto però è che mentre le religioni tendono alla secolarizzazione, e anche alla privatizzazione del sentimento religioso (come faccenda privata intercorrente fra il fedele e Dio), è rimasta tutta la forza del tabù alimentare sganciato ormai dal suo fondamento religioso, come fatto simil-religioso a sé stante. Abbiamo laicizzato lo Stato, ma non la tavola. Così quando il signor Barilla afferma che non vuole coppie dello stesso sesso a tavola nelle sue pubblicità scoppia il finimondo proprio perché il diritto a pubblicizzare i propri prodotti come meglio si desidera viene considerato meno importante della inclusione dei gay nella grande Chiesa dello spaghetto (non volante) che ci identifica anche in quanto italiani, inclusione messa a repentaglio dalle sventurate parole di Barilla. Forse sarebbe il momento di una rivoluzione culturale anche in questo senso.
Ora, io non so se esiste un rimedio, e quale potrebbe essere. Mi piacerebbe che la gente condividesse meno fotografie di pasti su Instagram o Facebook, in quanto appunto momenti intimi e personalissimi, oppure che tali foto fossero almeno confinate in spazi appositi come i filmini pornografici, in modo che non feriscano la sensibilità di nessun innocente; mi piacerebbe anche che la televisione pubblica destinasse meno spazio a trasmissione di orrenda propaganda culinaria (a proposito, ricordate il caso Bigazzi? tanto rumore per la ricetta del gatto? era un'improbabile faccenda animalista o una questione religiosa?), ma ovviamente non me la sentirei di imporlo per via legale. Forse basterebbe solo un po' di educazione in più.
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