venerdì 30 dicembre 2011

una cosa abbastanza facile




Qualche anno fa, quando c'era un governo di centrosinistra e Bersani aveva tentato di liberalizzare qualcosa, riuscendo più o meno solo ad eliminare i costi fisse delle ricariche telefoniche, fui abbastanza stupito di sentire quello che era stato il Ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, criticare questa iniziativa in Parlamento come una "finta liberalizzazione" che non avrebbe comportato nessun vantaggio per i consumatori, in quanto le compagnie telefoniche avrebbero semplicemente alzato le tariffe per compensare le perdite.

Certo che l'avrebbero fatto, pensavo. È nel loro diritto, e infatti che liberalizzazione sarebbe quella che impedisce di alzare le tariffe, o impone un prezzo massimo a un dato prodotto o servizio? Pensai allora che Tremonti si stava approfittando (poiché non credo che fosse così ignorante delle più elementari nozioni economiche) di una certa carenza di comunicazione da parte dei politici di centrosinistra, che forse non avevano spiegato bene ai loro elettori in cosa consistevano i vantaggi per i consumatori di certe "riforme" (se così vogliamo chiamarle). E che allora ogni tanto bisogna smetterla di fare i superiori e adattarsi a spiegare l'ovvio, anche a costo di apparire banali.

Forse finché paghiamo un euro per una ricarica telefonica da 20 euro (un costo quindi del 5% sul servizio) oppure quando al ristorante paghiamo un coperto di 3 euro per una cena da 60 euro, ovvero quando le cifre sono relativamente modeste, non ci accorgiamo di nulla. Possiamo quindi pensare che non ci sia nessuna differenza fra il pagare 20 euro + 1 di costi di ricarica o il pagare 21 euro di ricarica, oppure tra il pagare 60 euro + 3 di coperto e il pagare 63 euro di conto, e invece c'è una differenza che apparirebbe evidente se solo provassimo a gonfiare i costi di ricarica (o del coperto). Perché, che accadrebbe se al ristorante il coperto fosse di 50 euro? O se per entrare in un negozio di vestiti ci obbligassero a lasciare 100 euro all'ingresso?

Accadrebbe che tutti quelli che entrano nel negozio sarebbero praticamente forzati a spendere qualcosa come 2000 euro in vestiti, se volessero mantenere la percentuale del 5% di costi fissi. Se intendessi comprare solo una sciarpa che costa 20 euro non potrei farlo a meno di non essere disposto a spendere 120 euro, che magari per quella sciarpa è un po' troppo, oppure a comprare ancora più cose nel tentativo di ammortizzare i costi di ingresso. Il coperto del ristorante, per quanto possa apparire una cifra modesta, è un volgare trucco per obbligarvi a spendere ancora di più di quanto non avreste fatto se non ci fosse stato il coperto, a mangiare di più, e quindi ingrassare e rendervi obesi, maggiormente soggetti a malattie cardiache e circolatorie, e conseguentemente con gravi danni anche alla spesa sanitaria nazionale. Tutto per 3 euro di pane e coperto.

Naturalmente accadrebbe anche che molte persone non entrerebbero mai in quel negozio perché non potrebbero affrontare quei costi, infatti avrebbero potuto permettersi la sciarpa ma non l'ingresso. Questo non è un problema per il ristorante che ha un numero di posti limitato, e finché si riempie può permettersi di fissare il prezzo del coperto a qualunque cifra desideri (può anche prendere a frustate i clienti se questi continuano a venire), mentre potrebbe trasformarsi in una grave perdita di opportunità per il negozio, ovvero in meno sciarpe vendute. Non è un caso che di solito i negozi di vestiti non hanno costi fissi d'ingresso, e che si paghi solo la merce acquistata, e che siano in questo diversi dai ristoranti. Anzi, se qualcuno li obbligasse a mettere questi costi la cosa si trasformerebbe in un danno doppio, ovvero sarebbe un danno sia per i clienti (non potrebbero comprare la sciarpa che desiderano oppure dovrebbero adattarsi a spendere cifre esorbitanti per acquistarla), sia per i negozianti (venderebbero meno sciarpe).

C'è anche un altro sacrificio che viene fatto, anche questo a danno del consumatore, ed è nella perdita di trasparenza dei prezzi. Se spendo 100 euro per entrare in un negozio la sciarpe da 20 possono anche regalarmele come omaggio. Naturalmente non si tratterebbe di un vero regalo, ma io comunque potrei non venire mai a sapere quanto mi sarebbe costata quella sciarpa, e percepirlo come tale. In questo modo non riesco nemmeno a capire qual è il "vero valore" delle cose che acquisto, quanto sono davvero convenienti, e quindi quanto mi costano davvero. Il che mi rende assai complicato scegliere fra questo negozio e quello accanto, che invece di regalarmi sciarpe offre un consistente sconto sulle giacche. Il successo o l'insuccesso di un prodotto possono così dipendere da dinamiche in realtà estranee alle preferenze dei consumatori, o alle logiche di mercato, ma dalle decisioni del direttore del negozio. È un po' come se al ristorante il cameriere trovasse il modo di rifilarci, fra i piatti "consigliati dallo chef", lo spezzatino avariato della settimana prima.

Si tratterebbe insomma di un sistema altamente inefficiente, dove per "efficienza" si deve intendere il concetto paretiano, quello per cui un sistema di allocazione delle risorse è efficiente quando l'unico modo di fare stare meglio qualcuno è far stare peggio qualcun altro, ed è inefficiente in caso contrario. In questo caso il sistema è inefficiente perché levando i costi fissi dell'ingresso nel negozio e mantenendo solo quelli per gli acquisti faremmo stare meglio tutti senza fare stare peggio nessun altro. Avremmo solo delle opportunità in più. I costi fissi distruggono delle risorse preziose, non sono neanche un gioco a somma zero, ma un gioco a somma negativa.

Ora, come esercizio mentale, potremmo immaginare che non sia il negoziante a obbligare il cliente a pagare 100 euro ogni volta che entra in un negozio di vestiti, ma che sia lo Stato a farlo, per finanziare le sue spese. Avremmo così spiegato per quale motivo le tasse sono un male, cioè un danno per tutti, per i consumatori, per i negozianti, per la comunità nel suo complesso. Che poi era lo scopo che mi proponevo in questo post. Perché ogni tanto pure noi liberali dobbiamo cercare di far capire le nostre idee e di comunicarle agli altri, anche quando ci sembrano così ovvie. Infatti, da molte conversazioni avute negli ultimi mesi, anche online, ho dovuto prendere atto che c'è un sacco di gente che non capisce per quale motivo le tasse sono un male (non che le paghino volentieri, altrimenti non ci sarebbe bisogno di costringerle e magari donerebbero addirittura più di quanto è richiesto, ma forse credono sinceramente che siano "bellissime" come diceva qualcuno).

Naturalmente la tassazione non funziona proprio così: lo Stato non obbliga i consumatori a versare nelle sue casse una determinata quota ogni volta che entrano in un negozio, ma si può dimostrare comunque che qualsiasi tassa o imposta è inefficiente, nel senso paretiano che dicevamo prima, ovvero che non è un mero trasferimento di ricchezze da una mano a un'altra (il che sarebbe un gioco a somma zero), ma è un modo di distruggere delle ricchezze potenziali. Lo Stato ad esempio potrebbe obbligare i consumatori a versare non una quota fissa di 100 euro, ma il 21% del valore dei beni acquistati in ogni negozio, ma è chiaro che l'effetto sarebbe, anzi, è, più o meno lo stesso: un danno per i consumatori, un danno per i negozianti, un danno per tutti. Spiego: supponiamo che io sia disposto a spendere un massimo di 110 euro per una sciarpa che ne costa 100 (prezzo di mercato) e che al negoziante è costato 90 euro produrre (quindi sarebbe disposto a vendermi la sciarpa per qualunque cifra superiore a 90 euro). Adesso che mi viene a costare 121 euro a causa dell'imposta non compro più la sciarpa. Io perdo un affare di 10 euro (la differenza fra il valore che io attribuisco alla sciarpa e il suo prezzo). Il negoziante perde 10 euro (la differenza fra il costo di produzione della sciarpa e il suo prezzo). E pure lo Stato non vince, perché non incassa i 21 euro che sperava di avere da me. Le tasse quindi sono sempre un gioco a somma negativa, non vince mai nessuno.

Ora, e per non generare equivoci, quando dico che le tasse sono un male e che lo sono sempre, in realtà non intendo dire che siano un male assoluto. Potrebbero essere un male necessario. Diciamo che se uno Stato deve esistere, e intravedo una certa utilità dello Stato nel proteggere i diritti essenziali dei cittadini, ad esempio nel far rispettare la legge e la proprietà privata, e nel garantire il rispetto dei contratti, allora è chiaro che per esistere deve affontare delle spese, e queste spese devono essere pagate per forza dalla comunità. Oltre a garantire i diritti dei cittadini e la sua stessa esistenza (cosa che comporta presumibilmente anche spese militari) una funzione essenziale dello Stato potrebbe essere quella di venire incontro a certe esigenze di solidarietà particolarmente importanti. Io personalmente sono contento che lo Stato soccorra chi è stato particolarmente sfortunato, o che non permetta che qualcuno muoia di fame e di sete. Certo, sarebbe bello se il soccorso agli altri non fosse imposto e arrivasse sempre spontaneamente, ma dato che non possiamo essere sicuri che ciò accada adattiamoci pure. Posso essere persino disposto a riconoscere, fra le funzioni utili e le spese necessarie, la promozione della cultura e la tutela del patrimonio ambientale, quando non vi siano garanzie che il settore privato possa provvedere adeguatamente.

C'è solo una cosa che mi fa arrabbiare, ed è quando si dice che le tasse servono a "redistribuire la ricchezza". Perché, anche ammesso che tale redistribuzione sia una cosa eticamente corretta (ma io davvero non vedo come potrebbe esserlo, in quanto incompatibile col diritto alla proprietà privata), in realtà credo di aver appena dimostrato che non si tratta di una mera "redistribuzione" dove la ricchezza viene semplicemente trasferita. In tale processo, già eticamente dubbio, vi sono delle ricchezze, delle risorse, delle opportunità che vengono sistematicamente distrutte. È una finalità che non ha nulla di moralmente buono, ma che soprattutto non ha nulla di "utile", da nessun punto di vista, essendo un modo per impoverire la comunità (e tralascio le spese che dovrebbero essere affrontate per gestire appunto il trasferimento di risorse, che sarebbero anche quelle una perdita netta).

Allora, essere contrari alle tasse (nel senso che le consideriamo al limite un male necessario, ma sempre un male) non c'entra nulla con l'essere di destra, per piacere, e l'essere a favore della redistribuzione della ricchezza non è necessariamente di sinistra, perché è semplicemente irrazionale. La logica non è né di destra né di sinistra. Tanto dovevo.

12 commenti:

  1. Sulla base del ragionamento che hai fatto, come le vedi le tasse alte messe su determinati articoli come "deterrente" all'acquisto (o per coprire i danni che si ritiene l'acquisto causi)?
    Intendo quelle su alcool, fumo e ultimamente (in Italia non ancora, all'estero sì) bevande zuccherate e cibi considerati "poco sani"...

    RispondiElimina
  2. Occhio a non far confusione però tra tasse indirette e tasse dirette. L'IVA al 21% è una tassa indiretta, colpisce chiunque dal poveraccio al megadirettore generale galattico di Fantozzi. Al contrario una vera patrimoniale che colpisca di più chi ha molto reddito e di meno chi ne ha poco è (giustamente come scrivi) sempre un male, ma un male minore e sicuramente più sopportabile dal ceto medio che è quello che sta pagando in pieno i problemi di questo stato. Ecco che lavorando solo su tasse indirette (accise, IVA e similari) effettivamente si inaridirà sempre di più l'economia, perché non basteranno quei 10 ricchi (ho messo un numero tanto per metterlo, sia ben chiaro) che comunque spenderanno a compensare ciò che gli altri 1000 cittadini comuni non potranno permettersi di spendere.

    RispondiElimina
  3. @yupa: se le tasse sono usate come deterrente per una semplice questione di paternalismo sono ovviamente contrario. Se invece si tratta di tutelare terzi per i danni conseguenti all'uso che noi facciamo di certe risorse il discorso è diverso e rientra nella questione delle esternalità. Osservo però che le esternalità non possono costituire un fallimento del mercato, come talvolta viene detto, perché anzi evidenziano i problemi che sorgono in quei settori dove non si riesce, per vari motivi, a imporre un mercato funzionante

    RispondiElimina
  4. @Buzz loyd: anche se non l'ho scritto chiaramente do per implicito il fatto che i diversi tipi di tasse, per quanto possano essere considerate differenti a fini di equità, nell'ottica della pura efficienza distribuiva si equivalgono. Ovvero una tassa sul reddito alla fine non è diversa da un'imposta in quanto è pure essa destinata a incidere sui prezzi degli articoli di consumo eccetera

    RispondiElimina
  5. Complimenti per il blog e per il bel post.

    Le concezioni di "tassa" ed "imposta", da te fornite, sono da considerarsi come aventi lo scopo di "ridistribuire la ricchezza". Ma non è solo questo lo scopo delle tasse od imposte, è solo una possibilità.
    Lo scopo dello stato è, anche per esempio, fornire protezione, già dalla concezione di Hobbes.
    E in questo lo stato permette il libero scambio, attraverso le tasse. Senza tasse si impedirebbero ulteriori scambi e si creerebbero danni a volte superiori.
    Un altro scopo delle tasse è permettere una situazione di uguaglianza (di partenza!). Escludere dei possibili attori non giova all'economia e la capillarità dei servizi e dell'istruzione non coincidono per forza con l'interesse di un ipotetico privato che dovesse fornirle.
    Un miglioramento dell'economia non per forza coincide con un miglioramento della qualità di vità o tutela dell'ambiente.

    E in più non sono convinto che al giorno d'oggi la domanda fondamentale sia ancora "come ridistribuire la ricchezza" e su questo mi rifaccio alla "società del rischio".

    RispondiElimina
  6. La questione del sostentamento di uno Stato non è così semplice come la si dipinge in questo post, né tantomeno è un problema solo italiano.

    Post molto superficiale. :[

    RispondiElimina
  7. Però non ho mai parlato di Italia, Michele.

    RispondiElimina
  8. @Michele:
    Non credo che Thomas pretendesse di racchiudere in un post qualche anno di studi di politica economica.
    Direi piuttosto che intendeva evidenziare la superficialità con cui si affronta il tema del rapporto fra il cittadino e lo stato.
    Se preferisci, fra l'individuo e la società.

    @Buzz:
    Attento a non confondere strumenti attinenti la sfera della redditualità con strumenti che invece colpiscono il risparmio.
    Non è affatto detto a priori che chi possiede di più (patrimonio) sia chi guadagna di più (reddito).

    @Tutti:
    BUON ANNO (breve)!

    RispondiElimina
  9. Momento: per quanto ormai le si usi come sinonimi (anche nei fatti, si pensi all'imposta di bollo), i concetti di imposta e tassa sono diversi:

    - l'imposta colpisce il reddito nelle sue varie sfaccettature e rappresentazioni, anche indirette (vedi IVA).
    - la tassa è il "prezzo" di un servizio pubblico pagato allo "Stato"

    Poi la patrimoniale, come dice il nome, non colpisce il reddito ma il patrimonio, cosa assai diversa.

    poiché non credo che fosse così ignorante delle più elementari nozioni economiche
    Non esserne così sicuro: Tremonti è destraiolo e laureato in giurisprudenza, due fattori che solitamente fanno a pugni colle cognizioni economiche.

    RispondiElimina
  10. Lo scopo del post era quello di spiegare per quale motivo considero le tasse (o meglio, prendendo atto della giusta precisazione di Rado, le imposte) uno strumento che deve essere usato con grandissima parsimonia a causa dei suoi effetti distorsivi sull'economia. Effetti che vengono spesso rimossi e attribuiti ad una "ideologia neoliberista" o chissà cosa, attribuendo invece alla tassazione addirittura un valore positivo e utile al progresso sociale, nonostante il ragionamento che ho cercato di riassumere qui mi appaia limpidissimo e difficilmente negabile. Ma questo, ripeto, non significa non prendere atto che alcuni mali talvolta sono necessari.

    RispondiElimina
  11. anche ammesso che tale redistribuzione sia una cosa eticamente corretta (ma io davvero non vedo come potrebbe esserlo, in quanto incompatibile col diritto alla proprietà privata)

    Questa affermazione mi sembra una semplificazione eccessiva. Innanzitutto, praticamente in ogni sistema sociale del passato e del presente la proprietà privata si riferisce a determinati beni e risorse, ma mai a tutti. Per dire, non c'è mai stata la proprietà privata dell'aria (e probabilmente non ci sarebbe nemmeno in presenza di strumenti tecnologici che rendessero possibile il possesso privato di questa risorsa). In molte società rurali alla proprietà privata della terra si affiancava la proprietà comunitaria (terra appartenente a tutto un villaggio); e via dicendo.
    In secondo luogo, garantire un diritto vuol dire garantirlo a una fetta il più possibile ampio della popolazione, pena l'insorgenza di tensioni sempre più forti e potenzialmente distruttive per la stessa società. Nel caso della proprietà privata, siccome questa proprietà si riferisce a beni fisici e concreti, quindi a beni finiti, se fossero in pochi a possederne grandissime quantità allora in molti ne avrebbero poco o nulla, e quindi non potrebbero godere di questo diritto. Da questo punto di vista, la redistribuzione non è irrazionale, ma è una risposta all'elemento di contraddizione che è presente in praticamente tutti i diritti non naturali (ovvero tutti i diritti tranne quello a non essere uccisi).

    Detto questo, se in nome della redistribuzione si impongono delle tasse, e queste tasse distruggono delle risorse potenziali impoverendo la comunità nel complesso... beh, è proprio il male necessario alla sopravvivenza del sistema sociale. Non è quello obbligatorio, la storia ci offre qualche esempio di mali necessari alternativi, ma direi che è il meno peggio.

    RispondiElimina