Mi sono reso conto che prima di
continuare il discorso sui presunti benefici dell’istruzione di base e
l’alfabetizzazione di massa obbligata occorre affrontare una questione
collaterale che rischia di ergersi come un muro contro qualsiasi tentativo
empatico di comprensione delle altrui ragioni, ovvero quella sui diritti
dell’infanzia.
Pare strano, ma esiste una convenzione
tacita per cui qualsiasi ragionamento espresso in termini di maggiore o minore
libertà esclude a priori i bambini. Se in molti sono d’accordo con l’idea che
le persone devono essere libere di compiere le loro scelte – senza costrizioni
esterne anche quando imposte per il loro bene – sono anche d’accordo
nell’escludere i bambini dal novero delle persone con facoltà di
autodeterminarsi, cosa che legittimerebbe l’intervento statale a loro tutela: i
bambini sono sì detentori di diritti, ma nel senso in cui per gli animalisti lo
sono gli animali, quindi solo come soggetti passivi, senza voce in capitolo.
Mi rendo conto che si tratta di un argomento
delicato e complesso, che impone una riflessione il meno possibile superficiale.
Mi propongo di affrontarlo secondo due direttrici: nella prima parte cercherò
semplicemente di mostrare come il ruolo dello Stato possa essere demandato
senza troppo drammi a chi ha sempre ritenuto di avere questo potere decisionale
nei confronti delle generazioni più giovani, ovvero la famiglia (termine
peraltro vago, che può includere solo i genitori ma anche la comunità familiare
allargata fino a includere il vicinato).
Nella seconda parte, ben più radicale e
importante nelle sue intenzioni, tenterò invece di rovesciare l’assunto
classico della sociologia che vede l’infanzia solo come protagonista passiva
del fenomeno della socializzazione, quindi come puro oggetto di sperimentazione,
come semplice utilizzatrice finale delle manovre degli ingegneri sociali aventi
il fine di “integrare” il giovane nella cittadinanza, invece che attiva
protagonista e partecipante della vita culturale di una certa civiltà in un
dato momento.
Il processo di istituzionalizzazione
della vita infantile è coinciso con una sfiducia crescente nelle capacità dei
genitori di educare, crescere, e garantire un’esistenza dignitosa alle propria
prole. Nella psicologia dello sviluppo di Freud e poi dei vari epigoni la
famiglia è diventata anzi l’origine di tutte le problematiche e le turbe
caratteriali di qualsiasi individuo. Ogni problema riscontrabile nella vita
adulta è sicuramente attribuibile a una famiglia “disfunzionale” (a quanto pare
occorre sempre più essere “funzionali” in molteplici campi per avere il diritto
di esistere), il che spiega la fretta da parte della società di strappare i
bambini dal controllo delle famiglie per porli sotto la sua tutela.
Il fenomeno è coinciso anche con un
processo di “scoperta” dell’infanzia che – sebbene le concezioni dell’infanzia
siano passate innegabilmente sotto importanti mutamenti nel corso degli ultimi
secoli – ha una natura profondamente ambivalente che viene talvolta raccontata
da una visuale limitatissima. Da un lato
si racconta spesso un’edificante favoletta di progresso secondo cui l’infanzia
viene sempre più strappata a un passato fatto di barbarie, di violenze, di
negligenze, di gravissimi abusi perpetrati nell’indifferenza generale: come
scriveva Lloyd deMause nel 1974 “la storia dell'infanzia è un incubo dal
quale solo di recente abbiamo cominciato a destarci. Più si va addietro nella
storia, più basso appare il grado di attenzione per il bambino, e più
frequentemente tocca a costui la sorte di venire assassinato, abbandonato,
picchiato, terrorizzato, e di subire violenze sessuali”.[1]
Edward Shorter arriva a sostenere che “le cure materne [the good mothering] sono un’invenzione della modernità, nella
società tradizionale le madri consideravano lo sviluppo e la felicità dei
minori di due anni con indifferenza, […] le madri non amavano molto i loro
bambini”.[2]
Dall’altro lato si trascura di menzionare
i lati oscuri, per l'appunto istituzionalizzanti, di questa scoperta. Lati che
erano in realtà ben presenti proprio al pioniere degli studi riguardanti questo
settore della storia della mentalità, cui si sono ispirati i sostenitori delle
tesi discontinuiste, fra cui i citati
deMause e Shorter, ovvero Philippe Ariès: la tesi di Ariès (a sua volta
ispirato dalle idee di Norbert Elias sul processo di civilizzazione[3]) era che
la condizione dell’infanzia fosse peggiorata
nel corso dell’era moderna, proprio a causa della sua scoperta. Secondo il suo
punto di vista, il cui stampo sembra effettivamente relativistico all’eccesso, “nella
società medioevale, che assumiamo come punto di partenza, il sentimento
dell’infanzia non esisteva”, non esisteva cioè nessun concetto d’infanzia come
stadio separato dell’evoluzione individuale, la “coscienza delle particolari
caratteristiche infantili, caratteristiche che essenzialmente distinguono il
bambino dall’adulto, anche giovane”.[4] I
bambini erano visti semplicemente come adulti in miniatura, liberi di
partecipare alla vita sociale degli adulti e di contribuire al reddito familiare
col loro lavoro non appena ne fossero stati fisicamente in grado. Con
l’invenzione dell’infanzia è cominciata anche la sua disciplina, il suo
confinamento o messa in quarantena in luoghi separati dalla società (le scuole),
il suo essere sottoposta a un rigoroso regime di premi e punizioni come
conseguenza della sua condotta, col fine di “prepararla” alla vita adulta. E
parallelamente hanno cominciato anche a svilupparsi le idee moderne
sull’infanzia come momento magico e irripetibile da tutelare, conservare e
proteggere dal brutto e prosaico mondo adulto (con l’ottimo risultato di
allevare giovani sempre più terrorizzati e traumatizzati dall’entrata nella
pubertà).
Abbiamo in realtà ottimi motivi
(darwiniani, se non altro) per credere che in passato come oggi i genitori
amassero i loro figli, piangessero per la loro scomparsa, che volessero il loro
bene e cercassero di curare i loro interessi, oltre che al fatto che molto
probabilmente esisteva una chiara coscienza della natura distinta e particolare
dell’infanzia (cosa del resto che sarebbe stato difficile ignorare).[5]
Se le tesi di Ariès quindi sembrano
implausibili sotto il profilo della psiche individuale risultano invece
piuttosto convincenti se consideriamo come si è evoluta la gestione
dell’infanzia come problema sociale, a livello politico-istituzionale. E sembra
evidente che parte di questa evoluzione consiste nella collettivizzazione, la
statalizzazione del capitale infantile, sottratto dalle mani dell’iniziativa
privata familiare a causa della minaccia che i bambini stessi rappresentano[6]. Niente
fa più paura di un bambino: anche il suo “tempo libero” è sempre più
istituzionalizzato, organizzato secondo rigide prassi militaresche, inquadrato
in gruppi di gioco, in attività ludico-sportive o educative che non lasciano
spazio all’improvvisazione. Nel più recente stadio del processo i bambini,
oltre che repressi e contenuti, diventano invisibili, pixellati, resi
irriconoscibili, censurati come se fossero veicoli di infezioni e di idee
malsane[7]. In un
prossimo futuro nel libero Occidente potranno girare fuori dalle scuole solo
indossando un burka, e il calo demografico delle società occidentali potrebbe
essere spiegato come l’estremo tentativo da parte di un popolo di sottrarre i
discendenti a una vita confinata nelle riserve.
Contemporaneamente, l’allevamento della
prole è diventata una vera e propria scienza, o ancora meglio una tecnica, con
i suoi esperti, i suoi manuali di riferimento, i suoi paradigmi a dire il vero
piuttosto cangianti ma che hanno in comune l’idea dell’insufficienza
dell’istinto, della naturalezza materna o paterna. Nuovamente, non si riesce a
capire come l’umanità sia riuscita finora a sopravvivere ignorando i consigli
dei puericultori. In un popolare programma televisivo alcune famiglie invitano
addirittura delle “tate” in casa loro al fine di esporre la propria
disfunzionalità genitoriale (in un format che si ripete identico anche per
certi servizi commerciali come i ristoranti), con una fiducia che non può non
preparare al totale e cieco affidamento del bambino alla scuola, ad altri
esperti.
I genitori vivono in un costante
conflitto tra raccomandazioni spesso confuse e contradditorie, alla ricerca di
un’impossibile via di mezzo tra autoritarismo e permissivismo, tra i no che
aiutano a crescere e i sì che aiutano l’autostima, tra la flessibilità e il
rigore, tra la carenza d’affetto e l’affettazione dei sentimenti, consapevoli
che il minimo errore si tramuterà in insanabili disturbi caratteriali che
l’infante si porterà dietro tutta la vita, coscienti che cure parentali fornite
con eccessiva freddezza possono portare all’autismo, che richieste confuse e
ambivalenti possono condurre alla schizofrenia, che una relazione di
attaccamento non sicuro nell’infanzia prepara l’infelicità sentimentale da
adulti[8].
In un testo fondamentale che segna uno
spartiacque nella storia della psicologia dello sviluppo, The Nurture Assumption[9],
la studiosa Judith Rich Harris ha sfidato il dogma che modifiche e variazioni
nel comportamento dei genitori possano plasmare il carattere dei bambini e
determinare la loro stabilità psichica una volta adulti. In realtà i dati
empirici, contrariamente a tutto quanto viene urlato dalla saggezza popolare,
suggeriscono proprio l’opposto, ovvero che una volta separata la componente
genetica non esiste nessuna correlazione fra il metodo educativo tenuto in casa
dai genitori e l’eventuale riuscita dei figli. Questi cresceranno seguendo la
loro strada, indifferenti ai troppi no o ai troppi sì.
Questo non significa che i bambini non
possano subire gravi abusi da parte dei genitori, dai quali devono essere
certamente protetti, né che i genitori non possano compiere scelte riguardanti
il futuro dei figli destinate a danneggiarli, come la scelta di una scuola
piuttosto che un’altra, o la scelta di non mandarceli per niente. Quello che ci
si chiede è solo se l’interesse dei figli sia necessariamente e automaticamente
tutelato in misura maggiore dallo Stato che dai genitori, se sia proprio
doveroso dare per scontato che un figlio lasciato all’amore dei genitori sia un
essere sfruttato e abusato, mentre il trattamento educativo obbligatorio che lo
Stato ci riserva sia sempre compiuto nel nome dei più alti e disinteressati
ideali.
Il lavoro infantile è diventato un abuso
per legge, proprio a seguito dell’obbligo scolastico, ma forse troppo spesso si
dimentica che anche la scuola è una forma di lavoro, un modo attraverso il
quale i bambini contribuiscono alla crescita del paese, in primo luogo
investendo su loro stessi, in secondo luogo non limitandosi a consumare ma
producendo a loro volta conoscenza. La popolazione scolarizzata è la
protagonista involontaria del più grande esperimento scientifico mai condotto, in
violazione di qualsiasi carta dei diritti umani; nemmeno con i carcerati ci si
può concedere tali libertà facendone delle cavie e senza fargli firmare un
foglio di consenso informato. Il lavoro scolastico si sovrappone inoltre alle
altre attività ludico-sportive organizzate che come dicevamo sono oramai
anch’esse occasioni “formative” – non si deve sprecare neanche un minuto
dell’esistenza del bambino – e spesso anche al lavoro domestico (cui
giustamente i bambini collaborano): la giornata lavorativa del bambino può così
raggiungere tranquillamente le 16 ore, senza nessun sindacato che scenda in
sciopero.
Tutto questo al fine di socializzarlo,
ovvero prepararlo ad assumere un ruolo nella collettività una volta diventato
adulto, al tempo stesso neutralizzando la minaccia da lui costituita; qualcuno
direbbe anche al fine del mantenimento non solo della società in generale –
come vorrebbero i funzionalisti alla Parsons – ma anche del suo attuale assetto
e stratificazione in classi, come dimostrerebbe la scarsa mobilità sociale
effetto del sistema scolastico, ma riconosciamo che questo potrebbe essere un
effetto non voluto e semplicemente frutto di maldestra pianificazione.
Quello che conta è che tutta questa
pianificazione, tutto questo immenso esperimento, è condotto non solo privando
i genitori della loro naturale potestà, ma soprattutto decidendo di ignorare
del tutto il potenziale contributo del bambino non tanto in quanto singolo
partecipante all’esperimento (laddove invece qualsiasi pedagogo insiste molto
su una retorica di spontaneità e creatività da lasciargli, bontà sua), ma proprio
in quanto categoria o gruppo sociale, portatore di interessi e di valori suoi
propri, cosa che ci porta alla seconda parte del discorso.
Judith Rich Harris, per tornare alle sue
ricerche, nel negare il contributo fornito dall’educazione dei genitori nello
sviluppo della personalità del bambino non intende affatto, come potrebbe
sembrare, affermare il primato della genetica sull’ambiente. Il fatto è che la
genetica, pur di fondamentale e ovvia importanza, riesce a spiegare solo e
all’incirca il 50% delle variazioni nei tratti caratteriali di una popolazione.
Si è sempre pensato, quindi, senza andare a cercarne le prove, che il restante
50% fosse il contributo fornito dall’educazione degli adulti, cosa che appunto
non sembra confermata da nessun dato. L’assunto è sempre che l’ambiente possa
intervenire, nello spazio lasciato libero dai geni, modellando il carattere di
un bambino come se fosse materia inerte e del tutto passiva, non in grado di
reagire in maniera creativa alle sollecitazioni esterne.
Ma soprattutto, ci si è sempre ostinati a
considerare lo sviluppo e la socializzazione da una prospettiva rigorosamente
individualistica, quella del “bambino”, senza considerare “i bambini” in quanto
gruppo, come collettività. Cosa che ha portato a trascurare l’apporto
fondamentale fornito dal gruppo dei pari, non solo per quanto riguarda lo
sviluppo della personalità, nella teoria della Harris, ma anche per quanto
riguarda le trasformazioni culturali della società intera, come hanno
evidenziato recentemente autori come William Corsaro[10].
I veri modelli di comportamento, i veri
maestri di vita per un bambino sono i coetanei, è il gruppo dei pari. Un
bambino non parla la lingua dei genitori, se immigrati, parlerà più e meglio la
lingua dei compagni di scuola. Tenderà anzi a trasportare in casa,
nell’ambiente domestico, modi di dire e comportamenti appresi fuori, da altri
bambini. I genitori potranno eventualmente non approvare questi comportamenti
(come le parolacce) e tentare di reprimerli, a volte con successo, ma solo
entro le mura di casa: nel gruppo dei pari si parla la lingua dei pari e si
adotta il codice morale dei pari. Il che significa che questi modi di dire e
questi comportamenti, questi codici morali, tenderanno a essere fattori di
trasformazione culturale pure al di fuori del gruppo, che i bambini non si
limitano ad assorbire la cultura degli adulti, ma la reinterpretano secondo le
loro esigenze, la rielaborano, e contribuiscono al suo farsi.
Chiunque sia mai stato in una classe di
scuola elementare si sarà accorto di come i bambini adottino complesse
strategie di identificazione nei valori del gruppo e di resistenza ai valori
che gli “adulti” tentano di imporre loro. Si tratta di comportamenti spesso
eroici di resistenza passiva, di pratiche di disobbedienza nei più piccoli
gesti che servono a esprimere la solidarietà di classe, di rifiuto ostinato di
assimilazione a una cultura “altra” dominante e imperialista, in qualche caso
tentativi ingenui che si definiscono per pura opposizione, come il cercare e
farsi piacere cose (programmi televisivi, fumetti) non “nonostante” ma proprio
perché disapprovate dagli adulti, o il disprezzare classici della letteratura
solo perché consigliati dal maestro e quindi identificati con cose noiose e
scolastiche.
Insomma, bambini e adulti (i genitori, i
maestri, i bidelli) costituiscono categorie sociali distinte, dagli interessi
non coincidenti e spesso in conflitto, proprio come operai e impresari. È
giunto il momento in cui questa categoria abbia il suo riconoscimento non solo
da parte degli psicologi e dei sociologi, ma anche e soprattutto un
riconoscimento politico. I bambini non possono essere solo un oggetto delle
politiche di educazione, devono esserne al centro ed esserne soggetti
partecipi. C’è soprattutto il bisogno di considerare non solo il futuro dei
bambini, che è l’egoistico e programmato futuro del nostro mondo, ma il loro
presente, che rappresenta il potenziale futuro del loro mondo, quindi di venire incontro alle loro esigenze di adesso,
di considerarli appunto in quanto bambini, non solo in quanto cittadini in potenza.
La scuola dell’obbligo può essere
considerata un modo per permettere l’incontro dei pari e quindi lo sviluppo di
questa cultura, e il suo effetto potrebbe in effetti essere considerato
salutare se l’alternativa fosse il rimanere chiusi in casa. Ma è in realtà
soprattutto un modo per comprimerla, per non permettergli di svilupparsi
secondo direzioni creative e autonome, di non lasciare che i bambini decidano
liberamente le loro occasioni d’incontro, i tempi e i modi del loro apprendere,
del loro giocare, del loro lavorare.
Bambini di tutto il mondo unitevi.
Segue (forse).
[1] L. deMause, The Evolution of Childhood, in Id. (a
cura di), The History of Childhood,
Harper and Row, 1974, trad, it., Storia
dell’infanzia, Emme, 1983.
[3] Norbert Elias, Il
processo di civilizzazione, Il Mulino, 1988.
[4] Philippe Ariès, L'enfant et la vie familiale sous l'ancien régime, Seuil, 1960, trad. it., Padri e figli nell’Europa medievale e
moderna, Laterza, 1981. Riporto la citazione
completa: “Nella società medievale, che
assumiamo come punto di partenza, il sentimento dell’infanzia non esisteva; il
che non significa che i bambini fossero trascurati, abbandonati o disprezzati.
Il sentimento dell’infanzia non si identifica con l’affezione per l’infanzia:
corrisponde alla coscienza delle particolari caratteristiche infantili,
caratteristiche che essenzialmente distinguono il bambino dall’adulto, anche
giovane. Questa coscienza non esisteva”.
[5] Le tesi di Ariès, deMause, Shorter, e altri sono sono
state duramente contestate ad esempio da Linda Pollock nel volume Forgotten Children, Cambridge University
Press, 1983, con argomenti che si rifanno oltre che a una più accurata lettura
delle fonti storiche anche alla psicologia evoluzionistica e all’antropologia.
Una visione più ottimistica e “continuista” è espressa anche da Barbara Hanawalt
in Growing Up in Medieval London,
Oxford University Press, 1995. Per una buona rassegna degli studi sulla storia
dell’infanzia e un punto di vista equilibrato, si veda Hugh Cunningham, Children and Childhood in Western Society Since 1500,
Longman, 1995, trad. it., Storia dell’infanzia. XVI-XX secolo, Il Mulino, 2000.
[6] Nella visione funzionalista della società di Talcott
Parsons il bambino è proprio una “minaccia”, un potenziale elemento
perturbatore che deve essere annichilito per permettere l’esistenza della
società stessa.
[7] A proposito di ambivalenza delle nostre idee in fatto
di tutela e protezione, potrebbe essere interessante notare come l’attenzione
sempre più ossessiva nei confronti degli abusi, dove tale termine rischia di
allargarsi fino a comprendere gesti in passato ritenuti innocenti, si
accompagni alla crescente problematica della gestione del “senso di colpa”
delle vittime degli abusi.
[8] Non mi invento nulla: la teoria psicogenetica
dell’autismo fu notoriamente elaborata da Bruno Bettelheim, il “doppio vincolo”
come causa della schizofrenia è un’idea di Gregory Bateson e della scuola di
Palo Alto, l’importanza della relazione di attaccamento alla madre come modello
per le future relazioni è stata sottolineata da John Bowlby.
[9] J.R. Harris, The Nurture Assumption: Why the Children Turn Out the Way They Do, The Free
Press, 1998. In italiano è stato infelicemente tradotto da Mondadori col titolo
Non è colpa dei genitori.
[10] W. Corsaro, The Sociology of Childhood, Pine Press, 1997, trad. it., Le culture dei bambini, Il Mulino, 2003.
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