In filosofia, non avendo di solito la
possibilità di compiere esperimenti con la natura come fanno gli altri
scienziati, si lavora spesso per il tramite di esperimenti mentali. Un
esperimento filosofico mentale non consiste solo nell'immaginare una situazione
difficile da replicare fattualmente e cercare di dedurne le conseguenze,
appunto, fattuali (cosa che ancora non ci farebbe uscire dall'ambito della
fisica), ma consiste soprattutto nel tentativo di sottoporre a stress
determinati concetti (da chiarire), immaginando situazioni nelle quali
troveremmo difficile decidere come andrebbero applicati quei concetti.
Daniel Dennett ha scritto
recentemente un libro, intitolato Intuition Pumps and Other Tools for Thinking, fatto tutto di esperimenti mentali famosi e meno famosi (da lui
però
chiamati "pompe d'intuizione"), che può anche essere considerato un'ottima
introduzione alla filosofia, dato che scopo degli esperimenti mentali è
anche quello di stimolare l'immaginazione e divertire, cosa che non sempre si
concilia col duro lavoro speculativo. Con l'avvertenza al lettore non esperto
che Dennett non è affatto un autore imparziale quando si tratta di descrivere
un problema ma cerca sempre di imporre il suo punto di vista. Pregio
dell'opera, d'altra parte, è anche quello di evidenziare come le
"pompe d'intuizione" spesso rappresentino un grave pericolo per la
chiarezza di pensiero, contribuendo a intrappolare l'immaginazione in trappole
cognitive senza uscita o quelli che Wittgenstein avrebbe chiamato "crampi
del linguaggio".
Dennett è famoso soprattutto
come filosofo della mente, per cui non è sorprendente che buona parte del
materiale da lui raccolto verta intorno al tema della "coscienza",
della sua sfuggente natura, e dei "qualia". I qualia sono appunto una
cosa difficile da definire senza fare ricorso agli esperimenti mentali, sono la
componente fondamentale della nostra esistenza in quanto esseri senzienti, ma
al tempo stesso non riusciamo esattamente a determinarne la natura, a
incorniciarli in un quadro coerente e unificato col resto del nostro sapere
naturalistico. Paradossalmente alcuni filosofi ne rivendicano l'importanza
proprio per rendere giustizia a quelle che secondo loro sono le intuizioni
dell'"uomo della strada", non adulterate dai sofismi, però
trovano molto complicato spiegare all'uomo della strada quelle che dovrebbero
essere le sue intuizioni, ed ecco che inventano gli esperimenti mentali più
strambi nel tentativo di farsi comprendere.
Dennett (la cui posizione, comunque, è
che i qualia non esistono) comincia quindi la sezione sulla coscienza parlando
di zombi: è concepibile che le persone che incontro per strada, o
addirittura i miei più intimi amici, pur comportandosi in maniera apparentemente
ed esteriormente normale siano in realtà esseri non senzienti, privi di
coscienza? Parla poi della stanza cinese ideata da John Searle (ne avevamo parlato anche su questo blog, anche se più in relazione al tema
dell'intelligenza che a quello della coscienza). Parla del pipistrello di Thomas
Nagel: cosa si prova ad essere un pipistrello, ma soprattutto perché
si prova qualcosa ad essere quello siamo? e i qualia, per dare una prima
definizione, sono proprio quello che si prova ad essere qualcosa, quello che
invece manca agli zombi.
Parla di Mary, la scienziata del
colore di Frank Jackson: immaginiamo che Mary sia una donna che ha sempre
vissuto in un ambiente rigorosamente in bianco e nero, e non abbia mai visto il
colore in vita sua (inserite dettagli a vostro piacere per rendere plausibile questa circostanza). Mary per tutta la vita ha però
studiato il colore, nel senso che ha letto tutto quello che c'è
da leggere sul tema del colore, sulle reazioni fisiologiche e psicologiche
degli esseri umani di fronte al colore, sulle proprietà fisiche degli
oggetti colorati, delle onde elettromagnetiche, eccetera eccetera. Mary in
sintesi è
la più
grande esperta mondiale in tema di colore. Un giorno, si viene invitati a
immaginare, Mary viene liberata: per la prima volta in vita sua vede un oggetto
di colore rosso (mi piace pensare che sia una mela, il frutto dell'albero della
conoscenza). La domanda è: Mary ha imparato qualcosa di nuovo sul colore? Se diciamo
di sì
quel "qualcosa", ovvero quello che rimane del colore rosso una volta
escluso tutto quello che di "oggettivo" conosciamo intorno al rosso,
la sensazione soggettiva purificata, ebbene quello è il qualia del
rosso.
Stranamente Dennett non inserisce tra
le sue pompe d'intuizione un esperimento mentale ben più antico e nobile di
quello di Jackson, anche se abbastanza affine: l'esperimento dello spettro del
colore invertito ideato da John Locke nel Saggio sull'intelletto umano.
Immaginiamo che nottetempo uno scienziato malvagio si diverta a pasticciare con
i nostri centri nervosi e in particolare con i neuroni che associano
determinati colori a determinati input provenienti dalla retina. Il risultato è
che la mattina, svegliandoci, vediamo verde tutto quello che prima era rosso, e
rosso tutto quello che prima era verde. L'esperienza sarebbe senz'altro
scioccante, e ci farebbe anche fare un mucchio di errori. Per abitudine
passeremmo al semaforo quando è rosso (percependolo verde) e ci
faremmo del male, oltre a renderci ridicoli in una quantità
di altre maniere. Piano piano, però, ci abitueremmo. Non solo
cominceremmo a non avere più difficoltà col semaforo, ma a
un certo punto, per comodità di linguaggio, cominceremmo a
chiamare rossi gli oggetti che percepiamo come verdi, come i pomodori e le mele
(perché
avremmo imparato che tutto quello che per noi è verde per tutti gli altri è
rosso).
La domanda è: se invece io
fossi nato proprio con questo difetto, come potrebbe qualcuno accorgersene?
Come faccio ad essere sicuro che non sia proprio così che stanno le
cose, che tutto ciò che io percepisco come rosso per gli altri non è
verde? Funzionalmente infatti non vi sarebbe alcuna differenza: io chiamerei
rossi gli oggetti che per tutti sono rossi e mi comporterei di conseguenza, e
nessuno, me compreso, penserebbe mai che c'è un problema nel modo in cui
percepisco le cose. Il qualia, ancora una volta, è questo: è quel qualcosa di
non cognitivo, di non funzionale, in una parola di assolutamente inutile e
inerte, che contiene la sensazione soggettiva del rosso. L'enigma, da un punto
di vista filosofico è: dato che non serve a nulla, perché esiste? e siamo
proprio sicuri che esista? e d'altronde come si fa a negarne l'esistenza? noi
il rosso lo percepiamo proprio così, come rosso, e farebbe certamente una
differenza, per noi, se lo percepissimo come verde. O no?
Tuttavia, io credo esista un modo
ancora più efficace per spiegare i qualia, neanche questo, mi pare,
affrontato da Dennett, e che ha a che fare, invece che col colore, con il
dolore. A mio modesto avviso la pompa d'intuizione migliore per quanto riguarda
i qualia, infatti, è la semplice domanda "a che serve il dolore?". È,
apparentemente, una domanda molto stupida, ma solo perché siamo talmente
abituati e affezionati ai nostri schemi mentali che non ci accorgiamo come le
risposte più immediate al quesito in realtà non facciano che eludere il problema.
Ovvero, è
chiaro che il dolore è utile perché le cose che ci fanno male quando
veniamo a contatto con loro (che ci danneggiano in maniera oggettiva, come ad
esempio il fuoco) tendono anche ad essere dolorose, quindi, siccome tendiamo ad
evitare il dolore, tendiamo anche ad evitare le cose che ci fanno male. Giusto?
Uhm... non vi accorgete che si tratta
di una spiegazione vacua, una petizione di principio, che in realtà
non è
stato fatto alcun passo avanti per comprendere la funzione del dolore? Perché
la natura, invece di fornirci della motivazione ad evitare il dolore, non ci ha
fornito della motivazione diretta ed immediata ad evitare gli stimoli dannosi tout
court? Non sarebbe stato più semplice? Perché
questo passaggio intermedio immotivato, oltre che crudele?
Riformulo l'argomento. Immaginiamo di
dover progettare un robot semi-intelligente ed autonomo, che per svolgere le
proprie funzioni deve saper fuggire i pericoli di un ambiente ostile (evitare
l'acqua che ne danneggerebbe i circuiti, il fuoco, ecc.) e al tempo stesso deve
essere in grado di alimentarsi, mantenersi in buono stato e riparare eventuali
danneggiamenti. Lo programmeremmo, credo, in modo da fornirgli delle
istruzioni, non importa quanto complesse, del tipo "se entri a contatto
con l'acqua, allora allontanati e cerca un ambiente secco finché
non ti sei asciugato", "se qualcosa ti percuote, tu percuotilo a sua
volta", "se le tue batterie sono scariche, cerca la più
vicina presa di corrente e attaccaci il cavo". Lo forniremmo anche della
capacità
di provare dolore? e perché mai dovremmo? in che modo questo
dovrebbe rendere più efficaci le risposte del robot? non sarebbe anzi una
crudeltà
gratuita? come ci giustificheremmo di fronte a lui, se ce lo rinfacciasse?
Forse posso spiegarmi ancora meglio.
Con un trucco puramente terminologico, io potrei chiamare "dolore"
quel complesso di input percepiti dal robot, di qualunque natura essi siano,
che lo spingono ad adottare certi comportamenti improvvisi di "fuga".
In tal modo la risposta alla domanda "perché il robot ha ritratto il suo arto meccanico
quando è
entrato in contatto col fuoco?" sarebbe, con tutta evidenza, "perché
stava provando dolore, ed è stato programmato in modo da evitare
il dolore". Da un punto di vista funzionale, direi anche evoluzionistico,
la risposta oltre che soddisfacente sarebbe sostanzialmente identica alla
spiegazione del perché "noi" tendiamo a ritrarre la mano quando veniamo
ustionati: siamo stati programmati così. Eppure sentiamo anche che c'è
una differenza profonda. "Noi" a differenza del robot sentiamo
davvero il dolore, per noi rimane qualcosa di irriducibile, oltre a quel
complesso di risposte funzionalmente efficaci, e questo qualcosa è
il qualia del dolore. Ma a cosa serve?
Questo dovrebbe essere un post
aporetico, ovvero ha l'unico scopo di segnalare l'esistenza di un problema, e
la sua natura, senza pretendere di fornire una soluzione (che naturalmente non
ho). Tuttavia, un labile indizio forse può essere dato. Devo dire che i miei
post a volte nascono da discussioni casuali che faccio in rete, che poi sento
il bisogno di approfondire. Quando mi è capitato di menzionare le
problematica dei qualia e in particolare di chiedere quale fosse la funzione
del dolore, mi è stato subito risposto, come prevedibile, che il dolore
fornisce una motivazione più immediata e più urgente di una
semplice valutazione cognitiva di un eventuale danno, ovvero che non siamo
vulcaniani freddi e razionali che pesano tutti i pro e i contro ma abbiamo
bisogno delle emozioni per poter agire con maggiore velocità
ed efficacia.
Come si è visto io in realtà
non ho mai postulato da nessuna parte che la migliore risposta allo stimolo
dannoso dovrebbe essere calcolata, anche da un robot, in modo freddo,
distaccato e razionale. Al contrario, ho supposto un meccanismo di risposta (un
semplice circuito di tipo if ... then) ancora più immediato della nostra risposta al
dolore, di tipo assolutamente stupido e meno complesso anche delle nostre
risposte emotive. Quindi resta ancora la domanda: perché Madre Natura non
ci ha fornito, nel corso dell'evoluzione, di un meccanismo altrettanto semplice
e immediato, invece di passare per l'intermediario del dolore?
La risposta a questo stavolta è
stata che noi siamo organismi infinitamente più complessi appunto di una macchina
fornita di quel tipo di circuiti, che abbiamo molteplici esigenze e desideri
contrastanti fra loro e che può risultare estremamente difficile
conciliarle fra loro. Ora, tralasciando il fatto che neanche questo mi pare
fornire una teodicea soddisfacente, uno straccio di spiegazione al nostro
problema originario ("perché esiste il dolore?"), spero che
sia abbastanza chiaro che le due argomentazioni sono in netto contrasto fra
loro. Prima il dolore è stato giustificato in base alla sua natura
"semplice", "immediata". Insisto su questi aggettivi perché
sono le caratteristiche tradizionalmente attribuite ai qualia. In seguito, però,
è
stato fatto appello alla complessità della psicologia umana.
Ecco, io credo che la seconda strada
sia più
promettente. Forse Dennett ha ragione e i qualia non esistono, se per essi
intendiamo quello che ci verrebbe naturale e intuitivo intendere, ovvero se li
pensiamo come entità "semplici" e "immediate". Forse quello
che chiamiamo "dolore" è in realtà un insieme
estremamente complesso di valutazioni cognitive, di ricognizioni su quello sta
accadendo, sulla sua importanza e sulle conseguenze per l'organismo, e sulle
possibili risposte da attuare. Un insieme troppo elaborato e profondo perché
noi possiamo avervi accesso in maniera trasparente, che viene quindi sintetizzato
al nostro io cosciente sotto forma di "qualia".
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