
Nel 1950, la percentuale di americani occupati in professioni manageriali e tecniche era del 17%, mentre nel 2000 era quasi il doppio, cioè il 33,5%. Questo significa che nel 1950 certe professioni, sicuramente ambite, appartenevano solo all'élite, e che richiedevano capacità particolari per potervi approdare. Siccome esiste una forte correlazione fra quoziente d'intelligenza e posizione sociale, possiamo essere sicuri che nel 1950 per appartenere a quel 17% di persone occorreva un quoziente intellettivo altrettanto elitario, corrispondente a un punteggio medio di 114.5, e un minimo di 104.
Più alta diventa la percentuale di impiegati in questi settori, meno elitari diventano (com'è ovvio), il che però significa che si abbassa sensibilmente anche il QI richiesto per parteciparvi. La percentuale relativa all'anno 2000, infatti, corrisponde a un QI medio di 110,5 e un minimo di 98. Quattro punti di media in meno rispetto al 1950. La questione è: se i manager di oggi sono meno intelligenti, in media, rispetto a quelli del 1950, significa che fanno peggio il loro lavoro?
In realtà, questo è un modo di porre la questione che fa capire un po' meglio di cosa parliamo quando parliamo di "quoziente d'intelligenza" (argomento che ho già trattato) e che serve da ottima introduzione a quell'affascinante fenomeno che è "l'effetto Flynn". Il punteggio che ottengo in un test di intelligenza non è affatto una misura assoluta delle mie capacità intellettive, ma dice solo come mi colloco rispetto alla popolazione che ha la mia stessa età, se cioè sono nel 2% delle persone coi punteggi più alti (e allora ho diritto di fare parte del club Mensa), o rientro in un più modesto 50%, o addirittura sono sotto la media.
Le persone che sono state testate nel 2000 non possono essere confrontate con quelle testate nel 1950, ovvero non è possibile concludere che, avendo ottenuto punteggi inferiori, allora hanno un'intelligenza inferiore (tutto questo, naturalmente, a prescindere dalla questione se i test d'intelligenza siano delle misurazioni adeguate di quella misteriosa qualità denominata appunto "intelligenza"). Tutto quel che è possibile concludere è che molte più persone, rispetto al 1950, hanno le qualità richieste per poter accedere a incarichi professionali di tipo manageriale. In realtà, questo non sarebbe possibile, se non vi fosse stato un aumento dell'intelligenza media della popolazione (altrimenti, dove sarebbero stati pescati tutti quei manager?).
In effetti, se ai soggetti del 2000 fosse stato presentato lo stesso test d'intelligenza svolto dai soggetti del 1950, avremmo potuto constatare un sorprendente punteggio medio di addirittura 130 punti (circa), ovvero sarebbero risultati dei geni, ma questo, ripeto, solo in confronto alla popolazione del 1950. I test d'intelligenza, in realtà, vengono revisionati periodicamente proprio per tenere conto di tali differenze, e del fatto che la popolazione sembra diventare di anno in anno "più sveglia", con un aumento di circa lo 0,3% annuo. Tre punti per decennio, e ben trenta punti in più rispetto all'inizio del ventesimo secolo, il che fa sì che chi ha oggigiorno un'intelligenza nella media sarebbe risultato un genio nel 1900, e chi oggi viene classificato, in base al punteggio, come un ritardato mentale, sarebbe risultato normalissimo cento anni fa.
La cosa ha anche delle sgradevoli e drammatiche implicazioni: negli Stati Uniti è considerato incostituzionale condannare a morte una persona che soffre di ritardo mentale (con un QI minore di 70), ma l'essere considerato ritardato o meno può dipendere dalla circostanza, fortuita, di quanto è aggiornato il test al quale si è sottoposti. Se il test è obsoleto, ciò può tradursi in due o tre punti in più, che non fanno molta differenza in quasi nessun ambito, tranne che in sede processuale, dove appunto possono significare la differenza fra la vita e la morte.
Ma da dove viene tutto questo aumento generalizzato di intelligenza, che difficilmente, in un lasso di tempo così breve, può essere attribuito a cause genetiche (le quali caso mai cospirerebbero contro, visto che sono le persone col QI più basso a riprodursi con maggiore frequenza)? La risposta, credo, si trova proprio all'inizio di questo post: la società lo richiede, semplicemente. Questo però significa anche che quello che viene misurato dai test, qualunque cosa sia, è molto più sensibile alle sollecitazioni ambientali di quanto non fosse ritenuto possibile. Il QI non è progettato, infatti, per essere una misura del grado di preparazione culturale di un individuo, ma in teoria dovrebbe misurare qualità mentali che non dipendono dall'educazione ricevuta.
Ma non è poi così difficile comprendere, una volta che ci si rifletta sopra, come invece l'evoluzione di una società, nel suo complesso, porti a delle modificazioni culturali e antropologiche profonde che vanno a incidere anche nelle misurazioni del QI. Si pensi alle condizioni di vita della maggior parte della gente all'inizio del ventesimo secolo. Persone che raramente vedevano pezzi di mondo al di là del proprio paese, e che difficilmente erano in grado di concettualizzare un'esperienza che andasse oltre il loro immediato vissuto. Persone, soprattutto, molto ancorate alla concretezza e al presente, e che quindi potevano avere difficoltà nel ragionamento ipotetico-astratto, che è proprio quel che è richiesto per superare brillantemente un test d'intelligenza. La maggior parte di noi non ha particolari problemi nel fare uso della logica al di là di referenti concreti e specifici e nell'intrattenersi, anche per puro divertimento, in ragionamenti estremamente ipotetici, ma non possiamo aspettarci davvero che un contadino dell'inizio del secolo scorso, per quanto sveglio, messo di fronte alla sequenza di immagini in apertura del post, sia in grado di, o anche semplicemente interessato a, indovinare quale figura sia "logicamente" la successiva (ah, io non l'ho saputo risolvere).
Lo psicologo sovietico Lurija negli anni '70 raccolse alcune interviste a contadini abitanti in remote zone della Russia, che ci fanno forse capire quanto certe abitudini mentali non siano da dare troppo per scontate (citate e tradotte dal libro di James Flynn, What is Intelligence?):
D. Dove c'è la neve tutti gli orsi sono bianchi; a Novaya Zemlya c'è sempre la neve; di che colore sono gli orsi lì?
R: Io ho visto solo orsi neri, e non parlo di cose che non ho visto.
D: Ma cosa implicano le mie parole?
R: Se una persona non è stata lì non può dire niente sulla base delle parole.
D: In Germania non ci sono cammelli; la città B è in Germania; ci sono cammelli nella città B?
R: Non lo so, non ho mai visto un villaggio tedesco. Se B è una grande città, dovrebbero esserci cammelli.
D: Ma se non ce ne fosse nessuno in tutta la Germania?
R: Se B è un villaggio, probabilmente non c'è posto per i cammelli.
Non è che i contadini intervistati da Lurija non riconoscano le implicazioni e non sappiano fare un sillogismo, è solo che il loro atteggiamento pragmatico gli impedisce di prendere in considerazione situazioni meramente ipotetiche e di raggiungere conclusioni sulla base di premesse inconsistenti. Un atteggiamento anche sensato, che però non aiuta ad ottenere buoni punteggi nei test d'intelligenza, e sicuramente non aiuterebbe neanche a superare brillantemente un colloquio di lavoro alla Microsoft (famosa per i suoi quiz assurdi ed estremamente impegnativi durante i colloqui, del tipo: "quanto tempo ci vorrebbe a portare via tutta la terra del monte Fuji, al ritmo di un camion al minuto?").
Ciò che ha liberato le nostre menti dalla schiavitù del concreto e dell'immediato presente, oltre alla educazione di massa, sono stati i nuovi media, i giornali, la radio, la televisione, e oggi i computer, la Rete, e i videogames. E poi la rivoluzione culturale che tutto ciò ha comportato. La maggior parte dei nostri coetanei ha almeno un'infarinatura di conoscenza scientifica, e ha imparato a guardare il mondo attraverso le lenti della mentalità razionale e scientifica. Non è solo il fatto che tutti sappiano leggere e scrivere e compiere operazioni aritmetiche elementari (che già non è poco) ad averci emancipato, ma il fatto che ognuno di noi può avere un'opinione, non importa se giusta o sbagliata, su cose come la politica economica del nostro governo, sulla riforma sanitaria di Obama, sulla politica estera di Israele, e che per formarsi tali opinioni sia costretto a ragionare su quel che dicono giornali e tv, e quindi vedere qualcosa al di à della punta del proprio naso.
E il fatto, anche, che ognuno di noi sia costretto a usare strumenti che hanno un certo grado di complessità cognitiva, e che in molti casi tali strumenti ci accompagnano per tutta la vita, al contrario dell'educazione scolastica che spesso viene dimenticata. Chi impara a usare un computer anche solo per navigare o usare la posta, o per giocare a Tetris, acquisterà delle abilità o delle abitudini mentali che difficilmente perderà, e che sono quelle che possono aiutarlo ad avere un buon QI, e a trovare un lavoro. Se poi l'ambiente di lavoro, a sua volta, è cognitivamente stimolante, il vantaggio acquisito sarà conservato per tutta la vita.
La domanda che ci si deve porre è se si tratti di vera gloria. Acquisito il fatto empirico, pare ormai accertato al di là di qualsiasi dubbio, che ci sono stati questi progressi nel QI (e anche se dobbiamo aspettarci di essere ormai prossimi a un arresto o un'inversione di tendenza, perché non è ragionevole che tali progressi durino per sempre), possiamo davvero parlare di un aumento dell'intelligenza, in un senso non banale (evitando cioè la tautologia per cui l'intelligenza è quel che viene misurato da un test)?
Ne dubito. Non perché non sia contento del fatto che alcuni strumenti cognitivi siano oggi più diffusi e più alla portata di moltissime persone che una volta ne erano escluse, ma semplicemente per il fatto che si tratta pur sempre di mera strumentazione, che può essere usata bene o male. In un certo senso, gli stessi fattori che portano molte persone ad apprezzare, che so io, la bellezza del sistema solare e delle leggi fisiche che ne rendono possibile l'esistenza, portano altre persone a formulare le teorie del complotto delle scie chimiche, o quelle secondo cui il Pentagono non è mai stato colpito da un aereo. Oppure produce gli spettatori di Quark, ma anche quelli di Voyager. Produce i lettori di Gödel, ma anche quelli di Derrida.
Chi formula o chi crede in certe teorie di complotto è stupido, senza possibilità di appello, ma non è detto che risulti tale in un test d'intelligenza. Il vantaggio dei contadini ignoranti e pragmatici di una volta è che non avevano tanto tempo da perdere in queste stronzate, beati loro. Ne consegue che, anche al di là di certi moralismi, non basta fornire certi strumenti in campo educativo, ma è anche il caso di preoccuparsi di come possono essere usati. Non basta insegnare biologia, ma occorre forse trovare il modo per impedire a uno studente di essere sedotto dalle teorie creazioniste, oppure dall'omeopatia. Non basta insegnare economia, ma occorre trovare un modo per cui dalle nostre scuole non escano fuori signoraggisti. Altrimenti dovremmo rimpiangere la stupidità dei nostri antenati.