martedì 27 ottobre 2009

A.B. Normal

Se le motivazioni per il premio Nobel per la pace a Barack Obama vi sembrano bizzarre, dovete sapere che c'è un tizio che nel 1927 ha vinto il Nobel per la medicina per avere inventato la cura delle malattie mentali tramite inoculazione di malaria. E forse l'ha persino meritato.

Julius Wagner-Jauregg aveva casualmente notato che dopo essersi ripresi da febbri intense, alcuni pazienti psicotici erano migliorati. Cominciò a provocare artificialmente tali febbri, da prima col bacillo della tubercolosi, ma senza grande successo, e infine con la malaria. Incredibilmente, funzionava, anche se purtroppo poteva capitare che il paziente morisse proprio in conseguenza dell'intervento.

La spiegazione è semplice: la terapia aveva successo in particolare con i soggetti affetti da demenza paralitica, che era spesso una conseguenza della sifilide latente. La febbre alta contrastava il batterio responsabile della sifilide e quindi poteva risultarne un miglioramento delle condizioni di salute psichica. Al giorno d'oggi una tale cura non avrebbe senso perché la sifilide è molto più efficacemente trattata con gli antibiotici, al punto che quel tipo di demenza è quasi scomparso.

Il che, per inciso, fa dire a Peter Duesberg (il virologo dissidente sulle cause dell'Aids), che in realtà la demenza era provocata dalle cure a base di mercurio praticate prima dell'era degli antibiotici, in quanto Duesberg altrimenti dovrebbe ammettere che esiste un'altra malattia contagiosa, oltre l'Aids, che rimane latente nell'organismo per provocare danni fatali anche ad anni di distanza dal contagio. Eppure questo non spiegherebbe come mai Wagner-Jauregg ottenesse risultati così positivi da fargli vincere un Nobel.

Comunque, se si ritiene poco etico l'esperimento di Wagner-Jauregg, occorre tener presente che la demenza da sifilide era una malattia orribile e all'epoca senza speranza, un po' come l'Alzheimer oggi. Forse valeva la pena di correre il rischio di uccidere il paziente di malaria per restituirgli la speranza di una vita quasi normale per il resto dei suoi giorni. Quindi non è troppo da biasimare la Commissione che premiò Wagner-Jauregg per l'invenzione di una terapia che oggi non è in uso e che anzi sarebbe giudicata profondamente immorale.

Il problema è che la terapia venne provata con molti altri tipi di malattia mentale, come la schizofrenia. Sembra che vi furono dei risultati anche in quel campo, anche se molto più modesti e meno convincenti. Comunque, la terapia della febbre può forse essere considerata la prima delle tante shock-terapie che hanno contribuito a dare una cattiva fama alla psichiatria, come l'elettroshock, o lo shock insulinico.

La credenza, forse nemmeno tanto campata per aria, era che se un forte trauma aveva causato il disordine del paziente, poteva essere il caso che un altro trauma contrario ristabilisse il necessario equilibrio. Proprio come in certe storie a fumetti, dove il protagonista perde la memoria dopo che gli è cascato un vaso in testa, e la riacquista dopo un'altra botta in testa. L'elettroshock in pratica è stato inventato per simulare gli effetti di un forte trauma cranico, ma senza l'effetto collaterale delle fratture.

Anche se questi metodi godono di una cattivissima pubblicità, in parte meritata, ma dovuta anche a certi eccessi (resi popolari da film come Qualcuno volò sul nido del cuculo) occorre dire che funzionano (sì, sono ancora usati). Pare che in effetti ricevere una forte scarica elettrica tramite elettrodi applicati sul cranio abbia un certo effetto calmante, anche se il rapporto costi-benefici è piuttosto complicato da valutare. Nessuno però sa davvero perché funzionano.

Gli psicofarmaci di nuova generazione, che oggi vengono dati con una certa liberalità, rappresentano sicuramente una terapia meno cruenta di quelle usate nel recente passato (e non del tutto scomparse), ma ancora oggi una vera cura per le malattie mentali, priva di un rapporto costi-benefici troppo alto, è da venire. Il che spiega abbastanza bene il motivo per cui Julius Wagner-Jauregg è ancora oggi uno dei due soli scienziati nel campo della psichiatria ad aver mai vinto un Nobel per la medicina.


Ah, sì, scusate: l'altro è Egas Moniz, che vinse il premio Nobel nel 1949 per aver inventato la lobotomia frontale.

mercoledì 21 ottobre 2009

martedì 20 ottobre 2009

Apelle, figlio d'Apollo

Zeusi per dimostrare ad Apelle la sua abilità, dipinse un canestro di frutta così verosimile che perfino gli uccelli venivano tratti in inganno e scendevano a beccare gli acini d’uva. Trionfo di Zeusi che si riconfermava il più grande pittore, smacco di Apelle. Ma qualche tempo dopo questi invitò l’amico a vedere la sua ultima creazione. Quando Zeusi entrò a casa di Apelle, vide il dipinto coperto da un panno e avvicinandosi stese la mano per toglierlo ma con sua grande sorpresa si accorse che il dipinto altro non era che un drappo dipinto. “ La tua pittura è certamente grande, perché ha ingannato gli animali – commentò Apelle – Ma cosa dire della mia che ingannato gli uomini?”

A Firenze, nella sede di Palazzo Strozzi, fino al 24 gennaio c'è una bella mostra dal titolo "Inganni ad arte – Meraviglie del trompe-l'oeil dall'antichità al contemporaneo". Come si evince dal titolo l'argomento della mostra è il trompe-l'oeil e più in generale la contraffazione del reale, confinante con l'inganno e l'illusionismo, in pittura (e non solo).

Si tratta di un riuscitissimo connubio fra l'interesse umanistico per l'arte e la pittura, e quello scientifico legato alla psicologia della percezione visiva. In mostra ci sono opere che hanno in comune il tentativo di convincere l'osservatore che quel che è solo "rappresentato" sulla tela abbia un'esistenza reale, concreta, tangibile. Un po' come nell'immagine che apre il post (Fuga dalla critica, di Pere Borrell del Caso, 1874) dove l'illusione è data dalla violazione dei confini della cornice (solo dipinta) oltre che dal forte contrasto luminoso fra sfondo e primo piano.

In alcuni casi, più che di artificio o inganno, si dovrebbe invece parlare di tentativo di restituire nella maniera più minuziosa e realistica possibile l'oggetto rappresentato, come in certe nature morte, o magari più a scopo didattico che artistico, come può essere il caso delle cere del Susini e dello Zumbo normalmente esposte al Museo della Specola (la collezione delle cere anatomiche della Specola è una delle cose di Firenze che si devono assolutamente vedere, ma è sconsigliata alle persone impressionabili). Il che ci fa semplicemente capire come in arte il confine preciso fra pura e semplice rappresentazione e trompe-l'oeil è ambiguo, e mai fissato una volta per tutte.

Uno spazio dell'esposizione, allestito dal famoso psicologo Richard Gregory, è dedicato a varie installazioni interattive, fra cui una vera stanza di Ames, all'interno della quale si può entrare ed essere visti mentre il proprio corpo assume le sembianze di un gigante.

Comunque, sono sempre stato affascinato dalle illusioni ottiche, ma spesso anche annoiato dal solito repertorio che tende a ripetersi, sempre uguale, in qualsiasi manuale di psicologia (linee che sembrano convergere ma sono invece parallele, etc.). Una cosa vista in questa mostra invece era per me del tutto nuova, e si tratta di un'opera del pittore inglese Patrick Hughes.

I quadri di Hughes sono un po' il rovescio del trompe-l'oeil tradizionale, in quanto lo scopo non è convincere l'osservatore che un oggetto bidimensionale abbia un'esistenza nello spazio tridimensionale, ma al contrario Hughes realizza oggetti solidi che sembrano essere mere rappresentazioni pittoriche, salvo mutare aspetto in maniera sorprendente non appena cambia il punto di osservazione.

La tecnica è ingegnosa: nelle opere di Hughes la prospettiva è rovesciata, nel senso che l'oggetto concretamente più vicino all'osservatore è quello che appare più lontano, e viceversa. L'effetto è quanto di più spiazzante, e il video può dare solo un'idea.


martedì 13 ottobre 2009

il senso di Gino il camionista per la neve

Sembra che Diderot abbia detto che, per una fortunata circostanza, l'ordine delle parole nella lingua francese rispecchia esattamente il naturale susseguirsi dei pensieri. Il "sembra" iniziale è dovuto al fatto che trovo difficile credere che Diderot, una delle persone che più ammiro nella storia, abbia davvero detto una simile sciocchezza, ma cercando l'autore di questa perla di saggezza Google mi ha restituito questo risultato. Lasciamo stare.

La citazione è interessante perché spiega bene il potere quasi magico che hanno le parole sul pensiero. Il punto è che quasi ogni bambino, a meno che non abbia la fortuna di essere perfettamente bilingue, pensa probabilmente la stessa cosa della sua lingua madre. Ognuno crede che la propria lingua sia quella "più giusta", quella dove la grammatica e lo stesso lessico sono più adatte ad esprimere il pensiero, quella dove trasformare in parole ciò che si sta pensando è meno faticoso e più "naturale".

Se ciò è perdonabile nei bambini, sono più meritevoli di una sia pur benevola presa in giro tutti quei pensatori che hanno creduto, nei secoli scorsi, di poter dimostrare la superiorità della propria lingua su tutte le altre, o addirittura che la loro fosse niente meno che la "lingua adamitica", quella parlata da tutta l'umanità prima della confusione delle lingue introdotta col disastro della torre di Babele. Al proposito, è quasi obbligatorio a questo punto narrare l'aneddoto riportato da Erodoto secondo cui

il faraone Psammetico I voleva stabilire quale fosse la lingua originaria dell'umanità. A questo scopo ordinò che due bambini fossero allevati da un pastore, proibendo che essi udissero anche una sola parola, e incaricandolo di riferirgli la prima parola pronunciata dai due bambini. Dopo due anni il pastore riferì che entrando nella loro camera, i bambini andarono da lui stendendo le mani e chiedendo bekos. Facendo una ricerca, il faraone scoprì che questa era la parola frigia per indicare il pane di farina di grano, al che gli egiziani ammisero che i frigi fossero una nazione più antica della loro (fonte: Wikipedia).


Il faraone aveva almeno ideato un metodo empirico per dirimere la questione, e va a suo onore il fatto che accettò senza battere ciglio il responso sfavorevole alla propria nazione. Comunque questi sono tempi molto meno favorevoli all'etnocentrismo, così che crescendo tutti i bambini si rendono conto che probabilmente il loro linguaggio non ha nulla di particolare rispetto agli altri; che i tedeschi ad esempio, non è che prima pensano una cosa e poi sono costretti a tradurre in tedesco ciò che pensano, al contrario di noi che facciamo molta meno fatica potendo esprimere direttamente ciò che pensiamo.

Ci si rende conto, insomma, che l'illusione infantile di cui sopra è dovuta probabilmente ad un'inversione di causa ed effetto. Non è che la lingua italiana rispecchia più fedelmente delle altre il contenuto, universale, del pensiero, ma è il modo in cui pensiamo che viene modificato e influenzato dalla lingua che si parla. Ogni lingua, si dice, ha uno "spirito" suo proprio, in grado anche di condizionare la cultura in generale. Forse Kant non avrebbe mai potuto scrivere la Critica della ragione pura, se fosse stato italofono, oppure l'avrebbe scritta in modo radicalmente diverso. Si dice anche che chi è in grado di parlare bene diverse lingue cambia personalità a seconda della lingua.

Queste, almeno entro certi limiti, sono quasi delle ovvietà. Il problema è che vi sono anche persone che forse hanno esteso un po' troppo il concetto, spingendosi fino a sostenere che il pensiero non è altro che linguaggio, oppure che si sono abbandonati a forme di relativismo concettuale estremo, dove a diverse lingue corrispondono anche contenuti mentali radicalmente diversi e incommensurabili. È un po' l'idea anche paventata da Orwell in 1984, dove l'invenzione della neo-lingua serve a tenere sotto controllo la popolazione.

Secondo questo modo di vedere le cose, il mondo viene segmentato e organizzato in maniere diverse a seconda della cultura di appartenenza, e il linguaggio riflette appunto queste differenze, di modo che due diversi linguaggi potrebbero persino trovarsi ad essere non traducibili fra loro, in quanto non ci sarebbe nemmeno un'ontologia comune fra i due tipi di discorso. Sarebbe inutile, allora, tentare di tradurre in italiano la Critica della ragione pura: l'unico modo di conoscere il vero pensiero di Kant è quello di leggerlo in originale, altrimenti si può solo averne una vaga idea. Chissà perché nessuno pensa la stessa cosa delle istruzioni per regolare i canali di un televisore (che in genere sono altrettanto incomprensibili in qualsiasi lingua vengano scritte), o di una ricetta per la pappa al pomodoro: "mi è venuta davvero schifosa, ma è colpa della ricetta che era scritta in aramaico, e si sa che la pappa al pomodoro non c'entra niente con gli aramaici, chiunque essi siano".

In realtà è più comune pensare che non tutte le lingue siano intraducibili, ma solo quelle appartenenti, appunto, a culture troppo diverse dalla nostra. Tedeschi e italiani in fondo sono europei, e hanno una storia in gran parte comune, fatta di reciproci contatti e influenze. Ma i popoli sperduti dell'Amazzonia forse hanno davvero sviluppato un modo di pensare radicalmente diverso, e incommensurabile. Molti antropologi/linguisti lo credono, e infatti sono proprio due antropologi (della scuola di Franz Boas, che fu anche il maestro di Margaret Mead) a dare il nome alla ipotesi di Sapir-Whorf. Nelle parole di Benjamin Whorf:
Noi dissezioniamo la natura lungo linee tracciate dalle nostre lingue madri. Le categorie e le tipologie che isoliamo dal mondo dei fenomeni non le troviamo lì in quanto esse guardano dritto in faccia ogni osservatore; al contrario, il mondo viene presentato in un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti; vale a dire, in gran parte dai sistemi linguistici presenti nelle nostre menti. Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo vi attribuiamo significati, in gran parte perché siamo parti in causa in un accordo per organizzarla in questo modo; un accordo che si mantiene in tutta la nostra comunità di linguaggio ed è codificato negli schemi della nostra lingua... tutti gli osservatori non sono guidati dalle stesse prove fisiche verso la stessa immagine dell'universo, a meno che i loro bagagli linguistici siano simili, o possano essere in qualche modo calibrati.


Qual è l'evidenza empirica per questa tesi? L'evidenza potrebbe essere fornita, ad esempio, da una lingua che abbiamo effettivamente difficoltà a tradurre, magari riuscendo solo con grande sforzo e complicate perifrasi a renderne, in maniera piuttosto vaga, il senso. Whorf che studiava le lingue dei nativi americani infatti ci fornisce alcune traduzioni di enunciati indigeni piuttosto bizzarre: i Nootka per dire qualcosa come "egli invita gente a cena" usano una costruzione simile a "egli, o qualcuno, è in cerca di mangiatori di cibo cucinato". Per dire invece "la barca è ormeggiata sulla riva della spiaggia" dicono "esso è sulla spiaggia puntualmente come un evento di moto di canoa". Come è diversa la mente di un nativo americano!

Questi esempi sono citati nel libro di Steven Pinker, L'istinto del linguaggio (il quale però parla erroneamente degli Apache invece che dei Nootka), dove viene fatta una critica piuttosto devastante alle idee di Whorf. Il problema, dice Pinker, è che davvero non sembra esserci motivo per complicarsi la vita in questo modo: è ovvio che più letterale sarà il tipo di traduzione che facciamo, più alieno ci sembrerà il modo di esprimersi dell'indigeno, soprattutto se ha una grammatica molto diversa dalla nostra. Ma questo è solo un artefatto del nostro modo impacciato di tradurre, che produrrebbe effetti simili con qualsiasi altra lingua (anche il tedesco): quello che l'indigeno sta dicendo, comunque la mettiamo, è semplicemente che la barca è ormeggiata a riva.

Pinker, che è un abile polemista ma non troppo onesto, non dice che in realtà lo scopo di Whorf era mostrare come la lingua Nootka facesse spesso a meno di sostantivi, sostituendovi dei verbi o delle azioni, e che questo forse potrebbe avere degli effetti sul pensiero, ad esempio potrebbe aiutare a pensare appunto in termini di "processi" piuttosto che di cose statiche. La lingua è uno strumento, e in quanto tale potrebbe anche, a mio avviso, facilitare alcuni processi, così come lo sviluppo del simbolismo matematico può aiutare i progressi in fisica e quindi l'ideazione di certe teorie (se ne è parlato nei commenti di due post fa). Questa versione dell'ipotesi è più plausibile dell'intraducibilità, se è questo che Whorf voleva sostenere, ma il mio problema qui non è tanto quello che pensava realmente Whorf, ma il modo in cui il suo pensiero è stato spesso popolarizzato.

Il punto è che l'esempio rende evidente un grosso problema della teoria dell'intraducibilità: se davvero un'espressione non è traducibile, noi come facciamo a sapere cosa dice, e quindi che è intraducibile? Si tratta, come è evidente, di una teoria inverificabile. Si potrebbe dire lo stesso per onestà, della tesi contraria (tutte le lingue sono intertraducibili), ma il fatto da prendere in considerazione è che noi non sappiamo dare un vero contenuto all'idea che alcuni tipi di pensiero verbale non siano esprimibili nella nostra lingua. Se qualcuno sta dicendo qualcosa, allora deve essere teoricamente possibile per me capire cosa sta dicendo, altrimenti è quasi una contraddizione in termini, come una sfera quadrata.

Lo stesso tipo di considerazioni possiamo farlo per una bufala diffusissima che è servita a dare corpo, nella cultura popolare, alle idee sulla relatività linguistica. Quella secondo cui gli eschimesi hanno 10, o 100, o 1000 (le fonti non si mettono d'accordo) parole diverse per indicare la neve, cosa che dimostrerebbe come la loro organizzazione mentale, che ruota ovviamente intorno al concetto di neve, data la sua importanza nel loro ambiente, sia radicalmente diversa. Una delle apparizioni più recenti della bufala mi pare sia nel film Il senso di Smilla per la neve (e nel romanzo da cui è tratto).

Che si tratta di una bufala è ormai noto da diversi anni, ed una delle prime smentite, se non la prima smentita ufficiale, si trova ad esempio in questo articolo di Laura Martin, che ne traccia anche una storia delle origini (c'entra, ancora una volta, Franz Boas) e del suo successivo sviluppo. La storia è falsa perché gli eschimesi non hanno così tante parole per la neve (non più dell'inglese, se usiamo un buon dizionario dei sinonimi e contrari), e anche perché non tiene conto del fatto che la lingua Inuit è una lingua agglutinante e con forte tendenze polisintetiche, che vuol dire che ciascuna parola è formato da un morfema radicale al quale si possono aggiungere altri morfemi suffissi, con la formazione di "parole-frase" spesso lunghe e complesse. Non vale contare tutti i composti formati dalla radice, così come non varrebbe contare "manina" come una parola diversa da "mano" ("pensate un po', gli italiani, che gesticolano sempre, hanno tante parole diverse per dire 'mano', a seconda delle dimensioni della mano").

Ma ci sarebbe anche un modo più semplice per smentirla: basta infatti chiedersi "che significa realmente?" (è un trucco che spesso funziona, con le bufale). Che cos'è una parola? Che cosa conta come "parola diversa" per esprimere lo stesso concetto? In che modo avviene il conteggio? Immagino che le parole conteggiate non possano avere esattamente lo stesso e identico significato, altrimenti non si capirebbe la necessità di usare più di una parola. Si tratta quindi, di concetti diversi che ruotano intorno ad un unico concetto centrale (la neve). Ma quanto possono essere diversi, per poter contare?

Possiamo immaginare ad esempio che ci sia una parola per la neve fresca, appena caduta, e una per quella che è depositata al suolo da più giorni. Bene, tenetevi forte, perché anche noi abbiamo due parole diverse per esprimere i due concetti: "neve-fresca-appena-caduta", e "neve-depositata-al-suolo-da-più-giorni". Qualcuno potrebbe dire che non vale, perché non sono vere parole, resta però il fatto che il nostro vocabolario è perfettamente adeguato ad esprimere i due concetti, alla bisogna. Nel caso in cui dovessimo servircene davvero spesso, potremmo sempre trovare delle abbreviazioni, ma per ora non ne abbiamo bisogno. Nessuno di noi quindi, nemmeno Gino il camionista, dovrebbe avere alcun problema a conversare con un eschimese e comprendere benissimo quel che dice, con l'aiuto di un interprete (non whorfiano, altrimenti siamo fregati).

Ma soprattutto, come fa notare ancora Pinker, cosa ci sarebbe di strano? Quella che per me è "una barca", per un esperto di navigazione avrà un nome più specifico a seconda della sua forma, quella che per me è solo una mela per un contadino potrebbe essere una "golden star" o una "renetta" o chissà cos'altro. E normale che gli esperti di qualsiasi settore abbiano un vocabolario più ampio del resto dell'umanità per descrivere le cose di cui sono esperti, ma questo non preclude le possibilità di comunicazione fra loro e le altre persone.

C'è un'unica possibile, eccezione, che non riguarda le differenze culturali, ma le differenze di genere: come è noto tutti gli uomini vedono solo 16 colori, come le impostazioni base di Windows. "Pesca" è un frutto, non un colore. "Malva" non ho la più pallida idea di cosa sia. Ecco, questo è uno dei tanti motivi per cui a volte mi riesce davvero difficile comprendere cosa diavolo stia dicendo un esponente dell'altro sesso.

sabato 3 ottobre 2009

la scimmia parlante

Se Alan Turing ha elevato il linguaggio, la capacità di conversare e produrre enunciati dotati di senso, a criterio per stabilire quando una qualsiasi macchina possa davvero essere considerata "pensante", è perché il linguaggio è effettivamente una delle abilità più sorprendenti e uniche degli esseri umani. In realtà uno dei difetti del test di Turing è che è persino troppo esclusivo. Sarebbe già un grande risultato, per l'IA, costruire un robot con l'intelligenza di un cane, ma una macchina del genere non potrebbe mai superare il test.

Già Cartesio, del resto, aveva negato un'anima agli animali non umani, proprio sulla base del fatto che essi non parlano. Secondo Cartesio non c'è niente che un animale faccia che non possa essere riprodotto anche da uno stupido meccanismo privo di qualsiasi intelligenza. Gli animali non sono altro che macchine complesse, i cui movimenti possono essere equiparati a un sistema di leve e pulegge, che agiscono in un determinato modo a determinati stimoli. L'apparente intelligenza del loro comportamento è solo un segno della bravura del progettista, il Creatore.

Gli uomini, in quanto animali, cioè in quanto esseri corporei, non si distinguono affatto dalle altre creature. Essi però sono anche dotati di un principio incorporeo, di una sostanza immateriale che si chiama "anima", e che miracolosamente riesce anche ad avere un effetto sui corpi materiali. E la migliore prova empirica dell'esistenza di questa "sostanza pensante", per Cartesio, è proprio il comportamento verbale (separatamente dalle argomentazioni a priori, quali il cogito ergo sum).

Il comportamento verbale umano infatti esibisce quelle caratteristiche di creatività che sembrerebbero inspiegabili, da un punto di vista rigidamente materialista. Esso ad esempio consente, a partire da un vocabolario finito, di generare un'infinità potenziale di nuovi enunciati, corrispondenti ai "pensieri" nella testa di chi parla, e riferentesi a qualsiasi possibile situazione reale o immaginaria. Il linguaggio è un coltellino svizzero, che si presta a molteplici usi: con esso è possibile non solo comunicare situazioni di fatto o impartire ordini ("mi stai pestando un piede, levalo"), ma è possibile mentire o ingannare il prossimo ("guarda dietro di te, una scimmia a tre teste!"), inventare storie per il semplice piacere di farlo ("c'era una volta..."), scrivere poesie ("il verde melograno, a cui tendevi la pargoletta mano"), esprimere i propri sentimenti, insultare il prossimo, fare promesse o minacce, discorsi celebrativi, eccetera eccetera.

È questa la caratteristica del linguaggio che lo distingue dalla semplice comunicazione, che esiste anche nelle forme di vita più infime. Anche le api, per esempio, hanno un sistema di comunicazione piuttosto elaborato che gli permette di comunicare alle compagne la posizione e la distanza, relativemente all'alveare, di una fonte di polline. Stupefacente, non c'è dubbio, ma ancora niente rispetto alle capacità esibite dagli umani.

Le tesi dualiste di Cartesio sulla rigida separazione fra anima e corpo sono oggi quasi universalmente rifiutate, ma è opinione diffusa tra i filosofi contemporanei, ancora, che il linguaggio non sia semplicemente "espressione" del proprio pensiero, ma che in una certa misura esso "costituisca" la stessa essenza del pensiero elaborato, o almeno lo condizioni pesantemente. La formulazione vaga di questo principio è dovuta al fatto che non esiste accordo sul suo significato preciso: si va dalle tesi estremiste secondo cui il contenuto dei pensieri di una data persona è limitato dal suo vocabolario e rispecchia la sua grammatica (tesi di Sapir-Whorf), a quella innocua e banalmente vera secondo cui non sarebbe possibile formulare certi pensieri senza l'ausilio del linguaggio (es. "oggi è martedì").

Se una qualche versione intermedia di questo principio è corretta (come credo), significa che è molto rischioso e azzardato formulare ipotesi di tipo antropomorfo riguardo al contenuto mentale degli animali non umani, anche di quelli più intelligenti e dalle capacità cognitive più elaborate. Dobbiamo resistere all'idea per la quale gli animali "pensano" nello stesso senso in cui noi "pensiamo", o che abbiano il nostro stesso tipo di "intelligenza". Wittgenstein diceva che se un leone potesse parlare noi non lo capiremmo, ma forse è più corretto dire che se un leone potesse parlare non sarebbe più un leone, perché sarebbe un nostro simile. Il linguaggio umano è un unicum in natura, che rende l'uomo una cosa speciale fra tutte le altre creature.

Non necessariamente migliore, più nobile, o più in alto nella scala evolutiva: in fin dei conti anche altri animali esibiscono caratteristiche uniche e speciali, come potrebbe essere il caso dell'elefante e la sua proboscide. Il linguaggio (e il pensiero razionale) non è una caratteristica interessante perché ci pone al vertice del creato o ci dà il diritto di fare quello che vogliamo degli altri animali non intelligenti (anche se ci dà un grande potere). È interessante per noi uomini perché siamo uomini, e ci interessa quel che ci riguarda in modo speciale.

Ora, il fatto che questo suoni ancora troppo antropocentrico è probabilmente all'origine dei tentativi che sono stati effettuati nei decenni passati per rovesciare questo particolare primato dell'uomo sulle altre specie. Certe motivazioni ideologiche sono persino condivisibili, se servono a rovesciare l'illusione che l'uomo sia padrone del mondo e al centro dell'Universo, creato a immagine e somiglianza di Qualcosa e non in continuità con la natura. Ma sempre di ideologia si tratta, e non dovrebbe inquinare la ricerca scientifica. È quanto è successo, invece, con le celebri ricerche sulle scimmie e il linguaggio dei segni.

Le scimmie sono i nostri parenti più prossimi, quindi è giusto cercare lì le origini delle nostre peculiari capacità. E in effetti animali come gorilla e scimpanzé esibiscono della abilità comunicative non comuni. La loro esistenza è fondata in gran parte sullo scambio di segnali, che possono essere fondamentali per la sopravvivenza a breve termine ("attenzione, un serpente!"), ma anche svolgere un ruolo importante per quanto riguarda la coesione del gruppo e lo scambio di informazioni al suo interno.

Alcuni ricercatori però, a partire dagli anni Settanta, piuttosto che studiare e analizzare la comunicazione scimmiesca nel suo ambiente naturale (cosa che sarebbe stata molto interessante) hanno invece cercato di insegnare alle loro scimmie da laboratorio proprio il linguaggio umano. Per capirci, sarebbe un po' come prendere un piccione e dire "siccome vogliamo capire come fa a volare, proviamo a fargli pilotare un aereo di linea". E queste ricerche sono diventate famosissime, finendo ad esempio nel bel romanzo Congo, di Micheal Chrichton, la cui protagonista è proprio un gorilla parlante, Amy, ispirata però da casi realmente esistenti e altrettanto famosi, come gli scimpanzé Washoe e Nim Chimpsky (il cui nome vorrebbe essere un omaggio o una presa in giro di Noam Chomsky), e il gorilla Koko (forse l'unico gorilla femmina al mondo ad essere stata accusata di molestie sessuali sulle ricercatrici).

Uno dei primissimi tentativi di insegnare il linguaggio alle scimmie fu effettuato dai coniugi Kellogg, i quali a partire dal 1968 decisero di allevare uno scimpanzé, Gua, e di crescerlo in compagnia del loro vero neonato, Donald, esattamente come se fossero fratelli. L'idea alla base dell'esperimento era che crescendo nello stesso ambiente e ricevendo lo stesso tipo di trattamento i due avrebbero forse acquisito insieme le stesse capacità, aiutandosi l'un l'altro. Inizialmente Gua si dimostrò più sveglio dello stesso Donald: all'età di 16 mesi era in grado di comprendere 100 parole (o comandi verbali), più di quanti fosse capace di comprenderne Donald, ma non andò oltre. In seguito l'esperimento venne interrotto perché ci si accorse che Gua aveva una cattiva influenza su Donald: praticamente non era lo scimpanzé che apprendeva dall'umano, ma l'umano che stava diventando uno scimpanzé (natura - cultura = 1-0).

Washoe, un altro scimpanzé, venne allevato a partire dal 1967 dai coniugi Gardner i quali, avendo constatato l'impossibilità per le scimmie di acquisire il linguaggio verbale a causa di limiti fisiologici, decisero di insegnargli l'ASL, la lingua americana dei segni. Essi, seguendo la scuola comportamentista allora in auge, ricorsero alla tecnica del "condizionamento operante", ovvero cercarono di incoraggiare l'uso dei segni con adeguate ricompense. Ad esempio Washoe aveva capito che poteva ottenere maggiori quantità di una cosa desiderata se avesse usato il segno corrispondente a "more", "di più", e aveva afferrato il concetto estendendolo anche a situazioni diverse da quella in cui si era verificato l'apprendimento originario (in pratica, una volta imparato a chiedere più banane, si allargò fino a chiedere più noccioline). Washoe avrebbe imparato in questo modo qualcosa come 250 segni, ma secondo i resoconti più favorevoli ne avrebbe imparati alcuni anche senza condizionamento, ma per semplice imitazione, o addirittura ne avrebbe ideati di nuovi combinando i precedenti segni.

Nello stesso periodo, un altro scimpanzé, Nim Chimpsky, veniva educato al linguaggio dei segni da un altro gruppo di ricercatori, facenti capo a Herbert Terrace. L'esperimento era stato progettato esplicitamente allo scopo di smentire le tesi di Noam Chomsky secondo cui solo gli umani hanno un linguaggio vero e proprio. I risultati però furono molto più deludenti di quelli ottenuti da Washoe. Anche se Nim Chimpsky aveva imparato 125 segni (molti di meno secondo altre valutazioni), Terrace ne trasse l'impressione che il suo non potesse affatto essere descritto come un vero linguaggio, dotato di una vera sintassi generativa in senso chomskiano. Tutto quel che Nim poteva fare era, appunto, imitare certi segni nel contesto appropriato, mentre per il linguaggio si richiede qualcosa di più, e cioè l'uso delle regole grammaticali per generare nuove frasi e nuovi significati a partire dal vocabolario di base.

I supporter di Washoe osservarono che Nim era stato allevato in condizioni diverse da quelle della loro scimmia: in gabbia e in ambiente asettico, mentre Washoe veniva trattata in modo simile a un essere umano. Terrace, invece, osservando i filmati relativi a Washoe, ne concluse che il suo progetto era fallito esattamente nella stessa maniera in cui era fallito quello di Washoe: nemmeno lei aveva appreso l'uso del linguaggio in un senso vicino a quello umano. Scoppiò allora la grande controversia, mai del tutto sopita, fra difensori e oppositori del linguaggio scimmiesco, nel corso della quale Terrace venne persino accusato di voler sabotare il lavoro degli altri ricercatori.

Sebbene sia evidente che gran parte del disaccordo nasca da incomprensioni reciproche e dalla difficoltà di stabilire che cosa si intenda esattamente per "linguaggio", sembra assai probabile che la maggior parte dei resoconti più entusiastici siano viziati da uno scarso controllo sulla metodologia e da un certo auto-inganno compiacente con i risultati che si desidera ottenere (volendo escludere la frode vera e propria dalle ipotesi alternative). Avendo a che fare con gli animali, il rischio dell'antropomorfizzazione, ovvero di proiettare su di loro pensieri e comportamenti umani che in realtà non gli appartengono, è sempre fortissimo. Su coloro che insegnavano il linguaggio a Washoe, potrebbe aver agito quella che è una delle più vecchie e semplici illusioni: l'effetto "bravo Hans".

Hans era un cavallo che sapeva contare e fare le addizioni e altre operazioni, e che per questa sua capacità si esibiva nei circhi all'inizio del secolo scorso (nel 1904 finì anche sulle pagine del New York Times). Durante le esibizioni, una persona del pubblico lanciava la sua sfida, ad esempio "5+3", e allora Hans batteva con lo zoccolo per terra otto volte di seguito, poi si fermava, con meraviglia dei presenti. In realtà venne poi dimostrato che Hans non faceva che reagire al linguaggio corporeo del suo istruttore, il quale era persino inconsapevole di comunicargli involontariamente, con un quasi impercettibile movimento, il momento giusto in cui doveva fermarsi. Hans non sapeva fare le somme, ma avrebbe potuto essere una buona macchina della verità.

Che qualcosa di simile sia avvenuto con le scimmie e con il linguaggio dei segni è stato confermato quando ai progetti di addestramento cominciarono a partecipare anche ricercatori sordi, che avevano appreso il linguaggio dei segni come prima lingua. È da notare che fino a non troppo tempo fa anche relativamente al linguaggio dei segni vi era l'equivoco (a volte alimentato dagli stessi sordi) di non considerarlo un vero e proprio linguaggio affine a quello verbale, ma qualcosa di più simile a una pantomima, a un gioco dei mimi più elaborato e complesso. Questo alimentava l'illusione, negli stessi sordi, che quella dei segni fosse una forma di comunicazione più "naturale" e vicina alle cose stesse, invece che basata sulla convenzione e la grammatica come quella tradizionale. In realtà è stato dimostrato che l'ASL e affini sono lingue a tutti gli effetti in senso chomskiano, e delle quali sono pure state pubblicate le grammatiche relative.

Eppure questa confusione doveva essere operante in coloro che studiavano Washoe, i quali volevano confondere qualsiasi segno o gesto usato dalla scimmia in un enunciato corretto dell'ASL. Gli studiosi sordi, però, erano in grado di riconoscere molti meno segni rispetto agli altri ricercatori. Il linguaggio dei sordi non è insomma un semplice gesticolare – così come parlare non significa solo emettere suoni più o meno articolati – e se può essere confuso come tale dai profani, ciò non avviene certo con chi lo usa dalla nascita. In altre parole, nel mentre per un normale osservatore Washoe stava facendo il segno che significa "mangiare", per un sordo si stava solo portando la mano alla bocca. Se per un normale osservatore Washoe stava facendo il segno che significa "grattarsi", per un sordo si stava solo grattando.

Quando il saggio indica la Luna lo stolto guarda il dito. In questo caso, però, è avvenuto che la scimmia mostrava il dito e lo stolto guardava la Luna.