lunedì 29 settembre 2008

il buon selvaggio 2

Nel 1721 Montesquieu pubblica le Lettere persiane, romanzo epistolare ove si immagina che due dignitari persiani (Usbek, grande signore di Ispahan, e il suo amico Rica), desiderosi di conoscere il mondo, si mettano in viaggio verso l'Occidente, soggiornando per un lungo periodo nella capitale francese. Da Parigi, scrivono lettere ai propri amici e familiari in patria per descrivere ciò che vedono. È il pretesto di cui Montesquieu si serve per fare della satira e prendere in giro i costumi e le istituzioni del suo tempo: la società francese del XVIII secolo viene sottoposta al vaglio dello sguardo critico e disincantato dello straniero, il quale proprio in virtù della sua estraneità è ritenuto in grado di giudicare più lucidamente quel che osserva. Inoltre Montesquieu si serve di questo espediente per introdurre il tema del relativismo culturale ("paese che vai, usanza che trovi") che sarà al centro della sua monumentale opera Lo spirito delle leggi: ciò che a noi sembra normale o persino naturale, per effetto dell'abitudine, potrebbe apparire sommamente strano e "contro natura" a qualcuno che viene da fuori.

Naturalmente Le lettere persiane non sono nient'altro che un romanzo, un'opera di finzione. Sarebbe assurdo pensare di leggerlo allo scopo di scoprire cosa un abitante del lontano Oriente potrebbe pensare di noi e della nostra società, e sarebbe anche assurda una critica al nostro modo di vivere basata sul suo contenuto letterale. In quel libro si esprime una critica alla società francese, naturalmente, ma è una critica dall'interno, svolta da un cittadino francese che di quella società fa parte e nella quale non si sente "estraneo": infatti Montesquieu è un riformista, vuole migliorare le istituzioni del proprio paese, non fuggirne via. Ad esempio, Usbek parla dei vescovi come dei ministri sottoposti all'autorità del Papa, i quali hanno due compiti distinti:
quando sono riuniti scrivono articoli di fede come lui [il Papa], mentre nel particolare non hanno altra funzione che quella di dispensare dal seguire la legge. Infatti devi sapere che la religione cristiana è sovraccarica di un'infinità di pratiche molto difficili, e siccome è ritenuto più complicato assolvere i propri doveri che avere dei vescovi che ne dispensano, si è presa quest'ultima decisione per l'utilità pubblica; quindi, se non si vuole digiunare, o assoggettarsi alle formalità del matrimonio, [...] o addirittura se si vuol venire meno al proprio giuramento, si va dal vescovo o dal Papa, che subito donano la dispensa.

Montesquieu non pensa davvero che la funzione dei vescovi sia quello di distribuire dispense dai doveri di un buon cristiano. Egli sta anzi osservando che questo è ciò che avviene troppo spesso, ma che è in contrasto con l'autentica funzione che i sacerdoti dovrebbero esercitare. Se leggessimo quella descrizione in maniera letterale ne saremmo fuorviati: ne saremmo fuorviati in primo luogo quanto al significato che l'autore del libro intende dare alla sua opera, e sarebbe inoltre una descrizione totalmente erronea – che tale, per inciso, rimarrebbe anche se per assurdo provenisse realmente da un "persiano" – dell'istituzione vescovile.

Se tutto ciò è chiaro possiamo parlare adesso di Papalagi, un libro pubblicato per la prima volta nel 1920. Raccoglie i discorsi di Tuiavii, capo polinesiano che agli inizi del secolo compì un viaggio in Europa. A quanto pare, Tuiavii rimase così disgustato dal modo di vivere del "papalagi" (che nella lingua samoana significa "uomo bianco"), da voler mettere in guardia il suo popolo contro il fascino pericoloso che l'Occidente avrebbe potuto esercitare. Tuiavii critica ad esempio il modo di vestire dei bianchi e la loro abitudine di coprirsi, si meraviglia del fatto che vivono in quelli che chiama "cassoni di pietra", si indigna per l'attaccamento mostrato dai bianchi nei confronti del "tondo metallo" e della "carta pesante", e in generale per la loro brama di possesso. Poche citazioni possono rendere conto dello stile generale dell'opera:
Ragionevoli fratelli, ascoltate con fiducia e siate felici di non conoscere il male dei bianchi e le loro angustie. Voi tutti mi siete testimoni che il missionario dice: «Dio è amore. Un onesto cristiano farebbe bene a tenersi sempre davanti agli occhi l'immagine dell'amore. Solo al grande Dio va quindi anche la devozione del bianco». Ebbene, il missionario ci ha mentito, ci ha ingannati, il Papalagi lo ha corrotto affinché ci ingannasse con le parole del Grande Spirito. Perché il tondo metallo e la carta pesante, ch'egli chiama denaro, questa è la vera divinità dei bianchi.

Senza denaro in Europa sei un uomo senza testa, un uomo senza membra. Un niente. Devi avere denaro. Ne hai bisogno per il cibo, per l'acqua da bere, per il sonno. Quanto più denaro possiedi, tanto migliore è la tua vita. Se hai denaro puoi avere in cambio tutto il tabacco che vuoi, gli anelli o i panni più belli. Hai molto denaro? Puoi avere molto. Perciò tutti ne vogliono avere molto. E ciascuno vuole averne di più degli altri. Da qui l'avidità e l'occhio teso al denaro in ogni ora del giorno. Getta un tondo metallo nella sabbia e i bambini vi si lanceranno sopra, lotteranno fra di loro per prenderlo e chi lo afferra e lo tiene, il vincitore, è felice. Ma raramente qualcuno getta denaro nella sabbia.

Ci sono molti bianchi che ammucchiano il denaro che altri hanno fatto per loro, lo portano in un luogo ben custodito, ne portano lì sempre di più fino a che non hanno più neppure bisogno di gente che lavori per loro, perché a questo punto è il denaro che lavora per loro. Come ciò sia possibile senza qualche diabolica magia, non sono mai riuscito a saperlo del tutto: ma è vero che il denaro diventa sempre di più, come le foglie di un albero, e che in questi casi l'uomo diventa ricco anche quando dorme.

Eccetera eccetera...
Il libro, semidimenticato per decenni, ha conosciuto una sorta di revival negli anni '70 e '80, soprattutto nel contesto delle culture giovanili e alternative. In Italia ebbe una larga diffusione negli anni '90 l'edizione di Stampa Alternativa nelle celebre collana "Millelire" (oggi invece è nella collana "Eretica"). Nella quarta di coperta di questa edizione è scritto che "dietro l'apparente leggerezza e bonarietà, Papalagi è un trattato etnologico esilarante e atroce sulla perversione e i falsi miti della tribù dei bianchi", e come tale sembra venga interpretato anche dalla stragrande maggioranza di chi lo legge. Alcune opinioni raccolte in rete, che testimoniano il successo dell'opera:

E' sempre bello e particolare capire come ci si vede da un punto di vista esterno che è completamente diverso dall'oggetto delle considerazioni. Questo capo samoano era un grande e, seppur 100 anni fa, non si può non dire che ci vedeva proprio bene e portava anche gli occhiali dell'ironia, oltre che della preoccupazione. Apparte qualche piccola cosa ho trovato tutto condivisibile e tremendamente reale. La cosa più figa secondo me sono i paragoni tra gli aspetti della vita dell'uomo bianco e quelli del samoano. le similitudini tra le cose che noi reputiamo megagalattiche e aspetti normalissimi della natura ci fanno capire quanto siamo cialtroni e buffoni di corte.
http://noteventhedogs.splinder.com/post/17770955/papalagi

Questo libriccino minuscolo, pubblicato una quindicina d'anni fa dalle "Edizioni Millelire", è stata una delle pietre miliari della mia presa di coscienza ambientalista. Papalagi è un po' un "unicum", una sorta di "saggio antropologico" a rovescio in cui il re di un cosiddetto "popolo primitivo" descrive alla sua gente l'occidente industrializzato dell'inizio del ventesimo secolo. [...] Cosa vide e narrò, dunque, Tuiavii di Tiavea dell'Europa? Dal suo punto di vista, difficilmente contestabile alla luce del puro buonsenso, egli sperimentò un mondo completamente folle, incomprensibile ed autodistruttivo.
http://mammiferobipede.splinder.com/post/16491581

Leggendo questo libretto, scritto originariamente solo per mettere in guardia gli abitanti delle Samoa dall'uomo bianco, sembra proprio di trovarsi davanti ad uno di quei trattati etnologici degli esploratori dell tardo '800: è con una scientificità ed una neutralità inaspettate che Tuiavii descrive le nostre abitudini, dal suo punto di vista, più bizzarre, che viste con i suoi occhi e descritte con le sue parole suonano veramente grottesche, quando non addirittura comiche.
http://www.bookcrossing-italy.com/BCforum/viewtopic.php?t=5972

Il testo viene anche usato in alcune scuole all'interno di percorsi didattici come "spunto per discutere sulla soggettività di ogni punto di vista" poiché "i ragazzi difficilmente si riconoscono nella descrizione altra della nostra cultura".

Cosa c'è di strano in tutto questo? Che si non si tratta affatto di una "descrizione altra della nostra cultura" e a ben guardare non si tratta neppure di una descrizione della nostra civiltà tout cort, in quanto il libro è, ancora una volta, una finzione letteraria (se non si vuole chiamarla un'impostura vera e propria). Si pretende che Erich Scheurmann, il curatore dell'opera, abbia semplicemente trascritto i discorsi di Tuiavii, mentre ne è chiaramente l'autore. Si noti che io non ho alcuna prova di quanto sostengo (sebbene alcune ricerche in rete mi confortino nella mia opinione): semplicemente, trovo ridicolo anche solo pensare che le cose non stiano così. Tanto per fare un esempio, davvero un capo polinesiano potrebbe essere così stupido, una volta recatosi in Europa, da non rendersi conto dell'utilità dei vestiti e delle scarpe? E davvero siamo disposti a credere che i samoani sono tutti immuni dall'egoismo e dall'avidità? Non prendiamoci in giro.

Il libro in realtà ci dice assai poco su di noi (e in questo si differenzia anche dall'opera di Montesquieu) perché non è quello il suo scopo: Papalagi in realtà ci dice molte cose sul come uno studioso tedesco d'inizio secolo che soggiornò per un anno a Samoa (all'epoca una colonia tedesca) voleva vedere "i selvaggi". Tuiavii ricalca in tutto e per tutto lo stereotipo del "buon selvaggio" privo di difetti: vive in armonia con la natura, è generoso e altruista, non capisce il valore del denaro e dei beni materiali, è sincero, ingenuo e innocente, fisicamente prestante (non fiaccato dalla civiltà) e sprezzante delle comodità. In altre parole non è un essere umano.
Il mito del buon selvagio non è però che il rovescio della medaglia, forse più benevolo ma in fondo altrettanto squalificante, del mito del "selvaggio feroce"; è l'innocuo zio Tom contrapposto allo spauracchio dell'Uomo Nero.

Considerare in questo modo i samoani, del resto, potrebbe avere i suoi vantaggi dal punto di vista di un colonialista (e futuro scrittore di testi di propaganda nazista): se quelli si trovano nella felice condizione dell'infanzia innocente, noi non possiamo che invidiarli, ma al tempo stesso occorrerà che qualcuno si assuma l'ingrato compito di prendersi cura di loro, dato che evidentemente non ne sono capaci. Questo è il significato che possiamo trarre dal libro una volta che ne riconosciamo la natura finzionale e lo spogliamo del suo contenuto letterale, e questo è anche quel che un po' mi fa arrabbiare: non è uno sguardo da un punto di vista inedito e originale sul nostro mondo; è uno sguardo anche troppo consueto sulle culture diverse dalla nostra.

È degno di nota che Montesqueiu, all'inizio del '700, dimostrò una sottigliezza e una profondità ben maggiori di Scheurmann e dei nostri lettori fricchettoni: il suo Usbek, tanto critico nei confronti della società francese, è ben lungi dall'essere una persona candida e innocente, ed è sua volta preso in giro per non riuscire a scorgere la crudeltà del suo stesso, dispotico, regno.

martedì 23 settembre 2008

il buon selvaggio

SCENA 1: Nella jungla di un continente a caso. Entrano Badombe e un antropologo.

Antropologo: Buongiorno, indigeno.
Badombe: Buongiorno, straniero.
A: Potrebbe dedicarmi parte della sua giornata per un'intervista sugli usi e costumi della sua gente?
B: Guarda, ho il tetto della capanna di fango da riparare, devo annaffiare le banane, e poi dopo mangiato devo andare a uccidere il mio rivale.
A: Ma è interessantissimo! La prego, si faccia intervistare.
B: Mmhh, e tu cosa mi dai?
A: Ho queste perline colorate.
B: ...
A: Va bene, ci ho provato. Che ne dice di questo machete?
B: Cos'è?
A: È fatto di acciaio e taglia benissimo, lo provi con quell'arbusto.
B: Caspita, in effetti è molto meglio degli attrezzi in pietra che uso di solito. Può essermi utile per estirpare le erbacce.
A: Allora mi concede un po' del suo tempo?
B: Ne voglio tre.
A: Facciamo due.
B: Affare fatto, cosa vuoi sapere?
A: Aspetti che accendo la videocamera...
B: NOOO! Sei uno stregone? Vuoi rubarmi l'anima?
A: Oops. Mi perdoni se ho urtato la sua sensibilità, non credevo fosse così grave.
B: Noi non ci facciamo mai riprendere né fotografare, MAI, è chiaro?
A: Chiarissimo, mi scusi ancora.
B: Altrimenti ti ammazzo. Che volevi sapere da me?
A: Prima ha parlato di uccidere qualcuno...
B: Vorrei vedere. Quello si è preso le banane del mio albero, con la scusa che i rami pendevano dalla sua parte di giardino.
A: Voi selvaggi siete disposti a uccidervi solo per una banana?
B: Ne va del mio onore.
A: Risolvete sempre così i vostri conflitti?
B: Certo, è la tradizione.
A: E non ha paura che sia lui a uccidere lei?
B: Paura io? Guarda che ora ti picchio.
A: No, la prego, non si offenda, sono molto affascinato da quel che racconta.
B: Dammi un altro machete.
A: Tenga.
B: Allora, se proprio ci tieni a saperlo, la mia morte è un'eventualità piuttosto remota.
A: Perché? Il suo rivale è un mingherlino?
B: No, è che in realtà ci diamo solo delle bastonate in testa, e il primo che sviene o si arrende perde. Di solito ce la caviamo con qualche livido.
A: Ma allora non muore mai nessuno?
B: Beh, ogni tanto ci scappa il morto.
A: Sì, ma ogni quanto capita?
B: Non saprei, perché non so contare oltre a tre.
A: E questi scontri avvengono spesso nel suo villaggio?
B: Ogni quarto di luna c'è almeno qualcuno che si picchia.
A: E per quali motivi?
B: Banane, donne, oppure per mancanza di rispetto dovuto a chi è più in alto nella gerarchia del villaggio.
A: E questa gerarchia come viene stabilita?
B: Dalle bastonate, mi sembra ovvio.
A: Quindi chi vuole essere rispettato deve farsi strada a furia di bastonate date al prossimo?
B: Non necessariamente, noi abbiamo un'alta considerazione anche per chi uccide i nemici del villaggio.
A: Quali nemici?
B: Quelli del villaggio vicino.
A: E perché sono vostri nemici?
B: Non lo so, so solo che ogni tanto loro vengono ad ammazzare noi, e ci rapiscono le donne, e noi andiamo ad ammazzare loro, e ci portiamo via le loro donne.
A: Ha ammazzato molti nemici?
B: Io? migliaia... sono un grande guerriero.
A: Ma prima non aveva detto di non saper contare?
B: Sì, perché? cosa ho detto?
A: Niente, ma mi sembra strano che lei abbia ucciso migliaia di persone da solo, quando un villaggio molto popoloso è abitato al massimo da un centinaio di persone, donne e bambini compresi.
B: Senti, ma tu cerchi guai? vuoi una bastonata in testa?
A: Aspetti, aspetti, prenda un altro machete.
B: Dammene due o ti bastono.
A: Tenga.
B: Ora va meglio. Beh, se proprio ci tieni a saperlo, non credo di aver mai ucciso nessuno.
A: Eh?
B: Noi andiamo al villaggio nemico fino a che non ci avvistano, poi diamo delle gran bastonate nel mucchio fino a quando non siamo troppo stanchi per continuare, poi raccogliamo i feriti e torniamo a casa. Capita che qualcuno rimanga per terra perché è morto, ma succede di rado, e poi nella confusione è difficile stabilire chi è che gli ha dato il colpo mortale.
A: E lei è convinto di non aver mai ucciso nessuno?
B: In confidenza, io di solito cerco di non esagerare nelle battaglie, perché non voglio mica farmi male.
A: Cosa intende?
B: Il mio avversario mi si piazza davanti col suo bastone, digrigna i denti e mi fa le boccacce, io digrigno i denti e faccio le boccacce, poi lo tocco appena col bastone e scappo via, oppure lui tocca me e scappa via. Ma se io cercassi di dargli una vera mazzata in testa, potrebbe arrabbiarsi, e allora chissà come andrebbe a finire.
A: Ma se nessuno ammazza nessuno, allora le gerarchie come vengono stabilite?
B: Dopo ogni scontro faccio un bel po' di tacche sul mio bastone e affermo che quello è il numero delle mie vittime.
A: Ma qualcuno non potrebbe contestare il conto?
B: Prima di tutto non sappiamo contare, poi in quel caso lo ammazz... bastonerei.
A: E le donne rapite?
B: Capita, ma in genere sono le donne che se ne vanno spontaneamente al villaggio accanto con qualcuno che le ha convinte con qualche banana e qualche parolina dolce, e poi usiamo questo pretesto per attaccare i nemici. Il fatto è che non abbiamo molte donne, e occorre tenersele strette.
A: Perché non avete molte donne?
B: Perché nessuno le vuole. Non sono capaci di nulla, nemmeno di combattere per difendere le donne del villaggio. Quindi siamo più contenti se nasce un maschio.
A: ... Qualcosa mi sfugge. Vorrei approfondire questa tematica.
B: Adesso no, ecco lì il mio rivale. Devo andare a ucciderlo.
A: Certo, certo, quando avete finito di "ammazzarvi" io l'aspetto qui.

(Dopo un minuto).

A: L'ha ammazzato davvero! Gli ha staccato la testa con un colpo di machete! Ma è terribile!
B: È proprio fantastico questo strumento. Senti, ne ho già cinque, e me ne servirebbero almeno altri cinque per arrivare a dieci e organizzare una spedizione al villaggio nemico.
A: Vedo che ha imparato a contare, però non saprei se è morale, e poi sto finendo la mia scorta di machete...
B: Visto che sei così curioso, ti racconterò in dettaglio tutte le mie abitudini sessuali, anche quelle più intime e perverse.
A: Mmhh, no, guardi, non mi interessa.
B: Allora ti lascerò filmare la carneficina.
A: Beh, certo che così potrei anche diventare famoso... mi hai convinto, andiamo a uccidere quei bastardi.

SCENA 2: la stessa jungla. Entrano Badombe e un missionario.

Missionario: Buongiorno, pagano.
Badombe: Niente da fare. Non ho bisogno di nessun machete.
M: Ma io vorrei...
B: Aria, aria, che oggi non ho tempo. Ho detto che non compro niente, dispongo già di un arsenale. Però se hai un fucile...
M: Non vendo armi.
B: Allora che vuoi?
M: Sono venuto a portare la parola di Dio, e a predicare la pace e la fratellanza!
B: E proprio qui dovevi venire?
M: Sì, perché mi risulta che voi siate uno dei popoli guerrieri più feroci e violenti che esistano, e io voglio cambiare la vostra natura.
B: Modestamente... ma chi mette in giro queste voci su di noi?
M: L'ho letto sul libro di un antropologo.
B: Già, mi sa che lo conosco quel tizio. È quello che ci ha venduto le armi: da quando è arrivato la nostra vita è un inferno.
M: Ah, sì?
B: Prima il peggio che potesse capitarmi era un bernoccolo in testa, adesso con tutti questi machete in circolazione rischio ogni giorno di ritrovarmi senza qualche arto.
M: Oh, mio Dio, povera creatura innocente!
B: Non esageriamo, in fondo è la vita di un guerriero.
M: Povere creature traviate e corrotte dal demonio capitalista!
B: Ehi... ti senti bene?
M: Ma non capisci, mio tenero amico, a quale perfido inganno sei stato sottoposto?
B: No, non ci capisco niente.
M: Voi eravate un popolo pacifico prima che quell'uomo bianco venisse a turbare la vostra serenità, non è vero?
B: Ma niente affatto! Passavamo il tempo a bastonarci.
M: Risolvevate i vostri conflitti in maniera rituale e simbolica senza spargimento di sangue.
B: Beh, non avevo mai considerato la faccenda sotto questa luce.
M: Voi, che non avevate neppure la capacità di contare e non avevate alcun bisogno di accumulare beni materiali...
B: Per forza, non so proprio che farmene di una capanna strapiena di banane che dopo qualche giorno vanno a male.
M: ...siete stati contaminati dalla brama del possesso, arrivata qui insieme ai beni della civiltà occidentale.
B: Certo che sei un tipo bizzarro, tu, e fai un sacco di discorsi strani.
M: Devo far sapere al mondo la verità, e tu verrai con me a raccontare la tua storia.
B: Ma non se ne parla nemmeno, ho da fare, qui!
M: Prima di tutto faremo causa all'antropologo, poi quando il governo verrà a sapere cosa vi è successo, dovrà stanziare dei fondi per risarcirvi, poi organizzeremo delle collette di solidarietà, ed è solo l'inizio... andremo nei talk show in prime time!
B: Non sono sicuro di aver capito, ma la cosa comincia a interessarmi.
M: Sto parlando di una pioggia di denaro, amico mio, e col denaro potrai comprare non solo tutti i fucili che vuoi, sempre che ne desideri ancora, ma potrai costruirti una casa di mattoni, con antenna parabolica per seguire le partite di calcio, e avrai una macchina sportiva con cui portare in giro le tue – cough – bionde amichette, e al posto delle solite banane potrai banchettare a caviale e champagne.
B: Non dico che la cosa non mi tenti, ma tu perché faresti questo per noi?
M: Come ho detto prima, è mio desiderio cambiare la vostra natura violenta, poi è un'ottima pubblicità per la nostra missione. Infine mi accontento di una percentuale.
B: Capisco. Allora sai che ti dico?
M: Cosa?
B: Che siamo soci. Abbasso la cività occidentale! Abbasso il capitalismo!
M: Sai, credo che questo sia l'inizio di una lunga amicizia.

(Si allontanano di spalle, sparendo nella fitta giungla).


Il nome Badombe è evidentemente un furto... spero che i congolesi non se la prenderanno.

sabato 20 settembre 2008

l'arcangelo portavoce

Nel caso che a qualcuno fosse sfuggita la notizia – nel silenzio che ha accompagnato l'agonia dei partitini una volta riuniti nella sciagurata sigla "Sinistra Arcobaleno" – i Verdi, archiviata l'esperienza di Alfonso Pecoraro Scanio, presidente dal 2001 al 2008, si sono dotati dal luglio scorso di un nuovo portavoce. La persona che è stata indicata, col 60% dei voti dei delegati al Congresso, per guidare la rinascita dei Verdi e per dirigere il partito verso l'appuntamento elettorale europeo del 2009, doveva avere delle caratteristiche straordinarie, vista la terribile difficoltà del compito, direi addirittura sovrumane: forse per questa ragione la scelta è caduta niente po' di meno che sull'arcangelo Michele.

E non sto mica scherzando.

domenica 14 settembre 2008

feticci: Vandana Shiva

Narra la leggenda che quando Vandana Shiva venne al mondo, il 5 novembre del 1952 ai piedi delle pendici himalayane, cominciò subito a parlare: le sue prime parole furono di rimprovero alla madre, che durante la gravidanza si era svegliata nel cuore della notte con una gran voglia di bere una lattina di Coca-Cola. “Questa bevanda non è autoctona!”, esclamò la neonata, “hai permesso che il latte del tuo seno ne venga contaminato, e per questo sarai maledetta per l’eternità”. Poi si rizzò in piedi e prese a camminare, e ovunque posasse i suoi piedini si materializzava un piatto di riso basmati al curry con pollo e verdure, agnello con salsa di yogurt e mandorle, lassi al pistacchio, e tè al cardamomo. “Da ora in poi ci nutriremo di questo”, comandò, e in quel momento assunse le opulente forme che da allora ha sempre conservato, in modo che tutti riconoscessero in lei Durga, la dea guerriera. Ingurgitato il tutto, la dea lasciò andare un poderoso rutto che fece tremare le pareti della casa, e quindi pronunciò la sua prima profezia: “la prossima guerra sarà per l’acqua”.

Non che la madre fosse meno rigorosa, quanto a principi: quando Vandana aveva la tenera età di tredici anni tornò a casa da scuola chiedendo di avere vestiti di nylon, come la sua ricca compagna di banco, al posto del cotone indigeno: “se davvero lo vuoi lo avrai”, rispose la madre, “ma ricorda che il tuo nylon aiuterà un uomo ricco a comprarsi una macchina più grossa, mentre il cotone che indossi ora garantirà almeno un pasto a una famiglia povera”. Non si capisce bene se per la madre fosse più importante evitare la prima opzione oppure favorire la seconda, dato che non si intravede una incompatibilità fra le due, ma è inutile dire che l’adolescente viziata rinsavì e non chiese mai più quel nylon. Se oggi c’è un miliardario in meno che scorrazza e inquina l’ambiente col suo macchinone, lo dobbiamo quindi alla lungimiranza di sua madre.

Tutta vestita di cotone (autoctono) la giovane Vandana partì per il Canada per studiare la fisica quantistica: qui apprese il principio di indeterminazione di Heisenberg, la natura intrinsecamente probabilistica della realtà, e l’importanza dell’osservatore nel determinare i risultati di un esperimento. Questo la aiutò a comprendere il falso determinismo dei modelli economici correnti. È ad esempio un trito luogo comune degli economisti che essere poveri, affamati, e privi di libertà di scelta sia una cosa che è meglio evitare. Per Vandana invece tutto è relativo all’ente dal quale dipendi per il tuo sostentamento: essere soggetti alla tirannia della natura è bene, anche in periodi di carestia, ma fare affidamento sul mercato, artificiosa e diabolica costrizione, è male. Dai suoi studi universitari la grassa dea trasse anche un’invincibile avversione nei confronti di tutto ciò che è scienza e progresso.

Ebbe una conferma di queste sue idee, ispirate anche dagli insegnamenti degli antichi Veda, quando dopo gli studi tornò alle natie terre himalayane. Narra ancora una volta la leggenda che appena tornata ebbe una visione: un uomo alto, pelato, e dall’aspetto di un grosso scimmione (sicuramente un’incarnazione del dio Hanumanji) gli apparve, e quest’uomo cantava una strana canzone:

Là dove c’era l’erba ora c’è una città
e quella casa in mezzo al verde ormai
dove sarà? ah ah ah
Eh no
non so, non so
perché continuano
a costruire
le case
e non lasciano l'erba,
non lasciano l'erba,
non lasciano l'erba,
non lasciano l'erba,
la la la la...


Colpita dal degrado della sua patria, decise di dedicare il resto della sua vita alla causa e al sostegno della povertà, unendola alla causa per la difesa della biodiversità. I poveri sono infatti una razza in via di estinzione: ce ne sono sempre meno, specie in India, e ne consegue quindi che bisogna fare tutto il possibile per preservarne il numero, se non aumentarlo. In questo Vandana Shiva dimostrava anche una notevole dose di altruismo: ella infatti povera non era e non lo era mai stata, quindi non si può dubitare del fatto che la sua lotta fosse del tutto disinteressata.

L’India è una delle regioni al mondo maggiormente colpite dalla carenza di vitamina A, che può portare alla cecità totale e alla morte, in conseguenza della dieta, scarsa in nutrienti essenziali, di molti poveri. Nel 2000 venne annunciata la messa a punto di una nuova varietà di riso geneticamente modificato che conteneva modeste quantità di beta-carotene – precursore della vitamina – il golden rice. Preoccupatissima, Vandana Shiva subito scrisse che questa nuova varietà di riso avrebbe causato seri danni alla salute delle popolazioni alle quali era destinato, provocando una gravissima epidemia di iper-vitaminosi. La grande scienziata non sapeva distinguere fra la vitamina (tossica se assunta in eccessive quantità) e il precursore della vitamina. Non appena si rese conto della cantonata, la dea riuscì a realizzare, fra lo stupore generale, una incredibile manovra di ribaltamento completo della sua precedente posizione, affermando stavolta che il golden rice era una “bufala”, in quanto la quantità di beta-carotene che si poteva assumere in tal modo era molto lontana dalla razione giornaliera raccomandata (non paga del fatto che anche tali modeste razioni potevano costituire la differenza fra la vita e la morte). Eseguì la manovra con tale abilità che nessuno dei suoi seguaci se ne accorse. Ma allora, gli venne chiesto, come si potrebbe risolvere il problema della ipovitaminosi? Stavolta alla dea borghese e cicciona venne in aiuto il fantasma di Maria Antonietta (quella delle brioches) e presa da un raptus mistico esclamò: “fegato, tuorlo d’uovo, pollo, carne, latte e burro” (raccomandati soprattutto per una popolazione, oltre che povera, in larghissima parte vegetariana).

Ma queste sono sottigliezze: in realtà la soluzione proposta aveva l’insanabile difetto di essere “biotecnologica”, quindi compiuta in violazione di ciò che la Grande Madre Terra ha già stabilito per noi dalla notte dei tempi. Di più: le biotecnologie provengono tutte dall’Occidente, quindi non sono “autoctone”. E tutti sanno che l’unico interesse degli Occidentali, da sempre, è quello di diventare ricchi sfruttando i poveri del Terzo Mondo. La dimostrazione è presto fatta: se un Occidentale ti offre soldi per fare un lavoro, tu Asiatico dovrai rifiutarli. Infatti per quanto quei soldi migliorino la tua condizione e ti permettano di comprarti da mangiare, va tenuto presente che offrendo il tuo lavoro andrai ad arricchire ancora di più l’Occidentale. In questo modo quindi il divario fra Oriente ed Occidente aumenterà, e anche se a te sembrerà di essere diventato più ricco in termini assoluti (deterministici), in termini relativi sarai invece più povero di prima. Q.E.D. (elettrodinamica quantistica).

Di più: si tratta di un approccio tutto “maschile” ai problemi dell’ambiente, mentre invece la nostra dea si batte per l“ecofemminismo” contro l’appropriazione maschilista della terra e della riproduzione. Le moderne tecnologie “stuprano” il suolo costringendolo a cicli estenuanti, mentre invece il suolo dovrebbe avere la libertà di produrre come e quando vuole: si dice che Vandana abbia anche in mente un referendum per garantire alla terra il diritto di abortire i suoi frutti, e di divorzio dall’agricoltore che non la tratti col dovuto rispetto (ad esempio nel caso in cui questi usi il vomero con eccessiva brutalità, o sia troppo veloce nell’operazione dell’aratura). In quest’ultimo caso l’agricoltore oltre ad abbandonare la terra dovrà anche impegnarsi a restituirle gli “alimenti” vita natural durante.

Si vede che anche nella società rurale indiana il pensiero maschilista è oggi predominante, perché la maggior parte degli agricoltori indiani continua a volgere le spalle alla dea e a non darle retta, andando così incontro alla loro rovina. Costoro si ostinano a non affidarsi alle ricette delle nonne e delle trisavole, e scelgono, autonomamente e criminosamente, di coltivare sementi geneticamente modificate. Non solo, ma questi mattacchioni di contadini, che non se la sentono di spaccarsi la schiena per raccogliere le erbacce e di regalare metà del loro raccolto ai parassiti, si passano tra loro le sementi OGM senza dare nemmeno un soldo alle multinazionali, così come i ragazzini occidentali si passano tra loro le copie piratate dell’ultimo sparatutto. Urgono provvedimenti. Non crederanno, i contadini indiani, di poter decidere da soli cosa è meglio per loro?

La dea ha anche il dono dell’ubiquità: se organizzate un Social Forum a Porto Alegre, una degustazione di vini locali e formaggi autoctoni a Montalcino, e un talk show televisivo sui problemi dell’ambiente a Roma, tutti nello stesso giorno, state certi che lei riuscirà ad essere presente a tutti gli eventi (eventualmente attardandosi un po’ nella degustazione). Solo una volta non riuscì ad essere presente ad un evento che la riguardava da vicino: è quando nel 2002 a Johannesburg, nel corso del Summit mondiale per lo sviluppo sostenibile, le venne conferito il “Bullshit Award for Sustaining Poverty”. Peccato, perché il trofeo era tale che avrebbe dovuto riscuotere il suo apprezzamento: una placca con montato sopra un grande stronzo di vacca, simbolo delle tecniche agricole da lei favorite.

mercoledì 10 settembre 2008

le metafore del cancro


Fra le tante idiozie che girano in rete, ci sono anche i rimedi alternativi contro il tumore: chi assicura che il bicarbonato fa miracoli, chi dice che basta la vitamina C, chi sostiene invece la causa della vitamina B17, chi la cartilagine di squalo.... Meritano forse una menzione particolare le teorie, piuttosto popolari ultimamente fra le correnti della contro-informazione, del "dottor" Ryke Geerd Hamer.

Le ridicole teorie di Hamer, che attribuiscono ai "traumi emotivi" irrisolti le cause del cancro (e la cui terapia consiste nella "risoluzione del conflitto"), rappresentano in fondo la versione più elaborata (e truffaldina) di un certo sentire comune secondo cui il cancro non è semplicemente una disgrazia che ti può accadere, volente o nolente, senza che tu possa farci nulla, ma è tutta una questione di "karma": il cancro è qualcosa che ti sei cercato, o hai in qualche modo meritato. Le teorie psicogenetiche intorno alle malattie, indipendentemente dall'evidenza scientifica, trovano terreno fertile fra i creduloni perché sono purtroppo radicate nel nostro immaginario, e persino nel nostro modo di parlare.
Se ne era accorta Susan Sontag, che nel 1978 (dopo che le era stato diagnosticato un tumore) scrisse un bellissimo pamphlet dal titolo Malattia come metafora, e nel quale protestava proprio contro questo accumularsi di metafore e significati intorno al concetto di malattia, nella convinzione che chi finiva per ammalarsi non ne veniva certo aiutato. La Sontag se la prendeva ad esempio con la visione popolare del cancro come "valvola di sfogo" dei nostri vissuti emotivi troppo interiorizzati: la teoria secondo la quale a furia di tenersi tutto dentro, in sostanza, alla fine il veleno che abbiamo accumulato dentro di noi finisce per esplodere in qualche modo.

La malattia è sostanzialmente considerata un avvenimento psicologico e le persone vengono incoraggiate a credere che si ammalano perché (inconsciamente) lo vogliono, che possono curarsi mobilitando la loro volontà e scegliere di non morire a causa di una malattia. [...] Le teorie psicologiche della malattia sono un mezzo potente per attribuire la responsabilità al malato. I pazienti a cui s'insegna di avere, involontariamente, causato la propria malattia vengono anche costretti a credere di essersela meritata.


Forse in pochi sarebbero così indelicati (tranne i tipi alla Hamer) da andare a dire questo in termini espliciti a chi ha la disgrazia di essere malato, ma come dovrebbe sentirsi un malato terminale quando sente lodare pubblicamente una certa persona come un esempio da seguire perché "è riuscito a vincere la sua battaglia contro il cancro"? Ricordo ad esempio che il nostro amato Presidente del Consiglio ebbe l'ardire, nel 2001, di utilizzare la propria malattia come strumento di propaganda elettorale. Se chi sconfigge il cancro è un eroe, chi non ci riesce che cos'è?

Per la precisione, Berlusconi parlò per la prima volta della sua malattia di fronte ad una comunità di ex-tossicodipendenti:

gli ho detto: 'Sapete, tempo fa ho avuto un cancro. Potete immaginare come stavo. Ho vissuto mesi da incubo. Però non mi sono abbattuto e li ho superati con volontà'. Volevo far capire a quei ragazzi che bisogna avere coraggio, che anche da un male si può uscire, se si ritrovano energia e determinazione. Che si può tornare alla vita. Da ogni male, gli ho detto, bisogna saper venir fuori facendo nascere un nuovo bene, nuove energie.


http://www.repubblica.it/online/politica/malattia/parla/parla.html

Quindi morire di tumore è la stessa cosa che arrendersi alla tossico-dipendenza? È tutta una questione di volontà, energia e determinazione? A me non sembra un messaggio troppo edificante.

Continuiamo a leggere la Sontag, perché le metafore del cancro non si limitano alla sua psicologizzazione, ma hanno un impiego ben ampio nel discorso quotidiano, anche quello politico:

Le moderne metafore delle malattie sono troppo facili. Le persone che in realtà ne soffrono non vengono certo aiutate dal sentire in continuazione che il nome della loro malattia è citato come epitome del male. Solo in un’accezione molto limitata un evento o un problema storico è simile a una malattia. E la metafora del cancro è particolarmente grossolana. E’ invariabilmente un incoraggiamento a semplificare ciò che è complesso e un invito alla ipocrisia, se non al fanatismo.


L'esempio migliore di questo tipo di fanatismo potrebbe essere offerto, ironicamente, dalla stessa Sontag, che anni prima aveva scritto che "l'uomo bianco è il cancro della storia" (affermazione molto stupida, per tanti motivi).
Potete anche divertirvi a usare Google inserendo la parola "cancro" seguita da qualsiasi altro termine che rimanda a concetti controversi (cancro e islam, cancro e comunismo, cancro e razzismo, cancro e Israele, e via dicendo) vedendo cosa ne viene fuori. Nel suo uso metaforico il cancro è un qualcosa da estirpare, senza pietà, prima che contamini tutto il resto, è un nemico che cresce all'interno del corpo (la società, la famiglia) che intende distruggere: si tratta in effetti di un modo di parlare che invita all'intolleranza.

Le metafore sono componenti essenziali del nostro linguaggio, e forse sarebbe un eccesso di correttezza politica chiedere di limitarne l'uso, seppure in relazione a una cosa seria come il tumore. Ma l'importante è non lasciarsi trascinare dalle metafore, le quali tendono a suggerire un certo ordine di pensieri, e soprattutto quando cercano di imporre un significato a qualcosa che non ne ha. Poiché questa è la realtà più difficile da accettare: non è detto che la malattia abbia un senso che noi possiamo capire, per quanto ci sforziamo di trovarne uno. È solo Madre Natura che a volte ci combina dei brutti scherzi, come gli uragani, i terremoti, e il cancro.

Il senso fasullo, naturalmente, lo si può trovare anche attribuendo colpe immaginarie: quando non si dà la colpa a se stessi, la si dà alla società, al "sistema", alla medicina ufficiale corrotta e assassina, che copre con le sue malefatte i danni della chemioterapia e nasconde le prove dell'efficacia delle terapie alternative.

Me è inevitabile, su questa china, scivolare nell'ipocrisia. Dice la Sontag: "Niente è più punitivo del dare significato a una malattia, essendo tale significato invariabilmente moralistico".

martedì 2 settembre 2008

la favola di Napoleone

Se dovessimo analizzare ogni evento storico del passato con gli stessi metodi con i quali i complottisti amano discutere degli eventi di storia contemporanea, cosa ne verrebbe fuori?
Non credo di essere il primo a farmi questa domanda: in fin dei conti eventi come gli attentati dell’11 settembre sono non solo recenti, e quindi meno sbiaditi nel ricordo, ma sono anche accaduti sotto il naso di migliaia di persone, sono stati ripresi dalle telecamere, e quelle immagini sono state mostrate in tutto il mondo fino alla nausea. Insomma, se qualcuno arriva a dubitare che le Torri Gemelle siano state abbattute dagli aerei, nonostante abbia visto gli aerei colpirle, e nonostante le cause dei crolli siano state indagate e certificate da uno stuolo di esperti, perché allora quel qualcuno non dovrebbe anche dubitare di eventi per i quali non disponiamo di una documentazione così ampia?
Ad esempio, chi ci dice che Napoleone sia mai esistito? Voi l’avete visto Napoleone? Possiamo dire di avere in mano una qualche prova concreta della sua esistenza? Ci sono dei documenti che ne parlano, d’accordo, ma come possiamo sapere che ci raccontano la verità? Ma soprattutto, e a ben guardare, vi sembra credibile la storia di un signor nessuno nato in Corsica che arriva a conquistare tutta l’Europa e a diventare Imperatore della Francia?
Beh, si dà il caso che qualcuno ha davvero messo in dubbio l’effettiva esistenza storica di Napoleone Bonaparte, e ha cercato di dimostrarlo, solo che non si tratta di uno svitato complottista dei nostri giorni. L’Imperatore inesistente è un libro pubblicato diversi anni fa da Sellerio, che riunisce tre scritti di diversi autori del XIX secolo, che hanno appunto in comune il fatto di negare che Napoleone sia mai esistito.

I tre signori si chiamano Jean-Baptiste Pérès, Richard Whately, e Aristarchus Newlight. Il primo di questi scrisse il suo opuscolo nel 1827, col titolo Comme quoi Napoléon n'a jamais existé, grand erratum, source d'un nombre infini d'errata à noter dans l'histoire du XIX siècle (abbreviato in Grand erratum). Chi conosce il francese può leggerlo qui.
Pérès “dimostra” che Napoleone non può essere un personaggio in carne e ossa, in quanto non si tratta altro che di un’allegoria del Sole, una reincarnazione del mito di Apollo (Neo-Apoleon), e lo prova appunto mostrando come tutte le affermazioni relative a Napoleone siano in realtà tratte dal mito solare. Ad esempio: è nato in un’isola del Mediterraneo (come Apollo nel mito), sua madre si chiamava Letizia (la madre di Apollo era Leto), aveva tre sorelle (le sorelle di Apollo erano le Grazie), e così via di simbolo in simbolo.

Il testo di Richard Whately, Historic Doubts Relative to Napoleon Buonaparte, è del 1819 (il presunto Napoleone era ancora vivo). Scaricabile qui.
Più che sulla simbologia napoleonica, Whately si concentra sulla inverosimiglianza, a priori, della vicenda che lo riguarda: quest’uomo, venuto dal nulla, si sarebbe auto-incoronato e avrebbe governato la Francia, avrebbe messo sotto scacco un intero continente nazione dopo nazione, sarebbe poi stato sconfitto in seguito alla campagna di Russia ed esiliato in un’isola del Mediterraneo, per poi risorgere miracolosamente e terrorizzare da capo l’Europa, per essere infine nuovamente esiliato in una lontanissima isola dell’Oceano Atlantico, dove avrebbe trovato la sua morte. I fatti narrati, ci dice Whately, sono così incredibili che nemmeno quelli che dicono di avervi assistito sembrano crederci fino in fondo: infatti essi spesso cominciano le loro narrazioni con frasi del tipo “Nemmeno io ci crederei, se non l’avessi visto con i miei occhi”. Ma, dato che non l’abbiamo visto con i nostri occhi, quale ragione abbiamo noi per crederci? Whately insiste sul fatto che quando l’evento narrato ha del miracoloso, allora nessuna testimonianza che lo riporta può essere considerata degna di fede, a meno che il fatto che il testimone non sia sincero o si sbagli non sia un evento ancora più miracoloso (ma quale testimone può ambire a questo grado di affidabilità?).
Inoltre i resoconti che noi abbiamo sono raramente di prima mano. Pochi dei contemporanei di Napoleone potevano affermare davvero di averlo visto (e molti di questi potevano dire di aver visto, al massimo, un uomo da lontano con un buffo cappello in testa), mentre la nostra conoscenza di Napoleone si fonda in realtà su resoconti di persone che hanno sentito raccontare da altri che hanno sentito raccontare da altri... che avrebbero visto Napoleone in azione. La lunga catena delle testimonianze, ognuna delle quali è una possibile fonte di inquinamento della verità, unita all’implausibilità a priori della vicenda, rende la probabilità che gli eventi riferiti a Napoleone siano veri prossima a zero.

Aristarchus Newlight (pseudonimo di William Fitzgerald, e che leggo essere stato il segretario di Whately), infine, scrive le sue Historic certainties respecting the Early History of America, developed in a critical examination of the book of the chronicles of the land of Ecnarf, nel 1851. Si può scaricare qui (grazie, Google!).
Nella sua argomentazione Newlight combina in un certo senso l’approccio di Pérès sulla simbologia e quello di Whately fondato sulla inattendibilità dei testimoni, ma sotto una diversa sfumatura: egli infatti indaga anche il cui bono, i moventi per cui una simile e stravagante storia è stata messa in circolazione, e mostra appunto come i principali attori della scena politica del tempo (appena mascherati sotto i nomi di ECNARF e NIATIRB) avessero tutto l’interesse a creare dal nulla un simile personaggio e darlo in pasto all’opinione pubblica (primo inganno globale mediatico della storia?).

Come si vede, si potrebbero individuare molte analogie fra uno dei pamphlet qui menzionati, e un odierno libello complottista (o anche negazionista), e una certa somiglianza di argomentazioni. Salta all’occhio, però, anche una enorme differenza: queste tre opere sono delle parodie, sono scritte con intenti evidentemente satirici.
L’intento di Pérès era ridicolizzare l’opera di Jean-François Dupuis, Origine de tous les Cultes, ou la Réligion Universelle (1795), secondo cui tutte le religioni (compresa quella cristiana), derivano da un immaginario mitico comune (e che quindi metteva in dubbio l’esistenza del Cristo storico – un antenato di Luigi Cascioli).
Il bersaglio di Whately era niente po’ di meno che lo scettico David Hume e il suo Saggio sui miracoli, e intendeva mostrare come il tipo di scetticismo applicato da Hume alle asserzioni di fede avrebbe dovuto condurre persino a negare l’esistenza di Napoleone.
Newlight, infine, ce l’aveva con la Vita di Gesù di David Strauss, e con la sua lettura critico-razionalista dei Vangeli.

I complottisti e i negazionisti, invece, riescono solo a produrre caricature involontarie della ricerca scientifica.