mercoledì 17 settembre 2014

l'ingenuità della fisica

Pare che esista una maggioranza di persone che, alla domanda "se due oggetti di massa diversa vengono lasciati cadere dalla medesima altezza, quale arriva al suolo per primo?", rispondono che il più pesante arriva prima. Questo potrebbe essere liquidato semplicemente come il frutto dell'ignoranza generalizzata e della scarsa qualità delle nostre scuole (anche se credo che il dato sia internazionale) e quindi occasione per l'ennesimo lamento e invocazione sulla necessità di elevare il popolo alla comprensione delle nozioni di fisica almeno più semplici. 

Credo che in realtà sarebbe un'occasione sprecata, usare il dato in questa maniera, quando potrebbe costituire lo spunto per riflessioni ben più interessanti. Vorrei tralasciare il fatto che di recente mi sono trovato coinvolto in una sgradevole discussione, nel mio social network di riferimento, solo per averci provato, sperando che il blog sia uno spazio più appropriato. In ogni caso può essere una piacevole digressione in attesa di ulteriori ricerche sui temi che ultimamente mi stanno più a cuore. 

Intanto credo che siano davvero in pochi, fra quelli che sanno che i due oggetti dovrebbero arrivare insieme a comprendere davvero quali siano le forze fisiche in gioco (e posso mettermici anch'io, dopo tutto ho studiato altro): nella stragrande maggioranza dei casi si tratta semplicemente di una nozione appresa e assimilata senza rifletterci davvero. Anzi, la verità è che più ci si riflette e più è probabile sbagliare: non è forse vero, per la legge di gravitazione universale di Newton, che la forza esercitata dal campo gravitazionale terrestre è direttamente proporzionale alla massa dell'oggetto in caduta? e non è forse vero, per il secondo principio della dinamica, che l'accelerazione è direttamente proporzionale alla forza? 

Altra doverosa osservazione, e che spiega il condizionale di cui sopra, è che nella vita di tutti i giorni noi sperimentiamo innumerevoli eccezioni o "violazioni" alla legge fisica in questione. Per riuscire a osservare davvero una piuma che cade alla stessa velocità di un martello dovremmo fare come l'astronauta di questo video, e recarci sulla Luna, o almeno in una stanza in cui è stato fatto il vuoto. È vero che almeno gli oggetti della stessa forma e dimensione dovrebbero offrire la stessa resistenza all'aria (trascurando il principio di Archimede data la scarsa densità dell'aria) ma anche così il condizionale non si può togliere. Se faccio cadere una sfera di polistirolo da un grattacielo è abbastanza plausibile che il vento me la porti via e non riesca nemmeno a ritrovarla (senza contare che l'oggetto più leggero raggiungerà la velocità terminale prima di quello più pesante). 

Osservazioni simili si possono fare anche per altre note leggi fisiche. Gettate un mozzicone di sigaretta dal finestrino di un treno in corsa, e si verificheranno due curiose conseguenze:  vedrete il mozzicone schizzare all'indietro, nella direzione contraria al treno (ok, non è proprio quello che vedrete succedere, è quello che avrete l'impressione di vedere), e inoltre prenderete una multa dal controllore. Questo forse spiega come mai esiste anche una maggioranza di persone che risponde erroneamente al seguente quiz. Per la precisione, il 49% delle persone interrogate secondo un esperimento avrebbe dato la risposta B mentre un 6% un veramente bizzarro A, cosa che tenderei a spiegare appunto come un errore di percezione.  


Il curioso incidente è che forse per un mio difetto di comunicazione quando ho fatto queste osservazioni che intendevano solo giustificare la percezione dell'uomo comune sono state scambiate per un attacco alla persona e alla dignità di Galileo, o addirittura per una manifestazione di scetticismo nei confronti delle sue scoperte. In realtà mi sembra pacifico che il modo migliore di omaggiare il genio di Galileo sia proprio quello di mostrare come le sue scoperte fossero tutt'altro che ovvie, proprio perché non facilmente e non direttamente osservabili, o addirittura controintuitive, contrarie al senso comune. 

Le componenti fondamentali del metodo scientifico secondo un famoso passo di Galileo sono le "sensate esperienze" (ovvero le esperienze fatte con i sensi) e le "necessarie dimostrazioni" (ovvero il rigore logico-matematico applicato al materiale dei sensi) ma con "sensate esperienze" potremmo anche intendere, più modernamente, esperienze fatte non a casaccio, ovvero quelli che oggi chiameremmo esperimenti. La grande lezione di Galileo è che la natura non rivela da sé i propri segreti, ma ha da essere inquisita, interrogata, torturata, e che se non la maltrattiamo in questo modo essa continuerà ad ingannarci. Non possiamo limitarci a tenere gli occhi aperti, occorre indagare attivamente e persino, se occorre, avere il coraggio di mettere in dubbio quello che vediamo o crediamo di vedere. Le necessarie dimostrazioni, in effetti, sono necessarie proprio per rimediare ai difetti della realtà, sempre imperfetta, il cui attrito se non eliminato con un gesto di eroico idealismo impedirebbe di formulare leggi matematicamente eleganti, prive di 'rumore'. 

Se è innegabile che Galileo abbia compiuto tanti esperimenti sulle sfere che scivolano lungo piani inclinati scoprendo che cadono con una accelerazione costante (e indipendente dalla massa) occorre anche riconoscere che in gran parte le sue scoperte dipendono molto più dalla sua fantasia che dall'osservazione vera e propria. Ad esempio, è interessante il fatto che nel trattare la questione della caduta dei gravi, nei Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze, Salviati riesce infine a smuovere le convinzioni di Simplicio grazie a un ragionamento altamente speculativo: se noi prendiamo due sfere, una più pesante e una più leggera, e le leghiamo con una corda lasciandole infine cadere, cosa dovrebbe succedere? Se fosse vero che l'accelerazione dipende dalla massa abbiamo una specie di antinomia. Da un lato infatti dovremmo attenderci che l'oggetto più leggero 'freni' la caduta di quello più pesante mentre quello più pesante dovrebbe 'tirare' il più leggero, ottenendo una velocità intermedia. D'altra parte i due oggetti insieme hanno evidentemente una massa maggiore di ciascuno di essi presi singolarmente, e quindi la caduta dovrebbe essere più veloce. L'unico modo per uscire dalla contraddizione sembra essere quello di ammettere che l'accelerazione non dipende dalla massa. 

Per quanto riguarda la scoperta della relatività del moto rispetto al sistema di riferimento, principio indispensabile per argomentare in favore della teoria eliocentrica (se è vero che è la terra a muoversi su se stessa e intorno al sole, com'è che non ce ne accorgiamo?), è in realtà difficile immaginare come ai tempi di Galileo potesse essere scientificamente dimostrata, piuttosto che presupposta appunto come necessaria ipotesi ad hoc. Galileo peraltro arriva alla scoperta del moto inerziale sempre grazie ai piani inclinati, ma estendendo al regno del non osservato e non osservabile quello che è già stato sperimentato: se grazie ai piani inclinati possiamo osservare una costante accelerazione che decresce al diminuire dell'inclinazione, è ragionevole assumere che con un piano ad inclinazione zero anche l'accelerazione sarà nulla, ovvero che la velocità sarà costante, il che significa che un corpo in moto lungo di esso, in assenza di attrito, continuerà a muoversi all'infinito finché non troverà una forza contraria. 

È infine lo stesso Galileo ad ammettere di non aver mai sottoposto a verifica sperimentale il principio della relatività del moto, ricorrendo piuttosto e di nuovo ad un esperimento mentale, quello, famoso, del gran naviglio: "Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d'aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d'acqua, e dentrovi de' pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell'acqua in un altro vaso di angusta bocca...". Un esperimento simile venne effettuato solo una decina di anni dopo la pubblicazione del Dialogo da Gassendi, che fece cadere una pietra dall'albero di una nave in movimento. Possiamo però dubitare dell'accuratezza della misura dell'accelerazione della nave nonché del controllo delle forze che agiscono rispettivamente sulla nave e sulla pietra in caduta. 

Ci si potrebbe anche chiedere, comunque, per quale motivo la natura è così restia a svelarsi. Perché ci è voluto così tanto tempo prima che Galileo scoprisse il modo in cui cadono i gravi? In fondo la teoria per cui la velocità di caduta è proporzionale al peso sembrerebbe facilmente falsificabile. Di solito si invocano spiegazioni storico-culturali, ovvero la persistente influenza ed egemonia dell'aristotelismo. La spiegazione, benché quasi sicuramente corretta, è altrettanto sicuramente incompleta o almeno elusiva, visto che resterebbe da spiegare appunto la persistenza dell'aristotelismo. Non potrebbe essere, allora, che le teorie aristoteliche ben si adattino a certe aspettative psicologiche innate? Che il loro successo millenario sia dovuto proprio alla loro corrispondenza non con la natura ma con la teoria fisica già programmata nel nostro cervello? Sembrerebbe questa almeno per ora la direzione in cui conducono le ricerche di quel filone della scienza cognitiva che è lo studio della naïve physics, o anche intuitive physics, in italiano fisica ingenua (filone del quale proprio un italiano, Paolo Bozzi, è stato un brillante precursore). 

Si tratta di un filone poco speculativo e assai empirico (potremmo anche chiamarlo "fenomenologia sperimentale") basato com'è sulle risposte comportamentali che i soggetti, talvolta i bambini in età prescolare, danno in certe situazioni controllate in laboratorio. Potremmo chiedere ad esempio a una persona di disegnare quella che secondo lei è la traiettoria più naturale di un certo oggetto o farla scegliere fra diverse simulazioni computerizzate, dove i parametri della velocità e dell'accelerazione sono sotto accurato controllo. Quello che ne emerge è appunto che le aspettative dell'uomo comune (per non parlare dei bambini) rispetto al comportamento degli oggetti fisici intorno a lui sono modellate secondo una metafisica, uno schema concettuale, in gran parte aristotelici, o che rispecchiano la teoria medievale dell'impetus. Secondo questa teoria, che del resto costituisce un'approssimazione tutto sommato corretta dei fenomeni osservabili sulla superficie terrestre, a un oggetto è impressa una certa forza, o impeto, da un soggetto agente (come colui che lancia la pietra), e l'oggetto si fermerà solo una volta dissipato, col tempo, l'impeto iniziale (in modo simile alla batteria di un cellulare). 

Vale la pena sottolineare, qui, l'importanza della rivoluzione concettuale operata da Galileo, che ha cambiato la stessa struttura ontologica del mondo. Galileo non ha semplicemente fornito risposte giuste a vecchie domande, ma prima di tutto ha cambiato la domanda. Il giusto quesito, quello che occorre spiegare nel mondo post-galileiano, non è perché gli oggetti persistano nel loro moto, ma perché accelerano o decelerano ed eventualmente si arrestano. Il moto rettilineo uniforme è un non evento, o meglio non è distinguibile in assoluto dall'assenza di moto, dipendendo dal sistema di riferimento, e come tale non richiede spiegazioni o impeti di sorta. Peccato solo che questo non sembri essere il modo nel quale siamo programmati a pensare. 

La stessa circostanza d'altra parte potrebbe essere verificata in altra maniera, ovvero analizzando la struttura profonda del nostro linguaggio. Potremmo non essere piú sorpresi della difficoltà nell'assimilare concetti fisici neanche troppo astrusi (dopo tutto non stiamo parlando di fisica quantistica coi suoi paradossi davvero sconcertanti) quando si riconosca che tali concetti sono espressi in un linguaggio che non è pronto ad accoglierli, che sottende una metafisica di tutt'altro tipo. È abbastanza sorprendente in realtà che la nostra mente riesca ad emanciparsi dalle sue categorie inscritte. 

Secondo Leonard Talmy noi concettualizziamo gli oggetti come ricadenti in due grandi gruppi, che sono come i personaggi di un dramma dalle possibilità di intreccio piuttosto limitate: da una parte stanno gli agonisti, con la loro intrinseca tendenza a muoversi oppure al riposo, dall'altra gli antagonisti, che si oppongono alla tendenza degli agonisti impedendone l'azione o il riposo, oppure li aiutano o ne permettono l'azione. La semantica dei verbi rispecchia le possibili varianti dell'intreccio: ci sono verbi che esprimono direttamente causalità (causare, produrre, fare che, determinare ecc.), alcuni dei quali incorporano la natura dell'effetto (lanciare, sciogliere, colorare ecc.). Ci sono poi verbi che esprimono impedimento (prevenire, impedire, arrestare, fermare, bloccare ecc.) e altri che esprimono il contrario dell'impedimento (cioè permettere, lasciare che, concedere, aiutare, ecc.). Le categorie espresse da questi verbi e il modo in cui vengono costruite le frasi sono il prodotto di un preciso modello mentale, una sorta di teoria innata della causalità, come si diceva, trasversale alle varie lingue parlate nel mondo. La tendenza della mente a identificare un prototipico antagonista che agisce su un agonista passivo si riflette ad esempio nel nostro modo di costruire enunciati controfattuali, nei quali fra le molteplici condizioni necessarie al succedersi di un evento ne viene privilegiata una sola. 

Nella fisica post-galileiana, a differenza che nel linguaggio, ad ogni azione corrisponde una reazione, e nessuno degli oggetti interagenti viene privilegiato o isolato. Nel linguaggio corrente, a differenza che nella fisica, un oggetto ha una intrinseca tendenza al riposo o al movimento, senza una terza alternativa. Nel linguaggio corrente, quasi animistico, concepiamo antagonisti e agonisti come perdenti o vittoriosi in un sorta di braccio di ferro dove alla fine uno dei due ha la meglio, mentre nella fisica azione e reazione sono sempre uguali. Nella fisica, infine, le cause o le condizioni sono tutte uguali e le  cose succedono senza che vi sia la distinzione che il linguaggio opera fra "permettere", "impedire", "aiutare" eccetera. Anche il linguaggio sembra insomma cospirare nel suggerire una teoria simile a quella dell'impeto, dove gli oggetti hanno la loro intrinseca forza traente con altri oggetti che la possono bloccare o favorire. 

Per concludere, credo che le morali della storia siano due. Una è che non dovremmo mai sentirci superiori a qualcuno in virtù di quello che sappiamo, ma semmai, e con un grosso forse, solo di quello che capiamo intimamente. L'altra è che le favole sono belle, ma solo quando c'è scritto 'favola' in copertina, altrimenti è più bella la complessità del reale. Vale anche per la storia della scienza.