giovedì 12 febbraio 2015

Darwin finalista


In un post di qualche anno fa avevo scritto che a mio avviso la più importante conseguenza culturale della rivoluzione darwiniana consisteva nella sconfitta del pensiero essenzialista di stampo aristotelico, almeno in quanto applicato alla biologia, e  avevo cercato di trarne delle conseguenze etico-politiche.

Mi fa piacere essere confortato in questa mia opinione dalla accurata e coinvolgente ricostruzione, dal punto di vista della storia del pensiero scientifico, che ho letto di recente nel libro del mio antico compagno di studi Marco Solinas, L'impronta dell'inutilità. Dalla teleologia di Aristotele alle genealogie di Darwin (del quale è in corso di stampa la traduzione inglese), che interpreta la teoria dell'evoluzione di Darwin proprio come ultimo atto della crisi di un aristotelismo sorprendentemente vitale ancora fino al XIX secolo. 

Solinas espone appunto la straordinaria persistenza del paradigma aristotelico nelle scienze del vivente, anche e ben oltre la rivoluzione scientifica operata in ambito fisico da Galileo e Newton. Le caratteristiche principali del paradigma che Darwin avrebbe distrutto sono quindi almeno tre: fissità delle specie (declinata nella variante eternista nel pensiero aristotelico e in quella creazionista in quello cristiano), finalismo (accompagnato dall'antropocentrismo), e, appunto, essenzialismo. 

Ovvero, contro l'opinione di Empedocle Aristotele sostiene che le specie sono immutabili nel tempo, non dipendendo la generazione dei loro membri dal caso o da qualsiasi accidente ma essendo piuttosto e sempre necessaria una coppia di genitori della stessa specie per generare un nuovo individuo (da due cavalli non nasce un pinguino, o un ragno), i quali genitori evidentemente trasmettono all'embrione la forma e le caratteristiche essenziali a quella specie, il caso essendo marginalizzato alle caratteristiche individuali e a quegli accidenti della riproduzione che possono dar vita a individui difettosi e mostri. 

Ma l'idea di essenza è strettamente correlata in Aristotele a quella di funzione. L'essenza di ogni specie particolare, ciò che la differenzia da ogni altra, corrisponde anche al suo telos, al fine verso il quale tende (e ad esempio essendo l'uomo un animale razionale il fine della vita umana è quello di esercitare la ragione), il che comporta che non esista caratteristica propria di una specie che non sia diretta al suo scopo essenziale, che negli animali e nelle piante coincide con appunto la conservazione della specie stessa. Principio che può essere sintetizzato nella formula natura nihil facit frustra, la natura non fa nulla invano, nessun organo è inutile o messo lì per caso ma tutti concorrono alla sopravvivenzaquesto nonostante le difficoltà (che Aristotele non manca di notare pur senza risolverle), poste da fenomeni come le grosse corna dei cervi, più nocive che utili, o gli occhi ciechi della talpa oltre che all'equilibrio generale dell'intero ecosistema (in una visione quindi che sarà declinata dal cristianesimo in senso provvidenziale).

Curiosamente, è proprio il rifiuto della teoria platonica delle idee che conduce Aristotele all'idea della immutabilità delle specie, mentre Platone si mostra nel Timeo pur se all'interno di una narrazione mitica dove tutti i viventi continuano a trasformarsi in altre specie – maggiormente elastico. È infatti il rifiuto della trascendenza, l'appello all'esperienza dei sensi e all'esistenza concreta delle cose materiali, e quindi il trasferire le idee dall'iperuranio alla forma immanente che ottiene l'effetto, nel sistema di Aristotele, di immobilizzare le cose sensibili, non più pallide e mutevoli copie di un'idea platonica eterna ma esse stesse ancorate alla loro forma ed essenza.

Platone e il suo sistema matematizzante otterranno una rivincita proprio grazie alla rivoluzione scientifica galileiana, dove le "sensate esperienze" continueranno ad avere un posto preminente ma solo quando accompagnate dalle "necessarie dimostrazioni", che si avvarranno della comprensione della "lingua matematica" con la quale è scritto il grande libro della natura. Peccato che nonostante i tentativi dei cartesiani il metodo matematico e meccanicista, che tanto successo ha nell'ambito delle scienze fisiche anche e proprio grazie al rifiuto delle cause finali, è destinato ad un sonoro scacco nell'ambito delle scienze del vivente, che quindi continuerà a svilupparsi – del resto con discreto successo –  sotto l'egida del paradigma aristotelico reinterpretato e aggiornato, spesso inconsapevole e taciuto ma pur sempre presente, ovvero ancora in senso fissista, finalista, ed essenzialista.  Paradigma che troverà il suo massimo sviluppo con la classificazione sistematica (persino oltre gli intenti di Aristotele) di Linneo, manifestazione dell'ordine voluto dal creatore nella natura.

Le prime crisi dell'ipotesi fissista e perennista, e le prime teorie trasformiste (fra cui quella di Erasmus Darwin e quella di Lamarck), si affacceranno grazie alla continua scoperta di nuovi fossili e dei rompicapo che pongono, laddove diventa sempre più difficile sostenere che i mostri scoperti sottoterra rappresentano assembramenti casuali di ossa di specie conosciute disposte in modo curioso. Riuscirà a mettere una pezza Cuvier, sacrificando il perenne e armonico equilibrio della natura per salvare il fissismo, ovvero postulando una serie di catastrofi naturali nel corso delle ere che avrebbero cancellato alcune specie permettendo il propagarsi di altre specie nei territori lasciati inoccupati.

Sarà l'ultimo trionfo del paradigma, finalmente sconfitto da Darwin con la sua teoria dell'evoluzione per selezione naturale, nella quale l'approccio storicizzante, e la giustificazione e valorizzazione in tal senso degli organi "inutili" come i capezzoli dei maschi, gli occhi ciechi della talpa, e le corna dei cervi come residui di precedenti adattamenti o come accidenti storici costituisce appunto un colpo mortale a un tempo al fissismo, all'essenzialismo, e al teleologismo, la ricerca di una causa finale intesa come disegno di un creatore saggio e provvidente sull'ordine dell'intero creato… Peccato che proprio giunti a questo punto la ricostruzione di Solinas cominci a mio avviso a mostrare qualche semplificazione di troppo, nel voler sciogliere facilmente quello che in realtà è un nodo eccezionalmente avviluppato, quasi come se intorno alla presenza o meno di un pensiero finalistico per quanto modificato nel pensiero di Darwin non esistesse un dibattito accesissimo (liquidato in un capitolo finale dal titolo "Rami secchi").

Quel che mi lascia perplesso è soprattutto il considerare le tre componenti del paradigma aristotelico (ovvero, ricordiamo, fissismo essenzialismo e finalismo) un blocco indivisibile, e quindi decretare la fine e la condanna di tutte queste tre componenti grazie al nuovo paradigma darwiniano. In realtà il pensiero di Darwin mi pare che insegni a ripensare il finalismo e sganciarlo dall'essenzialismo, e così anche dall'idea di un progetto intelligente, piuttosto che abolirlo tout court. La polemica degli ultimi decenni fra gli adattazionisti ultra-darwiniani (Maynard Smith, Dawkins, Dennett da una parte) e revisionisti dall'altra (Gould, Lewontin, Eldredge per non parlare dei critici come Fodor e Piattelli Palmarini) verte ancora una volta sul ruolo del caso e quello della teleologia, con pensatori come Gould e Lewontin che si trovano a disagio col "paradigma panglossiano"* rappresentato dal neo-evoluzionismo, dove ogni caratteristica morfologica di un animale trova la sua giustificazione razionale dal punto di vista della sopravvivenza dell'individuo (non più della specie, come nel finalismo aristotelico, e forse addirittura del gene "egoista").

Eppure questa scissione tra finalismo ed essenzialismo rappresenta a mio avviso anche il contributo più importante e originale del darwinismo (rivedendo qui l'opinione che avevo espresso nel mio vecchio post), che è la seconda grande rivoluzione scientifica dopo quella galileiana anche in quanto non si tratta di una sua stanca ripetizione, non di un tardo trionfo del meccanicismo che finalmente riesce a farsi largo, con notevole ritardo rispetto alla fisica, anche nella biologia. La verità è proprio che il meccanicismo riduzionista in biologia non funziona (funziona soltanto nella fisica, e forse nemmeno in tutta la fisica), e che Darwin ci ha insegnato il perché, ovvero che se vogliamo capire le caratteristiche di un organismo occorre proprio ragionare in termini di funzione, di finalità. 

L'unilateralità dell'interpretazione di Solinas è resa evidente dalle citazioni sparse e frammentate alle quali si appoggia, nelle quali talvolta Darwin si mostra critico proprio della nozione di "causa finale", mentre dall'altro lato è anche costretto a riconoscere come persista un linguaggio indubbiamente teleologico nel corso di tutto il libro L'origine delle specie. Benché questo linguaggio pervada l'intera opera di Darwin (per non parlare degli approcci contemporanei, come quelli in uso nella psicologia evoluzionistica o sociobiologia) esso viene liquidato come semplice "residuo" da scartare di un paradigma in declino, come rami secchi da potare, appunto. Vi sono anche delle contraddizioni nel momento in cui si tenta di negare l'aspetto teleologico, laddove si scrive ad esempio con approvazione che "gli organi rudimentali, atrofizzati e abortiti potevano essere intesi quali testimonianze viventi della storia della specie, quali arcaismi. Per Darwin, si trattava prevalentemente di parti che un tempo dovevano aver svolto qualche funzione utile agli organismi, ma che, nel corso delle modificazioni, avevano perduto tale funzione" (corsivo mio), e dove quindi non si capisce in che senso il discorso intorno alle funzioni degli organi, alle loro finalità, debba essere considerato superato, pur se storicizzato e liberato dalle essenze.

Si può forse comprendere la riluttanza ad accettare questo elemento nel pensiero di Darwin, o addirittura la tentazione di classificare l'interpretazione finalistica come una sorta di "controrivoluzione", proprio per il desiderio di non vedere sottostimata la rivoluzione di Darwin ed enfatizzare gli aspetti di rottura con la tradizione piuttosto che di continuità. Desiderio che, se proprio dovesse guidare le nostre interpretazioni, credo sarebbe comunque soddisfatto una volta spezzata l'illusoria compattezza e non separabilità delle componenti dell'impianto aristotelico, e la trasformazione che il pensiero teleologico attraversa, senza essere eliminato, tramite questa separazione. Ma la riluttanza ha forse anche un'altra spiegazione.

La responsabilità di questa persistenza del finalismo viene in parte attribuita da Solinas alla famosa analogia stabilita da Darwin fra la selezione artificiale, opera degli uomini che accoppiano le specie e le selezionano proprio in vista di uno scopo (generalmente ma non necessariamente consapevole) e quella naturale. Analogia che permette di comprendere appunto in che modo opera la Natura ma che rischia di essere fuorviante nel momento in cui si personifica la Natura attribuendole scopi e intenzioni simili a quelli umani, essendo al contrario la selezione naturale un meccanismo del tutto impersonale. Questo lo trovo abbastanza giusto, ma la critica potrebbe anche andare nell'altro senso: in realtà non è possibile stabilire un netto divario fra selezione artificiale e selezione naturale, come fa Darwin. Le variazioni introdotte dall'uomo nelle specie domestiche sono in ultima analisi spiegabili, persino esse, come tratti adattattivi proprio dal punto di vista della selezione naturale, così come lo sarebbero quei tratti delle specie animali o vegetali che si sono evoluti per essere di reciproca utilità ad altre specie animali o vegetali (l'uomo e le mucche costituiscono in fondo un caso di simbiosi). L'uomo fa parte della natura, non è un elemento estraneo, anche quando manipola la natura stessa.

Ebbene, è proprio questa immagine dell'uomo del tutto assimilato che sembra incontrare l'opposizione di molti critici dell'ultradarwinismo. Se si eliminano i fini e la razionalità del percorso adattativo (per quanto fluttuante e inconsapevole possa essere) dalle spiegazioni naturali eliminiamo anche l'uomo dalla Natura, ovvero lo poniamo al di sopra o al di fuori di essa. E ci priviamo anche della possibilità (che poi sarebbe la posta più alta) di spiegare proprio come possano nascere cose come la vera razionalità e intenzionalità degli esseri umani da un meccanismo intrinsecamente cieco e privo di scopo. Il darwinismo è finalista nel senso che introduce e spiega l'origine della finalità nella natura, che così è un effetto della selezione naturale, non un punto di partenza astorico.

È chiaro che l'universo post-darwiniano, non è più un universo ordinato e armonico diretto verso un fine supremo (fra l'altro una lettura attenta dei passi di Darwin nei quali egli si mostra sospettoso nei confronti della causa finale potrebbe rivelare, secondo me, che egli intende il termine "final" in modo ambiguo e leggermente confuso, e tende a sovrapporne il significato con quello di "ultimate cause" ovvero proprio la causa ultima e più fondamentale, quella a monte di tutto il creato).** Il mondo di Darwin, si diceva, è piuttosto un mondo diretto, in modo abbastanza caotico e certo non preordinato, nonostante l'apparenza del risultato finale, da una miriade di fini in conflitto fra di loro, in una lotta senza quartiere dove appunto è in gioco la sopravvivenza, quella del più adatto.

La storicizzazione che distrugge l'antico essenzialismo, l'atemporalità delle forme aristoteliche, avviene a questo livello, è la storia di tanti "geni egoisti" in lotta per il predominio contrapposta alla storia di un Dio che tutto ha previsto fin dall'origine dei tempi e fin dall'origine ha creato le forme, le essenze immutabili di ogni specie. I geni, i veri protagonisti della storia, sono invece costretti ad adattare in continuazione la funzione all'organo e viceversa l'organo alla funzione, senza che vi sia alcun senso unico. Dire che non esiste finalismo nella teoria dell'evoluzione è un po' come dire che non si può far ricorso a spiegazioni finalistiche nel corso delle nostre ricostruzioni storiche, ad esempio di un conflitto bellico fra grandi potenze, perché sarebbe metafisico attribuire una direzione preordinata alla storia umana.

È significativo anche che proprio queste caratteristiche della meravigliosa concezione della vita che emerge dalla teoria dell'evoluzione per selezione naturale siano quelle che danno fastidio, da un punto di vista ideologico, ai quei critici "di sinistra" del darwinismo che ne vedono appunto le terribili implicazioni per quanto riguarda l'immagine del cosmo (e come si diceva dell'uomo nel cosmo, reso una marionetta del suo patrimonio genetico), non più inevitabilmente diretto verso le magnifiche sorti e progressive del materialismo dialettico, l'unione di tutti i proletari del mondo e il trionfo del collettivismo e dell'altruismo, ma una eterna e spietata lotta fra individui, o peggio ancora fra geni che manipolano cinicamente gli individui. Criticano il teleologismo darwiniano enfatizzando, nel caso di Gould, il ruolo del caso e anche rivalutando le cuveriane catastrofi naturali nell'imprimere una svolta alla storia delle specie (una metafora delle rivoluzioni sociali contra il lento riformismo?), ma in nome di un altro teleologismo, a ben vedere molto più vicino a quello di stampo aristotelico. 



* Fra parentesi trovo curioso che per criticare l'idea di una funzione utile associata ad ogni più piccolo dettaglio anatomico, eventualmente spiegabile come epifenomeno o conseguenza necessaria di altri adattamenti (in analogia con le lunette di San Marco) Gould e Lewontin facciano ricorso proprio a Pangloss, il filosofo immaginato da Voltaire nel Candide per ridicolizzare le teorie di Leibniz, il quale però si proponeva proprio di spiegare l'origine del male come necessaria e inevitabile conseguenza del bene, ovvero una concezione che si sposa benissimo proprio con la teoria dei tratti inutili o addirittura dannosi come strascichi di precedenti adattamenti evolutivi.

** Si consideri il passo del Taccuino M (settembre 1838) citato da Solinas come prova della "crescente sfiducia nei confronti delle cause finali": "Questa mancanza di volontà di considerare il creatore come colui che governa attraverso leggi è forse dovuta al fatto che finché consideriamo ciascun oggetto come un atto separato di creazione. lo ammiriamo di più. perché possiamo confrontarlo con lo standard delle nostre menti. Cosa che non è più possibile quando riconsideriamo la formazione delle leggi che rimandano ad altre leggi. E che alla fine creano perfino la percezione di una causa finale (the perception of a final cause)". Da notare che anche i moderni biologi quando vogliono evitare il ricorso al linguaggio teleologico parlano di "causa distale" in opposizione alla "causa prossimale", quella più immediata e diretta. Ad esempio potremmo spiegare l'attrazione che le femmine di una certa specie hanno per certe caratteristiche dei maschi sostenendo che quelle caratteristiche stimolano gli ormoni sessuali della femmina (causa prossimale), ma perché questo avviene? Una spiegazione più generale, di livello più alto, è che i maschi con quelle caratteristiche assicurano alle femmine una progenie maggiormente in grado di sopravvivere e riprodursi (causa distale). In realtà nonostante il cambiamento di termine si tratta sempre di finalismo.

mercoledì 4 febbraio 2015

storia di profeti ed impostori


Nell’enciclica Ascendit de mari del 1239 Gregorio IX, fra i tanti misfatti di cui accusava l’Anticristo stupor mundi imperatore del Sacro Romano Impero Federico II, inseriva anche quello secondo il quale Federico avrebbe dichiarato che i fondatori delle tre principali religioni monoteiste allora conosciute, la giudaica, la cristiana, e la musulmana, erano tutti quanti impostori che ingannarono il mondo. È l’inizio della leggenda del Trattato dei tre impostori o De tribus impostoribus, che si supponeva composto dal letterato Pier della Vigna su ordine dell’imperatore.

Un libro blasfemo, un compendio di empietà e un viatico per l’ateismo la cui idea doveva disgustare, spaventare, e allo stesso tempo fatalmente affascinare le generazioni di intellettuali dei secoli successivi, che attribuirono la composizione dell’opera ai più svariati personaggi controversi loro contemporanei  – non preoccupandosi molto, a quanto pare, dell’incoerenza per la quale un libro che si supponeva circolare dal XIII secolo veniva attribuito a Jean Bodin, Pietro Aretino, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Pietro Pomponazzi, Tommaso Campanella, Baruch Spinoza e molti altri.

Lo storico Georges Minois nel suo saggio Il libro maledetto ci narra con passione le vicende dell’opera che a un certo punto finisce davvero per vedere la luce, anche in diverse versioni. Il libro è troppo ricercato da curiosi e da bibliofili per non costituire una ghiotta occasione per editori e stampatori senza scrupoli, che raffazzonano da diverse fonti un prodotto più o meno credibile, più o meno sacrilego: se il De tribus impostoribus non esistesse bisognerebbe inventarlo*, e quindi lo si è inventato. Non si tratta solo di romanzesche avventure bibliografiche con misteriosi anonimi autori che agiscono nell’ombra, in un gioco di inganni e finzioni che ricorda una trama di Umberto Eco – del trattato parlano tutti male, perché non se ne può parlare bene, ma parlandone male finiscono per fargli pubblicità, spesso se ne riassumono le tesi principali col pretesto di confutarle ma in modo che la confutazione appaia meno convincente del confutandum. Il libro di Minois finisce per essere, dicevo, anche una piccola storia dell’ateismo attraverso i secoli (e del resto Minois è proprio autore di una Storia dell’ateismo di maggiore ampiezza).

La sovrapposizione dei due temi, forse necessaria dato che ogni pensatore libertino o sospetto di ateismo è anche automaticamente sospettato di essere l’autore del trattato, mette se non altro in luce un aspetto interessante della storia del pensiero ateo o antireligioso, ovvero il tema dell’impostura. Ovvero per molto tempo nella storia occidentale essere ateo ha avuto un significato lievemente diverso da quello di oggi. Non tanto e non solo di negazione assoluta dell’idea di una divinità qualsiasi (in realtà anche panteisti e deisti potevano essere considerati atei), ma soprattutto negazione della reale ispirazione celeste dei fondatori delle religioni tradizionali, al punto di qualificarli come veri ingannatori di popolo, volgari prestigiatori e illusionisti, arruffatori di masse. Lo scopo dell’impostura, in quella che appare tutto sommato una sorprendente lucidità, è sempre considerato eminentemente politico, a volte visto anche in una luce positiva, come salutare imbroglio a fin di bene, per costruire una nazione e condurla vittoriosamente verso altri popoli.

È un tema ben presente ad esempio nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di Machiavelli, per il quale Numa Pompilio ha il merito di aver introdotto quelle riforme religiose e quei culti necessari a “volere mantenere una civiltà”, anche se per fare ciò dovette simulare di “avere domestichezza con una Ninfa, lo quale lo consigliava di quello ch’egli avesse a consigliare al popolo”. Machiavelli continua dicendo che non vi fu mai un “ordinatore di leggi straordinarie in un popolo che non ricorresse a Dio” facendo anche l’esempio di Licurgo e Solone. Infine arriva a sfiorare lo spinoso tema cristiano, ma solo per dire che è a causa della corruzione dei ministri della chiesa romana che l’Italia si trova così a mal partito. La lamentela è apparentemente devota, in fondo Machiavelli vorrebbe gli italiani maggiormente rispettosi degli originari principi e valori cristiani, ma a ben guardare la sua è una considerazione assai cinica: Cristo è solo un mezzo che giustifica il fine, esclusivamente politico, e l’accostamento con Numa Pompilio potrebbe suggerire che anch’egli fosse un simulatore.

Anche per Hobbes i fondatori di religioni sono al tempo stesso legislatori, ma in maniera ambigua distingue due tipi di tali personaggi: quelli che simulano di avere ricevuto un’ispirazione divina e creano una religione secondo il proprio capriccio, e quelli che invece eseguono effettivamente la volontà di Dio. Numa Pompilio e Maometto appartengono al primo tipo, Mosè e Gesù ovviamente al secondo. La cosa divertente è che spesso i pensatori atei prendono a prestito dai –  o talvolta prestano ai – loro nemici gli stessi argomenti dei quali questi ultimi si servono per combattere le religioni avversarie. Per un ebreo Gesù sarà un falso profeta, come Maometto, un cristiano avrà maggior rispetto per Mosè che però è pur sempre un ebreo, ma considererà Maometto il più ignobile fra tutti gli impostori (quando non emergono seminascosti sentimenti di ammirazione o addirittura invidia per sue le capacità di condottiero), mentre almeno l’islam si dimostra in questo molto più tollerante, includendo sia Mosè che Gesù fra i veri profeti.

Al di là della volontà denigratoria rispetto ai fondatori di religioni e verso i loro seguaci emerge insomma un discorso interpretativo tutt’altro che banale, precursore della critica marxiana alla religione come sovrastruttura al servizio del potere e oppio dei popoli. Ma non solo, attraverso l’indagine demistificatoria intorno alle vite dei profeti viene anticipato anche il discorso storiografico moderno, che cerca di separare il Cristo come personaggio storico, da indagare con gli strumenti dell’analisi scientifica, da quello della fede, comunque posto su un piano separato di legittimità. È proprio Spinoza, il più autorevole fra gli “autori” del Trattato, che può effettivamente essere considerato il padre della moderna esegesi biblica, che si svolge per il tramite del confronto fra le varianti del testo, i suoi errori lacune ed omissioni, l’analisi della lingua in cui è scritta, la ricerca delle motivazioni degli autori e l’indagine sul loro ambiente socio-culturale, e sul pubblico cui si rivolgevano. Tutte cose che sicuramente facevano scandalo al tempo di Spinoza ma che per fortuna oggi sono tranquillamente accettate anche dai più intransigenti cristiani.

Anzi, se il Trattato dei tre impostori non si fa molti scrupoli nell’usare gli stessi argomenti dei cristiani contro Maometto, è da notare che è negli stessi ambienti dai quali esce il Trattato che invece cominciano ad emergere voci dissidenti di apprezzamento nei confronti dell’islam e del suo fondatore, giudizi che nascono proprio da una maggiore conoscenza e comprensione dell’Oriente. Ci riferiamo ad esempio alla straordinaria figura del conte di Boulainvilliers (1658-1722), aristo-libertario, primo traduttore francese di Spinoza, che nella sua Vita di Maometto attingendo alla descrizione sociologica e antropologica mette a confronto cristianesimo e islam, giungendo a considerare quest’ultimo un sistema di credenze e un culto tutto sommato più razionale, e criticando la leggenda nera cristiana intorno al suo fondatore. Leggenda che invece sarà ripresa, con cieco furore, da Voltaire proprio in risposta a Boulainvilliers, nel dramma Maometto o del fanatismo. Un Voltaire, questo, oggi particolarmente apprezzato da personaggi certo non vicini all’ideologia illuminista come Magdi Allam (che forse non coglie appieno il messaggio di Voltaire, allora diretto contro Maometto anche in quanto – allora – bersaglio meno rischioso).

Sembra che gli eredi attuali degli “spiriti forti” del XVII-XVIII secolo siano passati attraverso un processo che ne ha filtrato alcune caratteristiche, lasciando solo la parte dell’invettiva antireligiosa**, in una posa anticonformistica ed eroica non proprio e non sempre convincente, almeno oggi che nessuna autorità ha il potere di condurti al rogo per eresia, e i rischi semmai vengono dai margini della società, dalla periferia verso il cuore dell’impero, in cui unica religione di stato è l’assenza (non visibilità) di religione, la laicità. Ma è un peccato, dicevo, che la rivendicazione, sacrosanta, della propria indipendenza di pensiero non sia sempre accompagnata da quello stesso sforzo razionale di comprensione e di critica che animava i coraggiosi atei ed anticristi dei secoli passati, da Federico II a Spinoza passando per Giordano Bruno.



*L’adagio voltairiano “se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo” curiosamente è proprio formulato in una Epistola all’autore del Libro dei tre impostori, opera in cui il celebre filosofo illuminista si cimenta nell’impresa di confutare il Trattato.

** Può essere considerato sintomatico che in seno all’ateismo militante la tesi più in voga riguardo a Gesù Cristo non sia più quella dell’impostura ma quella dell’inesistenza storica (una tesi che pochi storici prendono sul serio), quasi a non voler fare i conti con la sua figura a nessun titolo.