sabato 20 aprile 2013
Wittgenstein e l'albatros
Souvent, pour s'amuser, les hommes d'équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.
À peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l'azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d'eux.
Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu'il est comique et laid!
L'un agace son bec avec un brûle-gueule,
L'autre mime, en boitant, l'infirme qui volait!
Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l'empêchent de marcher.
Ciò che non può essere parlato dev'essere taciuto. Mi piacerebbe che fosse questa l'ultima proposizione del Tractatus wittgensteiniano. Non perché sarebbe una traduzione più esatta dal tedesco (dove c'è il complemento di argomento, proprio come nella traduzione corrente italiana), ma solo perché mi piace pensare che sarebbe una interpretazione più corretta del pensiero del filosofo.
Riassumendo molto velocemente, nel Tractatus si spiega quali sono i limiti del linguaggio, quali sono le proposizioni dotate di senso, quelle che in virtù della loro forma logica (o correttezza grammaticale) sono in grado di descrivere il mondo, i "fatti" di cui il mondo è fatto. Che questa proposta sia formulata insieme a una infelice teoria della verità quale corrispondenza (laddove ad ogni fatto nel mondo corrisponde una proposizione vera e viceversa) qui ha poca importanza, quel che conta è ciò che Wittgenstein in realtà si propone. Ed è precisamente qui che si innesta l'equivoco per cui il primo Wittgenstein è considerato un eroe della filosofia di tradizione analitica che fa della logica e del linguaggio empirico-scientifico le uniche cose di cui valga la pena occuparsi (poi tradita dal Wittgenstein delle Ricerche, sempre secondo questa visione superficiale).
È ormai tranquillamente accettato fra gli esegeti wittgensteiniani, infatti, che quel che a Wittgenstein interessa in realtà è proprio "l'ineffabile", quel che non può essere detto. L'operazione di tracciare i limiti del linguaggio, i confini dell'effabile, serve paradossalmente a indicare tutto il resto, è la famosa scala che può essere buttata via una volta saliti. Ovvero, è proprio un modo per "parlare" di estetica, di morale, di religione e di tutto ciò che costituisce l'ineffabile, il mistico.
Purtroppo uno degli effetti della svolta linguistica in filosofia è stato proprio quello, invece, di assicurare una importanza sempre maggiore ai fenomeni linguistici o più in generale "cognitivi", e di marginalizzare tutto il resto. Tanto che si è giunti al fenomeno nefasto per cui se un autore vuole parlare di arte, di letteratura, di musica, deve accingersi prima di tutto a dimostrare che vi è qualcosa di "cognitivo" in un'opera d'arte, in un quadro, in un balletto, in una metafora ben riuscita. Che musica e pittura hanno il loro "linguaggio" specifico, che deve solo essere compreso se si vuole penetrarne il mistero. Questo è per me anche il grande errore di quella che considero una pseudoscienza, la semiologia, che riduce qualsiasi attività umana (per non dire l'universo intero) a un sistema di segni, quindi a linguaggio, a "codice" da interpretare.
Nulla, per me, di più falso e di più odioso. È perfettamente inutile che continuate a guardare un pezzo di marmo chiedendo "perché non parli?", non parlerà mai, perché i pezzi di marmo sono muti. Un quadro di Fontana non è un oggetto che ci rivelerà i suoi segreti una volta che ne scopriamo il "codice", e che allora potremo comprendere, esso è ineffabile, non parla. Ci sono senz'altro opere d'arte che prima ancora di cominciare a tentare di comprenderle, hanno bisogno di un certo lavoro preliminare sui "codici", sul sistema di segni in esso inserito: non possiamo ad esempio avvicinarci alla pittura rinascimentale senza conoscere il complesso sistema di simboli e allegorie contenuti nei quadri: banalmente, è utile sapere che il motivo ornamentale del melograno è associato all'idea della fertilità.
Ma non sarebbe ben poca cosa, l'opera d'arte, se ad essa non si levasse nulla sostituendo l'immagine del melograno con la scritta "fertilità"? È evidente che non può essere quello il linguaggio di cui si parla. Se il messaggio di un'opera d'arte potesse venire esaurientemente espresso con parole allora tanto varrebbe esprimerlo con parole. Se Picasso, con Guernica, avesse voluto dire che la guerra è brutta, avrebbe potuto dirlo senza imbrattare una tela. Si dirà che esiste anche la cosiddetta arte concettuale, il cui grosso limite, però, è appunto quello di essere concettuale, e forse di non essere nemmeno arte, come direbbe qualcun altro (non sono perfettamente d'accordo, ma va bene lo stesso). Oppure si risponderà che il linguaggio dell'arte non è fatto di parole, appunto, ma di altri tipi di segni. Una vacuità: non serve a nulla tentare di impreziosire l'arte dandogli la patente del cognitivo se poi non si è in grado di esprimere verbalmente i suoi contenuti.
Tornando alla frase di Wittgenstein, non sono convinto che ci siano cose "delle" quali non si possa parlare. Intorno a un quadro di Picasso, a una fuga di Bach, si può parlare all'infinito, si potrebbe non smettere mai di parlarne. E questo si verifica proprio "perché" (non nonostante) non "parlano" e non possono "essere parlate". Perché è nella natura degli oggetti che costituiscono opere d'arte di essere "analogiche" e quindi inesauribili, dense, mentre il linguaggio è tipicamente digitale, finito, discreto. E vorrei sottolineare che questo vale anche per le opere d'arte che sono fatte "di parole" come i romanzi e le storie, ma che certo non si esauriscono in quelle parole da cui sono costituite. Vale naturalmente per le poesie, la cui caratteristica è proprio quella di usare il linguaggio per andare oltre i limiti del linguaggio, e vale per le metafore.
La metafora può anzi rappresentare benissimo un'ottima sintesi (o metafora) di tutto il discorso che sto cercando di fare intorno all'arte. Infatti, cosa significa una metafora? Cosa vuol dire Carducci quando si rivolge al figlio defunto con le parole "tu fior della mia pianta percossa e inaridita, tu dell'inutil vita estremo unico fior"? Il suo significato letterale è il suo significato letterale (cioè che il figlio è un fiore), e non ci interessa (anche perché è falso che il figlio di Carducci fosse un fiore, essendo invece un bambino). Qual è allora il significato metaforico? Ecco, il significato metaforico non c'è, è un errore parlare di due generi di significato. Se esistesse un significato metaforico esprimibile diventerebbe immediatamente letterale, e guarda un po', questo è esattamente quel che accade con le metafore quando esauriscono la loro novità, il loro potenziale, quando muoiono come metafora. E diciamolo, parlare della propria progenie come "fiori della mia pianta" si avvicina già molto ad essere una metafora morta, infatti Carducci non era poi questo grande poeta. Ma cosa vuol dire, invece, Wislawa Szymborska quando parla della cipolla? Cosa vuol dire Eliot quando parla dell'ippopotamo? e Montale quando parla di limoni?
Chi vuole far parlare l'arte la vuole uccidere. Vuol fare alla poesia ciò che i marinai fanno all'albatros di Baudelaire. L'arte, come tutto ciò che non può essere parlato, deve tacere per poter esprimere l'ineffabile.
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