lunedì 31 agosto 2009
A=A
Prendo spunto dall'ultima concrezione dell'eterno dibattito in tema d'identità culturale in epoca di globalizzazione che sta impazzando, oggi, in Italia. Di che si tratta? Pare che ci siano alcune donne, spesso provenienti da paesi di cultura più tradizionalista della nostra, che si vergognano a mostrarsi, al mare o in piscina, quasi completamente nude.
A me un po' dispiace: quando sono in spiaggia e mi annoio una delle poche cose che possono catturare il mio interesse, sollevando gli occhi dal libro che sto leggendo, è la visione di un bel corpo femminile. Queste donne invece, per evitare di essere guardate da me (forse mi hanno scoperto), si sono inventati un costume da bagno che copre interamente il corpo, compresa la testa, lasciando scoperti solo la faccia, le mani, e i piedi. Il burkini, appunto (che poi non è un'invenzione proprio nuova). Come dicevo, è un vero peccato, ma il mio personale piacere non mi sembra un motivo abbastanza forte per obbligare una donna a mostrarmi le tette.
Ora, ci sono dei tizi in Italia che vorrebbero impedire una tale pratica, perché dicono che offende la donna. Allora non ci capisco più nulla, perché reduce dalla visione del documentario Il corpo delle donne, credevo che ad offendere la donna fosse l'esibizione sfacciata del corpo femminile in ogni dove. Dopo averne sentito a lungo parlare, infatti, mi sono deciso a guardarlo, con un pizzico di delusione. Le cose che denuncia sono in gran parte vere e sacrosante: neanche a me piace vedere in tv una ragazza usata come gamba di un tavolino o appesa come un prosciutto e timbrata sui glutei (certe cose le accetto solo a casa mia, nel chiuso delle mura domestiche). Ma la denuncia e la messa sotto accusa del nostro sguardo lascivo forse rischia di coincidere con la condanna moralistica di chi del proprio corpo decide di fare quel che vuole.
Deve esistere la libertà di coprirsi? e deve esistere la libertà di scoprirsi o anche a limite, prostituirsi e consentire allo sfruttamento del proprio corpo? Per quanto mi riguarda sono interrogativi retorici, la risposta è ovvia in entrambi i casi. Ma la libertà probabilmente c'entra poco, e interessa poco i fautori di certe polemiche: qui è in gioco LA NOSTRA IDENTITA' CULTURALE! LE NOSTRE RADICI CRISTIANE!
Salvo, però, che neanche il cattolicissimo Centro Culturale San Giorgio sarebbe d'accordo. Parliamoci chiaro: spogliarsi in pubblico è una cosa che una donna perbene, e di qualunque religione, non fa e basta. E poi tutti questi corpi nudi, se non lo sapeste, sono un complotto della lobbia ebraica, che vuole sterminare la nostra razza. Maledette lobbie ebraiche.
Ma seriamente, le tesi del CCSG sulla "pansessualizzazione della società" come "tecnica di genocidio" sono a prima vista paradossali, visto che i bambini non sono portati dalla cicogna, eppure il CCSG ha ragione, se scremiamo un certo delirio catto-complottista: esiste un innegabile rapporto di proporzionalità inversa fra la libertà sessuale, la caduta del senso del pudore, e il tasso di crescita della popolazione (in realtà sembra esistere un rapporto di proporzionalità inversa fra la libertà tout court e il tasso di crescita della popolazione).
Ma allora come facciamo a difendere la nostra identità? dobbiamo obbligare le donne a spogliarsi in pubblico (quindi no al burkini), oppure dobbiamo tornare alle "vere" radici cristiane e occidentali e quindi proibire alle donne di spogliarsi, e magari anche tornare a lapidare le adultere? È un bel dilemma: la nostra civiltà è minacciata in ogni caso. Se ci spogliamo e ci puttanizziamo diventiamo sterili, e spariremo lasciando il passo agli altri popoli. Se non ci spogliamo la diamo vinta ai musulmani, e gli permettiamo di colonizzarci culturalmente.
Io propongo di fare un piccolo passo indietro, e provare a chiedere prima di tutto per quale motivo uno dovrebbe tenere alla propria "identità". Capisco bene che cosa significa difendere la propria religione, il proprio Dio. Capisco difendere i propri valori. Capisco anche essere attaccati alle tradizioni. Ma la propria "identità"? Che significa, che cos'è? Voglio dire: se difendo il cristianesimo, o il raelismo, lo difendo perché credo in Gesù (o in Rael) e ritengo il cristianesimo (o il raelismo) una religione superiore a tutte le altre, non solo perché è la "mia" religione (il che non la rende speciale). Se mangio la pastasciutta, è perché la pastasciutta è buona, perché mi piace, e non solo perché da noi "si usa così".
Che significa aver paura di perdere la propria identità? che senso ha difendere le proprie idee e i propri valori, non per il loro contenuto, ma solo in quanto "mie"? cos'è questa abdicazione completa dell'universalismo della ragione che dovrebbe far parte, quello sì, delle nostre radici culturali? cos'è questa resa incondizionata al relativismo culturale (e magari proprio da parte di chi dice di combattere il relativismo)?
Bisogna riconoscere al CCSG di essere almeno coerente sotto quest'aspetto: c'è un unico Dio, e tutti devono sottomettersi ad esso, da Trieste in giù. Ma la Lega? Se capisco bene l'ideologia della Lega, essa è riducibile alla formula "moglie e buoi dei paesi tuoi". Quindi bisogna mangiare polenta al Nord, e pizza al Sud, e guai a fare il contrario ("ne va delle nostre radici"). Il kebab non va bene, non perché faccia schifo in sé, ma perché non fa parte delle nostre tradizioni culinarie, mentre va benissimo se mangiato in Turchia.
Poi bisogna tutti parlare in dialetto, e se nessuno ci capisce pazienza. Pazienza anche se il dialetto in realtà non l'ho mai parlato davvero, e mi tocca studiarlo a scuola per poter essere "autentico". E il burkini non va bene perché... è scomodo? no, non è questo. È anti-igienico? mmhh, neppure... non va bene semplicemente perché non va bene, perché qui da noi non vogliamo vedere quegli affari (non con quel nome, in ogni caso, mentre se ad inventarlo fosse stato Roberto Cavalli...). E la clitoridectomia? È una cosa orribile, disgustosa, una barbarie. Certo, ma finché lo fanno nel loro paese... dopotutto che noia ci dà?
(Ammesso che sia così: Leonardo ad esempio ha una tesi completamente opposta. Quel che ci fa paura nei musulmani, non è il fatto che siano diversi da noi, ma proprio il fatto che essi "sono" le nostre radici. Non li indossavamo anche noi, quei costumi integrali? quelle donne velate non sono le nostre? non ci ricordano il nostro passato sporco, povero, e terrone? Il che pone anche la questione di quale identità dovremmo preservare. Quella del presente? Quella di trenta anni fa? Quella di cinque minuti fa?)
Un tempo la questione della difesa dell'identità non si poneva, perché gli orizzonti culturali della stragrande maggioranza delle persone erano piuttosto limitati. Non c'era la libertà di scegliere di essere altro da quello che si è. C'era piuttosto il problema di emanciparsi dalle proprie origini, per i pochi privilegiati che potevano allargare gli orizzonti. Nessuno può dirsi particolarmente fortunato solo perché è nato a Casalpusterlengo, è sempre vissuto a Casalpusterlengo, ed è morto a Casalpusterlengo.
Ma la globalizzazione in realtà non mette in pericolo l'identità culturale di nessuno, e non rischia di annullare tutto in una insipida brodaglia (per evitare questo, basterebbe la difesa dei propri valori etici, e non dell'identità in quanto tale), perché al contrario le identità oggi vengono offerte in gran numero al supermercato, sono diventate dei marchi. Uno può addormentarsi italiano e risvegliarsi celtico, o padano, da un giorno all'altro. Dipende solo da quanto è vendibile il marchio. Una volta fatta la scelta, ovviamente, dovrà odiare tutti gli altri, e chiamarli barbari e invasori, per il semplice fatto che offrono un altro prodotto.
Bikini e burkini, piadina e falafel, panino col lampredotto e kebab, Coca-cola e Mecca-cola, questo è lo scontro di civiltà.
giovedì 20 agosto 2009
cospirazionismo e memetica
La memetica, come molti sanno, è una cosa inventata da Richard Dawkins in un capitolo del suo libro Il gene egoista.
In origine era solo un'analogia molto interessante. Dawkins si chiedeva se oltre al Dna era possibile individuare altre entità che evolvessero in modo darwiniano, ovvero tramite replicazione ed errori, e la selezione operata dall'ambiente. Un possibile candidato, secondo Dawkins, erano le "idee", o "unità di memoria", ribattezzate "memi" per assonanza con i geni.
Le idee, secondo questa concezione, sarebbero copiate e trasmesse più o meno fedelmente attraverso i vari veicoli (i cervelli umani, eventualmente attraverso l'intermediazione di media come la stampa o la tv), entrerebbero in competizione tra loro per occupare le limitate risorse di memoria dei loro portatori, ed evolverebbero di conseguenza.
Una filastrocca, ad esempio, può essere sentita una prima volta, memorizzata, e poi ritrasmessa con qualche piccola modifica. Il successo delle varie ed eventuali modifiche, che possono dipendere da semplici lacune di memoria di colui che ripete la filastrocca, dipenderà dalla loro facilità di memorizzazione e di esecuzione. Filastrocche troppo complicate e con versi eccessivamente lunghi, parole difficili, e dalla metrica ardita, quindi, tenderanno a cedere il passo alle loro varianti più semplici, dalla cadenza ripetitiva e in rima baciata.
L'idea interessante è che così come, secondo Dawkins, i geni non lavorano necessariamente per il bene dell'organismo ospite, ma lavorano, egoisticamente, soprattutto per il proprio tornaconto (la massima diffusione nella biosfera), così dovrebbero agire anche i memi. In questo modo si spiegherebbe la diffusione di idee che sembrerebbero altamente perniciose, almeno dal punto di vista degli esseri umani che le ospitano.
L'esempio paradigmatico di meme è la classica catena di sant'Antonio, diffusa per lettera come ai vecchi tempi o ancora meglio via posta elettronica. Un messaggio di questo tipo non ha altra funzione se non quella di replicarsi il più possibile, e infatti anche il suo contenuto consiste di poco altro che dell'istruzione "replicami", accompagnato da qualche minaccia o lusinga. Lo si potrebbe paragonare a un virus, che infatti non è altro che uno scarno involucro di proteine contenente una stringa di Dna la cui unica funzione è quella di replicarsi. Alcune varianti della classica catena sono i consueti appelli-bufala, che facendo leva su sentimenti universali come la pietà per i bambini malati o il sospetto nei confronti delle malefatte delle industrie multinazionali, ci convincono a diffondere messaggi il cui contenuto non è stato verificato.
Ma Dawkins aggiunge, provocatoriamente, che anche entità culturali enormemente complesse come le religioni potrebbero essere paragonate a "virus della mente". Il beneficio che le religioni apportano alla vita dell'individuo, o alla società nel suo insieme, è infatti dubbio (almeno dal punto di vista di Dawkins che è un noto anticlericale). Ma le religioni, a volte dotate di contenuti poco "ragionevoli" (come la credenza in un parto virginale), sono provviste, come le catene di sant'Antonio, delle loro minacce e lusinghe allo scopo di convincere il loro portatore a non abbandonarle, e anzi a propagarle.
Un "trucco" ben riuscito, ad esempio, una vera barriera contro la ragionevolezza e il buon senso, è il famoso motto attribuito a Tertulliano "credo quia absurdum": "ci credo proprio perché è assurdo", e non "nonostante sia assurdo". In questo modo l'assurdità di un sistema di credenze si trasforma, agli occhi del portatore, in un pregio, in una caratteristica affascinante, piuttosto che in un difetto. Questo "atletismo della fede", per cui un uomo è tanto più virtuoso quanto più riesce a digerire le peggiori sciocchezze, è in effetti una caratteristica comune a molte credenze religiose.
La memetica quindi sarebbe lo studio scientifico delle strategie elaborate dai memi al fine di garantire a se stessi la massima diffusione e conservazione. Il problema è che una scienza del genere non esiste, nonostante il successo clamoroso dell'idea di Dawkins al livello della cultura pop, perché dopo trent'anni dalla pubblicazione del Gene egoista siamo ancora fermi allo stadio del vago suggerimento e dell'analogia. E probabilmente questo è anche il massimo cui la memetica possa aspirare: non può esistere una scienza della memetica per il semplice motivo che la cultura, escluse notevoli eccezioni, non si evolve affatto in questo modo.
Dawkins, con la sua consueta abilità argomentativa e intelligenza, ha fatto balenare davanti agli occhi dei neo-positivisti il miraggio impossibile di una scienza materialistica e quantitativa della cultura, rivoluzionaria quanto lo è stata la teoria di Darwin per la biologia, e molti suoi ammiratori (fra cui un grande filosofo come Daniel Dennett) ci sono cascati con entrambi i piedi, sottovalutando le difficoltà intrinseche in una tale visione. Tanto per cominciare, la stessa esperienza quotidiana e un minimo di introspezione dovrebbero avvertirci che le cose non possono essere così semplici.
Le idee, infatti, non vengono diffuse e replicate per semplice imitazione, e non si modificano per il tramite di errori casuali: esse si trasformano a causa dello sforzo cosciente, da parte dei loro portatori, di migliorarle, valutandone le potenzialità e gli eventuali difetti. Le idee non sono virus che si propagano nell'aere dai quali rimaniamo involontariamente infetti e che diffondiamo tramite contagio altrettanto inconsciamente. Noi le cerchiamo, nello sforzo di migliorare le nostre vite e la nostra visione del mondo, le selezioniamo, scartando quelle che ci paiono inutili o dannose, e poi ci sforziamo di migliorarle, per trovare le soluzioni ai nostri problemi o alle nostre curiosità sul mondo. E niente di tutto questo assomiglia a un vero processo di selezione darwiniana.
Una mente cosciente e intelligente è un qualcosa che viene sempre a rompere le uova nel paniere ai vari progetti riduzionistici. C'è infatti qualcosa di più, per il quale rimango piuttosto scettico riguardo alla memetica: nessuno sa dire esattamente in che cosa consistono i memi, o idee. Non che la definizione di "gene" sia del tutto priva di ambiguità, ma nel caso della genetica sappiamo grosso modo a cosa corrisponde un gene nel mondo materiale: è un pezzetto di acido desossiribonucleico incorporato in una cellula. Sappiamo dire quando un gene è dello stesso tipo di un altro, anche a prescindere dalla funzione svolta per l'organismo: due geni sono identici quando sono composti dagli stessi nucleotidi, quando le loro "stringhe" sono identiche. Mentre nel caso delle idee, non solo ci mancano criteri chiari per capire quando un'idea è la stessa di un'altra (il vecchio Quine diceva sempre "no entity without identity"), ma abbiamo anche molti motivi per credere che non esista niente, nel mondo materiale, a cui corrisponda sempre una stessa idea (una tale posizione corrisponderebbe, in filosofia della mente, alla teoria dell'identità dei tipi, oggi assai poco in voga).
Dal momento che non abbiamo un'idea di cosa siano, in realtà, le unità di replicazione e selezione che renderebbero conto in maniera darwiniana dell'evoluzione della cultura, è difficile pensare di poterci davvero costruire sopra una scienza rigorosa. Quella di Dawkins resta, tuttavia, una provocazione affascinante, che alcuni studiosi hanno inoltre raccolto ed elaborato in maniera critica e originale (ad esempio Dan Sperber, che invece di "memetica", con la sua stretta analogia darwiniana, preferisce parlare in modo più generico di "epidemiologia delle credenze"). E su cui vale la pena di riflettere.
Se sono abbastanza sicuro, infatti, che una tale analogia non possa affatto rendere conto dell'evoluzione della cultura nel suo complesso, può ben darsi invece che alcuni fenomeni culturali abbastanza circoscritti corrispondano grosso modo al quadro delineato da Dawkins ed epigoni. Trovo abbastanza inutile chiedersi da dove venga la teoria della relatività: essa è un parto del genio di Einstein, ed è così diffusa, nei libri di testo e nelle università, perché rappresenta una descrizione vera del mondo, o almeno un'ottima approssimazione alla verità. Ma da dove vengono, invece, le barzellette o le leggende urbane, da dove vengono certi culti religiosi (ho letto da poco un romanzo, Pastorale americana di Joseph Roth, dove la figlia del protagonista a un certo punto si dedica al giainismo: si mette una garza sulla bocca per non nuocere ai microbi, ed evita di lavarsi per non fare del male all'acqua), da dove vengono certe teorie di complotto?
Le teorie del complotto infatti sono un po' come le barzellette: non nel senso che fanno ridere (non solo), ma nel senso che le modalità di propagazione sono simili. Molto spesso non c'è un vero "autore": alcuni complottisti sono molto noti, ma di rado possono essere identificati come gli autori originari delle teorie cospirazioniste, poiché esse sono "nell'aria" e attecchiscono dove trovano del terreno fertile. A differenza della teoria della relatività, inoltre, è molto difficile sostenere che le cause del loro attecchimento si trovano nella loro corrispondenza alla realtà o nel successo nel prevedere o spiegare gli eventi. Esse corrispondono piuttosto a bisogni psicologici, e si alimentano dei pregiudizi o delle fobie della gente.
Come le barzellette, esse sembrano propagarsi ed evolversi per replicazione ed errore, nel senso che vengono ripetute acriticamente in maniera meccanica, salvo le innumerevoli varianti che acquistano vita indipendente, e delle quali è molto difficile rintracciare l'origine. La riprova del carattere "meccanico" o automatico del sistema di propagazione la si può ritrovare in qualsiasi forum di discussione sulle teorie cospirazioniste, e nella loro evoluzione altalenante e imprevedibile. Basti notare infatti come risulti pressoché impossibile superare o dare per acquisite certe nozioni: supponiamo che venga denunciata una certa "stranezza" della "versione ufficiale" per quanto riguarda il 9/11, come ad esempio il fatto che le rotte percorse dagli aerei mostrano manovre "impossibili". La cosa viene ripetuta fino a quando qualcuno non fa notare che le rotte disegnate in realtà non sono quelle ufficiali, le quali invece appaiono eseguibili senza difficoltà particolari. Il tema viene dimenticato per un breve periodo di tempo, ma dopo qualche mese un nuovo utente apre una nuova discussione dove denuncia il fatto, scandaloso, che gli aerei hanno percorso manovre impossibili. E si riparte da capo. Non si può dire che non esista un'evoluzione, ma di certo non c'è progresso.
Nonostante molti cospirazionisti amino definirsi "ricercatori", è fuor di dubbio che la ricerca scientifica non progredisce in questa maniera. I ricercatori non assimilano passivamente le nozioni ripetendole a pappagallo senza verificarle e senza aggiornarsi allo stato dell'arte della ricerca. I ricercatori vanno in cerca delle informazioni più attendibili, più aggiornate, e poi tentano di elaborarle personalmente (dove però per elaborazione personale non si intende, ovviamente, la prima boiata che viene in mente), e poi verificano di nuovo il frutto delle loro elaborazioni. No, le teorie scientifiche non assomigliano un granché ai memi di Dawkins.
Trovo interessante il fatto che una teoria avanzata al fine di rendere conto, in maniera sistematica e simil-quantitativa, dell'evoluzione della cultura, ovvero della più alta espressione della mente umana e della sua capacità raziocinante, riesca ad apparire promettente solo in quei campi ristretti dove la razionalità sembra fallire del tutto il suo compito.
In origine era solo un'analogia molto interessante. Dawkins si chiedeva se oltre al Dna era possibile individuare altre entità che evolvessero in modo darwiniano, ovvero tramite replicazione ed errori, e la selezione operata dall'ambiente. Un possibile candidato, secondo Dawkins, erano le "idee", o "unità di memoria", ribattezzate "memi" per assonanza con i geni.
Le idee, secondo questa concezione, sarebbero copiate e trasmesse più o meno fedelmente attraverso i vari veicoli (i cervelli umani, eventualmente attraverso l'intermediazione di media come la stampa o la tv), entrerebbero in competizione tra loro per occupare le limitate risorse di memoria dei loro portatori, ed evolverebbero di conseguenza.
Una filastrocca, ad esempio, può essere sentita una prima volta, memorizzata, e poi ritrasmessa con qualche piccola modifica. Il successo delle varie ed eventuali modifiche, che possono dipendere da semplici lacune di memoria di colui che ripete la filastrocca, dipenderà dalla loro facilità di memorizzazione e di esecuzione. Filastrocche troppo complicate e con versi eccessivamente lunghi, parole difficili, e dalla metrica ardita, quindi, tenderanno a cedere il passo alle loro varianti più semplici, dalla cadenza ripetitiva e in rima baciata.
L'idea interessante è che così come, secondo Dawkins, i geni non lavorano necessariamente per il bene dell'organismo ospite, ma lavorano, egoisticamente, soprattutto per il proprio tornaconto (la massima diffusione nella biosfera), così dovrebbero agire anche i memi. In questo modo si spiegherebbe la diffusione di idee che sembrerebbero altamente perniciose, almeno dal punto di vista degli esseri umani che le ospitano.
L'esempio paradigmatico di meme è la classica catena di sant'Antonio, diffusa per lettera come ai vecchi tempi o ancora meglio via posta elettronica. Un messaggio di questo tipo non ha altra funzione se non quella di replicarsi il più possibile, e infatti anche il suo contenuto consiste di poco altro che dell'istruzione "replicami", accompagnato da qualche minaccia o lusinga. Lo si potrebbe paragonare a un virus, che infatti non è altro che uno scarno involucro di proteine contenente una stringa di Dna la cui unica funzione è quella di replicarsi. Alcune varianti della classica catena sono i consueti appelli-bufala, che facendo leva su sentimenti universali come la pietà per i bambini malati o il sospetto nei confronti delle malefatte delle industrie multinazionali, ci convincono a diffondere messaggi il cui contenuto non è stato verificato.
Ma Dawkins aggiunge, provocatoriamente, che anche entità culturali enormemente complesse come le religioni potrebbero essere paragonate a "virus della mente". Il beneficio che le religioni apportano alla vita dell'individuo, o alla società nel suo insieme, è infatti dubbio (almeno dal punto di vista di Dawkins che è un noto anticlericale). Ma le religioni, a volte dotate di contenuti poco "ragionevoli" (come la credenza in un parto virginale), sono provviste, come le catene di sant'Antonio, delle loro minacce e lusinghe allo scopo di convincere il loro portatore a non abbandonarle, e anzi a propagarle.
Un "trucco" ben riuscito, ad esempio, una vera barriera contro la ragionevolezza e il buon senso, è il famoso motto attribuito a Tertulliano "credo quia absurdum": "ci credo proprio perché è assurdo", e non "nonostante sia assurdo". In questo modo l'assurdità di un sistema di credenze si trasforma, agli occhi del portatore, in un pregio, in una caratteristica affascinante, piuttosto che in un difetto. Questo "atletismo della fede", per cui un uomo è tanto più virtuoso quanto più riesce a digerire le peggiori sciocchezze, è in effetti una caratteristica comune a molte credenze religiose.
La memetica quindi sarebbe lo studio scientifico delle strategie elaborate dai memi al fine di garantire a se stessi la massima diffusione e conservazione. Il problema è che una scienza del genere non esiste, nonostante il successo clamoroso dell'idea di Dawkins al livello della cultura pop, perché dopo trent'anni dalla pubblicazione del Gene egoista siamo ancora fermi allo stadio del vago suggerimento e dell'analogia. E probabilmente questo è anche il massimo cui la memetica possa aspirare: non può esistere una scienza della memetica per il semplice motivo che la cultura, escluse notevoli eccezioni, non si evolve affatto in questo modo.
Dawkins, con la sua consueta abilità argomentativa e intelligenza, ha fatto balenare davanti agli occhi dei neo-positivisti il miraggio impossibile di una scienza materialistica e quantitativa della cultura, rivoluzionaria quanto lo è stata la teoria di Darwin per la biologia, e molti suoi ammiratori (fra cui un grande filosofo come Daniel Dennett) ci sono cascati con entrambi i piedi, sottovalutando le difficoltà intrinseche in una tale visione. Tanto per cominciare, la stessa esperienza quotidiana e un minimo di introspezione dovrebbero avvertirci che le cose non possono essere così semplici.
Le idee, infatti, non vengono diffuse e replicate per semplice imitazione, e non si modificano per il tramite di errori casuali: esse si trasformano a causa dello sforzo cosciente, da parte dei loro portatori, di migliorarle, valutandone le potenzialità e gli eventuali difetti. Le idee non sono virus che si propagano nell'aere dai quali rimaniamo involontariamente infetti e che diffondiamo tramite contagio altrettanto inconsciamente. Noi le cerchiamo, nello sforzo di migliorare le nostre vite e la nostra visione del mondo, le selezioniamo, scartando quelle che ci paiono inutili o dannose, e poi ci sforziamo di migliorarle, per trovare le soluzioni ai nostri problemi o alle nostre curiosità sul mondo. E niente di tutto questo assomiglia a un vero processo di selezione darwiniana.
Una mente cosciente e intelligente è un qualcosa che viene sempre a rompere le uova nel paniere ai vari progetti riduzionistici. C'è infatti qualcosa di più, per il quale rimango piuttosto scettico riguardo alla memetica: nessuno sa dire esattamente in che cosa consistono i memi, o idee. Non che la definizione di "gene" sia del tutto priva di ambiguità, ma nel caso della genetica sappiamo grosso modo a cosa corrisponde un gene nel mondo materiale: è un pezzetto di acido desossiribonucleico incorporato in una cellula. Sappiamo dire quando un gene è dello stesso tipo di un altro, anche a prescindere dalla funzione svolta per l'organismo: due geni sono identici quando sono composti dagli stessi nucleotidi, quando le loro "stringhe" sono identiche. Mentre nel caso delle idee, non solo ci mancano criteri chiari per capire quando un'idea è la stessa di un'altra (il vecchio Quine diceva sempre "no entity without identity"), ma abbiamo anche molti motivi per credere che non esista niente, nel mondo materiale, a cui corrisponda sempre una stessa idea (una tale posizione corrisponderebbe, in filosofia della mente, alla teoria dell'identità dei tipi, oggi assai poco in voga).
Dal momento che non abbiamo un'idea di cosa siano, in realtà, le unità di replicazione e selezione che renderebbero conto in maniera darwiniana dell'evoluzione della cultura, è difficile pensare di poterci davvero costruire sopra una scienza rigorosa. Quella di Dawkins resta, tuttavia, una provocazione affascinante, che alcuni studiosi hanno inoltre raccolto ed elaborato in maniera critica e originale (ad esempio Dan Sperber, che invece di "memetica", con la sua stretta analogia darwiniana, preferisce parlare in modo più generico di "epidemiologia delle credenze"). E su cui vale la pena di riflettere.
Se sono abbastanza sicuro, infatti, che una tale analogia non possa affatto rendere conto dell'evoluzione della cultura nel suo complesso, può ben darsi invece che alcuni fenomeni culturali abbastanza circoscritti corrispondano grosso modo al quadro delineato da Dawkins ed epigoni. Trovo abbastanza inutile chiedersi da dove venga la teoria della relatività: essa è un parto del genio di Einstein, ed è così diffusa, nei libri di testo e nelle università, perché rappresenta una descrizione vera del mondo, o almeno un'ottima approssimazione alla verità. Ma da dove vengono, invece, le barzellette o le leggende urbane, da dove vengono certi culti religiosi (ho letto da poco un romanzo, Pastorale americana di Joseph Roth, dove la figlia del protagonista a un certo punto si dedica al giainismo: si mette una garza sulla bocca per non nuocere ai microbi, ed evita di lavarsi per non fare del male all'acqua), da dove vengono certe teorie di complotto?
Le teorie del complotto infatti sono un po' come le barzellette: non nel senso che fanno ridere (non solo), ma nel senso che le modalità di propagazione sono simili. Molto spesso non c'è un vero "autore": alcuni complottisti sono molto noti, ma di rado possono essere identificati come gli autori originari delle teorie cospirazioniste, poiché esse sono "nell'aria" e attecchiscono dove trovano del terreno fertile. A differenza della teoria della relatività, inoltre, è molto difficile sostenere che le cause del loro attecchimento si trovano nella loro corrispondenza alla realtà o nel successo nel prevedere o spiegare gli eventi. Esse corrispondono piuttosto a bisogni psicologici, e si alimentano dei pregiudizi o delle fobie della gente.
Come le barzellette, esse sembrano propagarsi ed evolversi per replicazione ed errore, nel senso che vengono ripetute acriticamente in maniera meccanica, salvo le innumerevoli varianti che acquistano vita indipendente, e delle quali è molto difficile rintracciare l'origine. La riprova del carattere "meccanico" o automatico del sistema di propagazione la si può ritrovare in qualsiasi forum di discussione sulle teorie cospirazioniste, e nella loro evoluzione altalenante e imprevedibile. Basti notare infatti come risulti pressoché impossibile superare o dare per acquisite certe nozioni: supponiamo che venga denunciata una certa "stranezza" della "versione ufficiale" per quanto riguarda il 9/11, come ad esempio il fatto che le rotte percorse dagli aerei mostrano manovre "impossibili". La cosa viene ripetuta fino a quando qualcuno non fa notare che le rotte disegnate in realtà non sono quelle ufficiali, le quali invece appaiono eseguibili senza difficoltà particolari. Il tema viene dimenticato per un breve periodo di tempo, ma dopo qualche mese un nuovo utente apre una nuova discussione dove denuncia il fatto, scandaloso, che gli aerei hanno percorso manovre impossibili. E si riparte da capo. Non si può dire che non esista un'evoluzione, ma di certo non c'è progresso.
Nonostante molti cospirazionisti amino definirsi "ricercatori", è fuor di dubbio che la ricerca scientifica non progredisce in questa maniera. I ricercatori non assimilano passivamente le nozioni ripetendole a pappagallo senza verificarle e senza aggiornarsi allo stato dell'arte della ricerca. I ricercatori vanno in cerca delle informazioni più attendibili, più aggiornate, e poi tentano di elaborarle personalmente (dove però per elaborazione personale non si intende, ovviamente, la prima boiata che viene in mente), e poi verificano di nuovo il frutto delle loro elaborazioni. No, le teorie scientifiche non assomigliano un granché ai memi di Dawkins.
Trovo interessante il fatto che una teoria avanzata al fine di rendere conto, in maniera sistematica e simil-quantitativa, dell'evoluzione della cultura, ovvero della più alta espressione della mente umana e della sua capacità raziocinante, riesca ad apparire promettente solo in quei campi ristretti dove la razionalità sembra fallire del tutto il suo compito.
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