
L'intelligenza: nessuno sa cosa sia, ma questo non ci impedisce di cercare di misurarla in qualche modo. Un articolo, molto interessante, di Gilberto Corbellini apparso sul "Sole 24Ore" del 14 marzo mi ha condotto a qualche riflessione sul tema.
L'intelligenza viene misurata di solito con un indice che è definito "quoziente" perché in origine si basava sulla divisione fra età mentale del soggetto ed età cronologica (moltiplicando il risultato della divisione per 100): ovvero, un bimbo di 10 anni che avesse ottenuto risultati ritenuti normali per un bimbo di 13, avrebbe ottenuto un quoziente di intelligenza di 130 (viceversa, un bambino di 13 anni con l'età mentale di un bimbo di 10, avrebbe avuto un QI di 77).
Per rendere i risultati confrontabili fra adulti, invece, si è ricorsi ad una distribuzione gaussiana, dove la normalità, o la media nella popolazione, è per definizione fissata a 100, e le persone vengono definite più o meno intelligenti a seconda di quanto si discostano da questa norma, cioè a seconda di quale punto della "curva a campana" occupano. I test d'intelligenza, che servono appunto a misurare il QI, sono di diverso tipo, ma i più comuni sono lo Wisc e lo Wais, sottoposti a continue revisioni, per vari motivi che vedremo più tardi.
La faccenda da sempre dibattuta è se e quanto i test d'intelligenza siano utili e affidabili nel misurare la qualità in questione (l'intelligenza) e la risposta non è semplice proprio perché l'intelligenza è una delle cose più difficili da definire. Si suppone che abbia a che fare con la capacità di risolvere i problemi e nell'adattarsi, grazie a questa capacità, all'ambiente e sopravvivere. Il problema è che, proprio perché l'ambiente può essere diverso, possono essere diverse anche le capacità di volta in volta più utili ad adattarsi. Una definizione basata puramente sull'esito non catturerà mai il significato del termine, perché è concepibile che in alcuni contesti sia proprio il contrario dell'intelligenza, l'ottusità, ad avere un maggior valore adattativo.
Uno sguardo ai compiti richiesti per superare un test d'intelligenza può farci capire meglio cosa intendiamo: ad esempio fanno parte della concezione comune d'intelligenza cose come la capacità di astrazione e di sintesi, il saper cogliere le similitudini, l'elaborazione delle forme tridimensionali (cosa nella quale ho scoperto di essere scarsino, ma ho la giustificazione della miopia, quindi come la mettiamo?), o il ragionamento di tipo matematico. In questo modo, però, rischiamo di definire l'intelligenza in maniera puramente circolare: l'intelligenza è quella cosa che viene misurata dai test d'intelligenza. Ci verrebbe a mancare, allora, qualsiasi termine di paragone in base al quale calibrare ed affinare i nostri test.
Questo non significa che i test non vengano, invece, continuamente calibrati ed affinati, solo che l'unica guida in questo è la nostra pre-comprensione intuitiva di ciò che è l'intelligenza, concetto che peraltro tende a modificarsi con l'evoluzione della cultura. Non daremmo, ad esempio, molto valore ad un test che attribuisse punteggi molto alti a chi non ha successo nella vita, e punteggi bassi a chi invece è pieno di gratificazioni personali. Per questo è un po' fuorviante dire che i test sono validi perché hanno successo nel predire il futuro delle persone: è normale che sia così, dato che sono stati costruiti proprio in base a questo criterio. Se al successo personale contribuissero anche fattori di tipo socio-culturale (come certamente capita), una definizione basata sui test rischierebbe in questo modo di cristallizzarli e perpetuare un ostacolo esterno alla realizzazione della persona.
Può far capire meglio il punto il fatto che alcune delle motivazioni dietro alle modifiche apportate ai test siano esplicitamente ideologiche e politiche. Ad esempio nei primi test le donne ottenevano regolarmente punteggi inferiori rispetto agli uomini. Questo inizialmente non poneva nessun problema: era tranquillamente accettato il fatto che le donne avessero un'intelligenza inferiore. Nel momento in cui le donne hanno ottenuto una considerazione sociale maggiore, quel risultato è divenuto inaccettabile, e il test è stato modificato in modo che le donne potessero far emergere, nei punteggi, le qualità in cui eccellono rispetto agli uomini. Lo stesso è stato fatto per alcune minoranze.
L'altro motivo per cui i test cambiano in continuazione (oltre a un necessario adattamento linguistico per i test di natura verbale, per tenere conto dell'evoluzione del linguaggio) è il fatto che la media, sorprendentemente, è in continua trasformazione. Ovvero, sembra che nell'ultimo secolo abbiamo guadagnato una trentina di punti, quindi i test devono essere resi sempre più difficili per non farci apparire tutti superdotati (il che sarebbe più che altro una contraddizione, visto il criterio con cui è assegnato il punteggio). È il cosiddetto "effetto Flynn", di cui parla nello specifico l'articolo di Corbellini, e le cui cause non sono state ancora del tutto chiarite, anche se ci sono varie ipotesi: è un tipo di risultato, comunque, che getta alcune ombre sul preteso carattere "innato" dell'intelligenza.
Un test si compone, di norma, di varie sotto-sezioni, che tendono a far emergere qualità di tipo diverso (ad esempio di verbalizzazione, oppure di logica). Ora, il fatto che i risultati in tutte queste sotto-sezioni siano fortemente correlati (ovvero una persona brava in un tipo di compito tende ad essere brava anche negli altri) è quello che fa pensare (nonostante la circolarità cui accennavo) ad un fattore generale d'intelligenza, che viene chiamato g: g sarebbe la realtà oggettiva dietro il test, ciò che viene effettivamente misurato. Può essere assimilato al talento musicale, che mette in grado di suonare non un solo tipo di strumento ma una certa varietà di essi. L'analisi multifattoriale è anche in grado di chiarire quali dei sottocompiti cognitivi messi alla prova in un test sono maggiormente influenzati da g: sono quelli in cui gli individui dal QI alto mostrano una maggiore deviazione dalla media (chi ha talento musicale, ad esempio, tende ad eccellere di più in uno strumento difficile come il violino che con la pianola Bontempi).
In effetti, l'esistenza di g (quale emerge dall'analisi) dimostra almeno che il nostro concetto d'intelligenza, che tentiamo di catturare in un test, non è del tutto vacuo o puro prodotto di artificio linguistico. Non si tratta cioè di capacità diverse amalgamate a casaccio, ma c'è effettivamente un qualcosa che ne viene catturato, anche se è difficile dire quanto precisamente. Questo è il motivo per cui tendo ad essere abbastanza d'accordo con le considerazioni svolte nell'ultima parte dell'articolo di Corbellini, dove viene fatta una critica alla "teoria delle intelligenze multiple" di Howard Gardner.
È una moda abbastanza recente, in psicologia e soprattutto in pedagogia, quella di liquidare il concetto di intelligenza generale per sostituirlo con una molteplicità di diverse "intelligenze", ciascuna dotata di una propria autonomia e dignità. Gardner ne individua almeno sette (poi diventate otto, forse nove):
1. Intelligenza logico-matematica, abilità implicata nel confronto e nella valutazione di oggetti concreti o astratti, nell'individuare relazioni e principi.
2. Intelligenza linguistica, abilità che si esprime nell'uso del linguaggio e delle parole, nella padronanza dei termini linguistici e nella capacità di adattarli alla natura del compito.
3. Intelligenza spaziale, abilità nel percepire e rappresentare gli oggetti visivi, manipolandoli idealmente, anche in loro assenza.
4. Intelligenza musicale, abilità che si rivela nella composizione e nell'analisi di brani musicali, nonché nella capacità di discriminare con precisione altezza dei suoni, timbri e ritmi.
5. Intelligenza cinestetica, abilità che si rivela nel controllo e nel coordinamento dei movimenti del corpo e nella manipolazione degli oggetti per fini funzionali o espressivi.
6. Intelligenza interpersonale, abilità di interpretare le emozioni, le motivazioni e gli stati d'animo degli altri.
7. Intelligenza intrapersonale, abilità di comprendere le proprie emozioni e di incanalarle in forme socialmente accettabili.
Cosa c'è che non va? Prima di tutto i motivi che stanno dietro l'accettazione di questa teoria sembrano avere a che fare più con la correttezza politica che con un genuino discorso scientifico. Essendo odiosa la discriminazione che viene operata sugli individui classificandoli in intelligenti e poco intelligenti, si cerca in questo modo di rendere qualunque persona un "diversamente intelligente", nella ragionevole speranza che ci sia almeno un qualche tipo di compito nel quale è in grado di cavarsela.
Ma la ragione principale per cui il discorso non mi pare che regga, è che in questo modo i vari concetti di "intelligenza" vengono davvero resi totalmente vacui e circolari, come la famosa virtus dormitiva di Moliére: "perché l'oppio fa dormire? perché ha dentro di sé una virtus dormitiva" (ovvero fa dormire perché fa dormire). E perché Tizio è bravo in matematica? perché possiede un'intelligenza matematica, ovvero è bravo in matematica perché è bravo in matematica. Scomporre l'intelligenza in tante abilità scollegate fra di loro, insomma, può sembrare inizialmente sensato, ma quel che otteniamo è solo una serie di banali e inutili tautologie. Meglio tornare a g, allora.
Il concetto di intelligenza presupposto da g non è affatto chiaro, e soffre anch'esso di una certa circolarità come abbiamo visto, ma non si può comunque dire che sia vacuo. Diciamo che si tratta di un grosso punto interrogativo, o una incognita nelle nostre equazioni. Dopotutto l'intelligenza non è una cosa inventata da qualche psicologo cattivo e razzista alla fine dell'Ottocento, come alcuni resoconti buonisti lascerebbero intendere, ma è concetto usato fin dall'antichità. Fuor d'ipocrisia, sappiamo tutti che ci sono persone più intelligenti e meno intelligenti, senza bisogno che venga a dircelo un signore in camice bianco.
Quello che gli antichi troverebbero strano, forse, è l'idea che la qualità oggettiva dell'intelligenza sia anche una quantità oggettivamente misurabile. Possiamo paragonarla al concetto di bellezza artistica. Esistono opere belle e opere brutte, libri bellissimi e boiate pazzesche, e non credo sia solo una questione di gusto soggettivo. Ciononostante, apparirebbe strana l'idea di dare ad una qualsiasi opera un punteggio in bellezza, e di poter confrontare fra di loro i capolavori della letteratura in base al punteggio ottenuto tramite una serie di parametri oggettivi.
Per questo, non sono del tutto sprezzante verso i test d'intelligenza. Potrebbero avere una qualche circoscritta validità in qualche ambito. Ma sono anche convinto che come misura del valore di una persona lascino il tempo che trovano. In fondo preferisco affidarmi al mio personale giudizio.