venerdì 27 dicembre 2013

orologi

Mi tocca interrompere il silenzio di questo blog solo per una, spero, rapida segnalazione antibufala (e naturalmente per sfogarmi un pochetto).

Qualche tempo fa è uscito un articolo sul Corriere Fiorentino nel quale si attribuisce al sindaco di Firenze Matteo Renzi (neo-segretario del PD) l'intenzione di aggiungere una lancetta all'orologio che si trova piazzato proprio sulla sede del Comune fiorentino, ovvero sulla torre arnolfiana di Palazzo Vecchio. Questo a quanto pare perché molti turisti rischiano di essere ingannati dalla mancanza della lancetta dei minuti (o più probabilmente scambiano il contrappeso dell'unica lancetta per una lancetta più corta). Rilievo, per chi conosce l'orologio e lo vede quasi tutti i giorni come il sottoscritto, indubbiamente esatto: non che i turisti, presumibilmente tutti muniti di orologi da polso e cellulari rischino di perdere chissà quante coincidenze, ma insomma si potrebbe comprendere il desiderio di non sfoggiare proprio nel cuore politico della città amministrata un orologio che sembra segnare l'ora errata.



In realtà, e a scanso di equivoci, io non credo che sarebbe una buona idea: l'orologio è sempre stato così e ci sono affezionato, e, certo, ha anche un valore storico che sarebbe opportuno preservare. Detto questo, però, quanto è grande questo valore storico-artistico? Al Corriere devono aver pensato che tutto sommato non fosse abbastanza importante, perché per dare rilievo alla notizia lo hanno ingigantito e attaccano subito il pezzo con: "la prima sortita del sindaco è un’altra lite con la storia. Vuole aggiungere la lancetta dei minuti all’orologio trecentesco della Torre d’Arnolfo". Se però si legge l'articolo fino in fondo scopriamo che l'orologio non è affatto trecentesco (come del resto dovrebbe essere evidente), perché quello che c'era venne sostituito dall'attuale nel 1667 (l'errore è ripetuto anche nella didascalia a corredo dell'articolo).

Ancora meno comprensibile, però, è la scelta dell'articolista di confondere le acque e aggiungere alle notizie storiche sull'orologio della torre di Arnolfo (ci viene detto ad esempio che oggi viene alimentato ad elettricità, ovvero che non sarebbe certo il primo intervento ad essere effettuato sul suo meccanismo), notizie intorno a un altro orologio, che non pare avere nessun ruolo in questo storia: quello che si trova sulla parete interna della facciata del Duomo fiorentino, la cui particolarità è di avere anch'esso una sola lancetta, ma soprattutto di avere un quadrante con ventiquattro ore e di scorrere in senso antiorario. Trattasi, incidentalmente, anche di un affresco dipinto da nientepodimeno che da Paolo Uccello, quindi sì, occorrerebbe una certa misura di follia per pensare di cambiarlo adeguandolo alle esigenze moderne (qui c'è una spiegazione di come vada interpretato, l'ultima ora non coincide con la nostra mezzanotte ma col tramonto).



Tutto questo non sarebbe molto importante, e meritevole di finire nel dimenticatoio insieme ai tanti articoli confusi e scritti un po' male che escono quotidianamente, se non avesse avuto una certa eco grazie all'opera di un blogger che mi dicono piuttosto stimato, il quale ha rilanciato la notizia, diffondendola ulteriormente nella rete, facendo però un po' di pasticci. Il post di Malvino in realtà è soprattutto una sequela di insulti rivolti a Renzi, devo dire dai toni piuttosto sgradevoli ("nome da bottegaio, faccia da cazzo..."). Esiste la libertà d'espressione (per quanto forse non estesa fino a coprire l'ingiuria, ma va beh), e se un blogger ritiene di dover catturare l'attenzione in questo modo a me va benissimo, per carità. Solo che quando l'unica annotazione di merito, che dovrebbe giustificare tanto livore da parte di chi si sente portatore di cotanta cultura, è una notizia completamente sbagliata, la sgradevolezza può trasformarsi in occasione di divertimento e direi anche di derisione nei confronti del denigratore.

Come si poteva prevedere infatti Malvino confonde le notizie relative ai due orologi, e crede che l'orologio arnolfiano abbia il quadrante dipinto da Paolo Uccello con le ventiquattro ore. Il post è stato modificato (vedremo poi come), quindi mi vedo costretto a una citazione dal post originario (che però è stato copiato altrove, ad esempio qui).

Non saprei, può darsi, però io le persone, nel pubblico e nel privato, le giudico per quello che mi danno da vedere. E per uno che in mancanza di altro in curriculum non smette di scassarci la minchia con la sua esperienza di sindaco di Firenze, a me basta la faccenda dell’orologio trecentesco della Torre d’Arnolfo di Palazzo Vecchio, per il quale Renzi non trova pace, perché ha un quadrante indicante le 24 ore ed è a lancetta unica che, a suo parere, inganna i turisti sull’ora esatta o, peggio, potrebbe dar da credere che l’amministrazione guidata da cotanto sindaco non lo regoli a puntino (e speriamo non s’accorga che il David di Michelangelo ha le gambe un po’ più corte di quanto ci aspetterebbe considerando la lunghezza delle braccia sulle curve auxologiche).
Non che sia mancato chi gli abbia fatto presente che quel tipo di orologio è caratteristico del XVI in cui fu creato dalle mani di Niccolò di Bernardo, e che ad aggiungere una lancetta si dovrebbe sostituire il quadrante, che è di Paolo Uccello, o la meccanica, che è di Giorgio Lederle, un geniale artigiano del XVII secolo.

Se fosse vero, ci sarebbe in effetti da mettersi le mani nei capelli, ma bastava leggere con attenzione l'articolo del Corriere o, in alternativa, guardare la foto che corredava l'articolo per rendersi conto che quello è un quadrante normalissimo (e non particolarmente bello) con dodici ore. Fatto sta che Malvino, dopo molti giorni e dopo essere stato copiato varie volte, si rende conto dell'abbaglio (forse perché gliel'ho detto io, in un commento al suo post non pubblicato). Solo che dall'alto della grande cultura e intelligenza con la quale può permettersi giudizi così sprezzanti, continua a non capire assolutamente nulla. Ecco infatti come viene modificato il post:

Non saprei, può darsi, però io le persone, nel pubblico e nel privato, le giudico per quello che mi danno da vedere. E per uno che in mancanza di altro in curriculum non smette di scassarci la minchia con la sua esperienza di sindaco di Firenze, a me basta la faccenda dell’orologio trecentesco del Duomo, per il quale Renzi non trova pace, perché ha un quadrante indicante le 24 ore ed è a lancetta unica che, a suo parere, inganna i turisti sull’ora esatta o, peggio, potrebbe dar da credere che l’amministrazione guidata da cotanto sindaco non lo regoli a puntino (e speriamo non s’accorga che il David di Michelangelo ha le gambe un po’ più corte di quanto ci aspetterebbe considerando la lunghezza delle braccia sulle curve auxologiche).
Non che sia mancato chi gli abbia fatto presente che quel tipo di orologio è caratteristico del XV in cui fu creato dalle mani di Angelo Niccolai, e che ad aggiungere una lancetta si dovrebbe sostituire il quadrante, che è di Paolo Uccello, o la meccanica, che è di Giuseppe Bargiacchi.

Con tanto di nota dove non si manca di prendere ancora in giro Renzi:

Nella prima stesura di questo post ho fatto un po’ di confusione tra questo orologio e quello che invece è sulla Torre d’Arnolfo di Palazzo Vecchio, che invece ha un quadrante indicante le 12 ore e ha la lancetta dei minuti: mi ha tratto in inganno la foto che corredava l’articolo sull’edizione locale del Corriere della Sera, ma adesso non vorrei che Matteo Renzi pensasse che per evitare sviste analoghe alla mia sia necessario pitturare le lancette con vernice fosforescente.

Insomma, stavolta e contro ogni logica Luigi Castaldi, in arte Malvino, si è davvero convinto che Renzi voglia deturpare l'affresco di Paolo Uccello che si trova nel Duomo (certo, e magari aggiungere i baffi al ritratto di Federico da Montefeltro). Affresco comunque non trecentesco. Ora qualcuno potrebbe dire, ok, ma non potevi limitarti a dirglielo invece di farci un post sul blog? Beh, ma io l'ho fatto, ecco con quali risultati:


Sì, mi rendo conto, non è un comportamento molto saggio e distaccato da parte mia usare il blog per simili ripicche (anche se, pensandoci bene, la maggior parte dei blogger non fa altro che questo), però ecco, questo è davvero tuttora convinto di aver ragione, e a me un po' dispiace. Le persone a volte dovrebbero essere protette dalla loro idiozia.

Aggiornamento: alla fine il post è stato corretto ed eliminati i commenti riportati sopra. Scuse non pervenute, ma l'importante è che la verità trionfi.

giovedì 17 ottobre 2013

la lista di Alianello

L'altro ieri – 15 ottobre 2013 – probabilmente sull'onda dell'indignazione scatenata dagli eventi e notizie che hanno seguito la morte di Erich Priebke, la Commissione Giustizia del Senato ha approvato una modifica dell'articolo 414 del codice penale (istigazione a delinquere) introducendo il reato di negazionismo ("la stessa pena si applica a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità"). La modifica sembrava aver avuto un plauso vasto e trasversale, rivelato dalla soddisfazione espressa da Napolitano ("è un merito del nostro Parlamento") e da Schifani, che così avrebbe affermato: "da oggi in poi sarà impossibile negare l’evidenza di una tragedia che ha segnato drammaticamente il secolo scorso", quasi come se l'emendamento istituisse non una fattispecie di reato, ma nuove prove e documentazioni a sostegno della veridicità di un evento storico. Quanto a me, mi è già capitato di esprimere in passato una viva contrarietà a simili iniziative, ma questo non è molto importante.

Ieri poi l'emendamento avrebbe dovuto essere stato approvato in sede deliberante in tempi record, cosa che trovo piuttosto singolare per un provvedimento di natura delicatissima sul quale il sospetto di incostituzionalità (per la violazione della libertà di pensiero e di espressione) è almeno lecito, ma la votazione è stata rimandata grazie all'intervento di quattro senatori M5S e un socialista. La cosa ha suscitato una certa delusione e rabbia nei confronti dei soliti bastian contrari pentastellati. Per la senatrice Finocchiaro il M5S "si oppone a tutto, anche a ciò che può servire al Paese: alle riforme di ogni tipo, come ai provvedimenti economici. E ora anche a una norma destinata a rendere giustizia alla memoria della deportazione degli ebrei e dell'Olocausto". Per Schifani invece "l'approvazione in sede deliberante avrebbe assunto oggi, in occasione del settantesimo anniversario del rastrellamento del Ghetto, un valore simbolico straordinario. Dispiace che anche un disegno di legge di così grande civiltà, diventi strumento di un'incomprensibile lotta politica".

Ieri, 16 ottobre, ricorreva in effetti il settantesimo anniversario di un tragico evento: la deportazione degli ebrei romani, che furono rastrellati in numero di 1024 (fra cui 200 bambini) dai tedeschi delle SS per essere trasportati in vagoni piombati ad Auschwitz da dove non avrebbero mai più fatto ritorno (tranne 16 eccezioni, fra cui una sola donna). Al proposito, proprio in questi giorni su Radio Tre all'interno della trasmissione Ad alta voce Moni Ovadia sta leggendo il libro di Giacomo Debenedetti 16 ottobre 1943, un libro e un ascolto consigliatissimi. Il racconto – sono poche pagine – di Debenedetti è di straordinaria bellezza e tanto più commovente se si pensa che è scritto praticamente a ridosso degli avvenimenti (nel novembre del '44, in una Roma ormai liberata mentre il settentrione era ancora occupato). Del destino degli ebrei deportati ovviamente nessuno sapeva nulla, ma risulta chiaro dalle pagine di Debenedetti che nessuno dei rimasti si faceva illusioni riguardo alla speranza di rivederli. Già si parla di camere a gas, forse si ignorava, ancora, l'estensione dello sterminio, ma era cosa ormai nota. Leggere quelle pagine rappresenta un antidoto all'ignoranza e al negazionismo mille volte superiore a qualsiasi disegno di legge.

Nell'edizione Einaudi del libro (in precedenza Editori Riuniti), oltre alla cronaca del 16 ottobre c'è comunque un altro articolo, sempre di Debenedetti e scritto nel settembre del '44, dal titolo Otto ebrei. Potrebbe essere descritto come un singolare gedankenexperiment di filosofia morale, se non parlasse appunto di un episodio realmente accaduto. Vi si narra infatti di un commissario di Pubblica Sicurezza che testimoniando davanti all'Alta Corte di Giustizia per la punizione dei reati fascisti (ricordo che siamo all'indomani della liberazione della città) attua una brillante strategia per accattivarsi le simpatie dei giudici antifascisti. Narra dunque l'Alianello (questo il nome del commissario) che – incaricato di cancellare dieci nomi "eccedenti" dalla prima lista per le Fosse Ardeatine – pensò bene di cancellare, oltre a due nomi a caso, quelli di otto ebrei. Debenedetti rimprovera in sostanza ad Alianello questa ingenuità, di credere di aver diritto alla simpatia dei giudici per aver privilegiato dei nomi di ebrei in quella lista. Solo che, afferma Debenedetti, si tratta di una "riparazione" che nessuno ha chiesto, e che in realtà non fa che replicare, anche se con segno diverso, la stessa odiosa discriminazione operata dagli aguzzini.

Sinceramente trovo un po' ingenerose le critiche di Debenedetti al povero Alianello (credo che da un punto di vista umano e psicologico l'impulso di riparare a un'ingiustizia commessa tramite la concessione di un privilegio sia più che comprensibile) ma è chiaro che per Debenedetti si tratta solo di un pretesto per fare un discorso ben più generale. Quello che è in gioco è il ritorno alla "normalità" dopo la tempesta nazista e antisemita, normalità che deve passare attraverso il riconoscimento dello status di semplici e niente affatto speciali (in senso sia positivo che negativo) esseri umani o cittadini, agli ebrei. Le sue parole sono molto forti, quasi scandalose. La cosa migliore che posso fare è copiarle, ricordando però, in questi tempi in cui si parla tanto di "emergenza antisemita" e sembra tanto urgente approvare nuove leggi, che sono state scritte – da un superstite – quando la guerra ancora infuriava, e lo sterminio non apparteneva alla Storia, ma era anzi in via di attuazione.

Pace ai nostri morti. Ma i vivi, che non capirono e non capiscono il perché della persecuzione, è giusto che si allarmino oggi di un'indulgenza altrettanto regalata. Questo di chiudere tutti e due gli occhi, di creare eccezioni a vantaggio degli ebrei, non è un modo di riparare dei torti. Riparazione sarebbe rimettere gli ebrei in mezzo alla vita degli altri, nel circolo delle sorti umane, e non già appartarneli, sia pure per motivi benigni. Questa è una antipersecuzione: dunque, fatta della medesima sostanza psicologica e morale che materiava la persecuzione. Se prima negli ebrei si puniva l'ebreo, oggi al vedere la situazione, non già corretta, ma semplicemente capovolta con sì perfetta simmetria di antitesi, può nascere il dubbio che negli ebrei si perdoni l'ebreo. E il perdono richiama l'idea di una colpa, di un trascorso.


[…] Ma chi, come gli ebrei, ha sete di libertà, una di quelle seti che tappezzano il palato: chi ha capito come la libertà sia letteralmente una questione di vita o di morte, è pronto a riconoscere che tra tutte le libertà che compengono la Libertà, è compresa anche la libertà di essere antisemiti. Un antisemitismo di uomini liberi, un antisemitismo (se non c'è contraddizione) liberale, contro cui sia dato di opporre validi argomenti e pertinenti confutazioni, apparirebbe perfino tonico, ravvivante, rigeneratore agli ebrei che escono ora dall'antichità dell'immobilità e del silenzio. Discutere finalmente all'aperto, misurarsi, farsi le proprie ragioni, uomini fra gli uomini, uomini di fronte agli uomini, non parrebbe nemmeno vero a loro, che fino a ieri erano costretti a nascondersi, a ringhiottirsi reazioni e risposte, a cambiarsi i connotati, diffidati persino di pronunciare il loro nome, cioè in parole povere di dirsi figli del loro padre.

 

domenica 6 ottobre 2013

contro il cibo

Quindi non sono più vegetariano. Un po' per motivi di salute (penso che una dieta carnivora sia più equilibrata e semplice da seguire), un po' per curiosità scientifica (ne ho parlato nei post precedenti), un po' perché non ci credo più molto. Forse ho ancora qualche scrupolo antispecista, e un po' di inquietudine nei confronti della realtà dei grandi allevamenti industriali, ma mi sono infine rassegnato al fatto che mangiare carne, o comunque sfruttare gli animali non umani per i nostri fini sia una cosa "naturale" – con tutte la cautele che si devono usare con questo termine –, ovvero una realtà inevitabile che si colloca al di là del bene e del male (questo non significa che si debba smettere di pensarci e di responsabilizzarci). Insomma il discorso è piuttosto complesso ma se qualcuno volesse rimettere in discussione il suo vegetarianesimo potrebbe cominciare da questo libro di Lierre Keith (che però ha argomentazioni peculiari che meriterebbero un discorso a parte).

I miei anni di vegetarianesimo – anni attraversati da varie incertezze e traballamenti – che precedono la mia conversione dietologica comunque non li rinnegherò mai perché credo che mi abbiano consentito di accumulare qualche punto di esperienza nel campo dell'antropologia applicata all'alimentazione, lo studio dell'atteggiamento fondamentale dell'animale uomo nei confronti del cibo. In definitiva ho scoperto una cosa: nel ventunesimo secolo siamo molto tolleranti nei confronti dei costumi altrui, possiamo sopportare chi parla in modo diverso o addirittura provare simpatia per lui, per chi ha il colore della pelle diverso dal nostro, per chi si veste in maniera diversa, per chi prega un altro Dio, per chi ha orientamenti sessuali alternativi, ma proviamo sempre un ineliminabile fastidio per chi mangia in maniera diversa da noi.

Si entra qui nel campo dei tabù alimentari: c'è stato un tempo in cui credevo, con Marvin Harris, che i tabù alimentari fossero solo dettati da convenienze di tipo economico-igienista, quindi da fattori in ultima analisi emotivamente neutri. Il tabù del maiale presso le popolazioni semitiche è molto sentito, certamente, e il disgusto è genuino, ma sotto sotto, per Harris, agisce la semplice inopportunità di allevare suini in determinati climi, o per gli indiani la non convenienza di usare la vacca come fonte di cibo rispetto ad altri usi. Tutto questo è valido, e credo faccia bene Harris a rifiutare le vacue spiegazioni culturaliste ("fanno così perché è la loro cultura"), però non spiega esattamente per quale motivo la gente, anche all'interno di una stessa cultura che condivide grosso modo gli stessi tabù alimentari, vive come un'offesa personale il fatto che altri non abbiano le stesse abitudini in fatto di cibo. Per esempio chi mangia l'aglio disprezza quelli che non lo mangiano, e viceversa.

Molti vegetariani certamente provano fastidio nei confronti dei non vegetariani, ma questo fastidio è abbastanza spiegabile dalla considerazione che i vegetariani ritengono la loro alimentazione più etica, o anzi meglio dal loro amore per i poveri animali vittime delle necessità culinarie altrui. Questo a sua volta potrebbe forse spiegare il fastidio che i non vegetariani provano per i vegetariani, che sono  considerati come una setta illiberale che cerca di convertire l'umanità intera al loro stile di vita. In realtà – lasciatemi dare un giudizio super partes – le sette sono almeno due: vi assicuro, amici carnivori, che non vi comportate affatto in maniera meno intollerante, e forse siete anche peggio perché muovete dalla consapevolezza di essere maggioranza (mentre la maggior parte dei vegetariani è più timida proprio perché teme una reazione da cui sa che uscirebbe sconfitta). Per ogni vegetariano che vorrebbe abolire l'uso della carne mettendo fuori legge le macellerie c'è un non vegetariano che pensa che occorrerebbe portare via i figli dai genitori vegan. Vi ammantate di parole come etica e responsabilità, ma la verità è che non vi sopportate a vicenda perché mangiate in modo diverso.

Questo vale anche per chi cerca di nascondere il fastidio per gli altri in parole d'ordine come "salute pubblica". Chi predica sventure e terrorizza il prossimo nel dipingere a tinte fosche l'inferno che aspetta chi si nutre di carni rosse, grassi saturi, e bibite zuccherate; chi si riempie la bocca della parola "biologico" e si fa il segno della croce davanti a conservanti e pesticidi; chi vorrebbe mettere le bombe alla Monsanto perché produce Ogm che fanno suicidare i contadini poveri, o chi ritiene legittimo spaccare la vetrina di un fast food poco prima di recarsi al ristorante di lusso a versarsi del barolo. Ma vale anche per chi, cibandosi come desidera legittimamente cibarsi, non resiste al dileggio nei confronti di chi non lo accompagna; chi "compatisce" i vegetariani e i salutisti, ma non si limita a compatirli interiormente, ma deve ruttargli in faccia la sua pietà; chi concepisce il mangiare zozzo come una manifestazione di virilità da esibire a tutti come certi si aprono l'impermeabile ai giardinetti, e condisce ogni boccone con le sue battutine salaci sugli altri, i diversi.

Probabilmente, e sono consapevole di non dire nulla di originale, il cibo è considerato un rito non solitario, collettivo, che riguarda l'intera comunità e che quindi non fa parte della sfera rigorosamente privata e individuale come il sesso. Quello che uno di noi mangia è allora un atto che ci riguarda tutti, e il non adeguarsi alle norme collettive è visto come un gesto che spezza i vincoli della comunità e la mette in pericolo. E d'altra parte, chi non vuole adeguarsi non si accontenta di nascondersi nella sua cameretta ma pretende che sia l'intera comunità a seguirlo, e si metterà a predicare il suo nuovo verbo (esattamente come ho fatto anch'io, del resto).

I detti popolari ci vengono in aiuto: "chi non mangia in compagnia è un ladro o una spia", "chi mangia solo si strozza", "far finire tutto a tarallucci e vino" quando si fa la pace (ma se a me non piacessero i tarallucci o fossi astemio si continua la guerra?), e "spezzare il pane" come simbolo di fratellanza, di unione. Quello dello spezzare il pane è in particolare un gesto di speciale significato per i cristiani, in quanto simbolo della comunità dei fedeli unita nel corpo di Cristo. Torna qui, un parallelo che mi è già capitato di svolgere un paio di volte: quello fra una dieta e una religione, e i dietologi come nuovi leader spirituali. Ciò spiega facilmente perché ogni religione è dotata di specifici tabù alimentari (al di là del rinforzo dato dalle ragioni puramente materiali harrisiane) destinati da un lato a rinforzare i vincoli sociali all'interno della comunità di fedeli, dall'altra a identificare facilmente i nemici, quelli esterni e i dissidenti interni.

Il punto però è che mentre le religioni tendono alla secolarizzazione, e anche alla privatizzazione del sentimento religioso (come faccenda privata intercorrente fra il fedele e Dio), è rimasta tutta la forza del tabù alimentare sganciato ormai dal suo fondamento religioso, come fatto simil-religioso a sé stante. Abbiamo laicizzato lo Stato, ma non la tavola. Così quando il signor Barilla afferma che non vuole coppie dello stesso sesso a tavola nelle sue pubblicità scoppia il finimondo proprio perché il diritto a pubblicizzare i propri prodotti come meglio si desidera viene considerato meno importante della inclusione dei gay nella grande Chiesa dello spaghetto (non volante) che ci identifica anche in quanto italiani, inclusione messa a repentaglio dalle sventurate parole di Barilla. Forse sarebbe il momento di una rivoluzione culturale anche in questo senso.

Ora, io non so se esiste un rimedio, e quale potrebbe essere. Mi piacerebbe che la gente condividesse meno fotografie di pasti su Instagram o Facebook, in quanto appunto momenti intimi e personalissimi, oppure che tali foto fossero almeno confinate in spazi appositi come i filmini pornografici, in modo che non feriscano la sensibilità di nessun innocente; mi piacerebbe anche che la televisione pubblica destinasse meno spazio a trasmissione di orrenda propaganda culinaria (a proposito, ricordate il caso Bigazzi? tanto rumore per la ricetta del gatto? era un'improbabile faccenda animalista o una questione religiosa?), ma ovviamente non me la sentirei di imporlo per via legale. Forse basterebbe solo un po' di educazione in più.

martedì 24 settembre 2013

la termodinamica e i carboidrati

Da qualche settimana mi sono messo a dieta. Non c'è nulla di straordinario né di particolarmente interessante in questo, ma come tutte le persone a dieta ammetto che in questi giorni mi è difficile pensare a molto altro. Ma nel mio caso in realtà l'interesse che provo non è tanto rivolto al cibo e agli effetti sul mio corpo, quanto alla verifica di certe ipotesi. Sono abbastanza fortunato da godere di buona salute e non avere un problema di obesità, quindi non mi sono mai preoccupato molto di quello che mangio (piuttosto, sono o anzi ero vegetariano per motivi squisitamente etici).

C'è però la questione intellettuale di cui mi sono già occupato nel post precedente a questo, un interesse in un dibattito scientifico alimentato da recenti letture. Quali sono le cause dell'obesità (e di altre malattie?). E quali sono le diete più efficaci per perdere peso? Essendomi fatto un'idea, ho così  deciso di metterla alla prova personalmente (pur essendo consapevole che in realtà il valore dell'esperimento scientifico condotto su un singolo soggetto per di più biased è abbastanza scarso). Oltre a una questione di mera curiosità, a dire il vero, c'è una questione anche, volendo, morale, ovvero di riparazione di ingiustizie protrattesi per decenni.

Sembra che la preoccupazione principale di quelli che si occupano del problema dell'obesità, a quanto pare in costante e drammatico aumento nei paesi sviluppati, sia quello di trovare un colpevole, prima di trovare una soluzione. Dopo che i malati di Aids hanno vinto la loro battaglia per non essere considerati da tutti dei peccatori meritatamente puniti per il loro comportamento sregolato l'obesità è ancora vista come un marchio d'infamia, uno stato che non può conoscere scusanti di sorta. Eccezione concessa, forse, solo agli infanti, ma solo per spostare la colpa senza nessun tipo di sforzo intellettuale al più facile bersaglio (da sempre e per qualsiasi cosa riguardi i bambini), ovvero i genitori, colpevoli di maltrattamento e meritevoli di gogna, come suggerito da questo articolo (un esempio fra tanti) o dal seguente poster demotivazionale.
Infatti i genitori dei bambini grassi sono di solito grassi a loro volta, in quanto ghiottoni, ed è chiaro che il loro desiderio è quello di riscattarsi da una vita di prese in giro rifacendosi crudelmente sulla prole, alla quale viene imposta fin dalla nascita una dieta a base di trippa infilata a forza nel cavo orale. L'idea che i genitori, normalmente, provino amore per i loro figli e desiderino il loro bene non sfiora i nostri censori. Figuriamoci se possono essere sfiorati dalla genetica, dal fatto che i bambini tendono ad assomigliare ai loro genitori anche in maniera del tutto indipendente dagli espedienti che questi adoperano per renderli simili. Tanto che il figlio di genitori obesi adottato alla nascita, udite udite, avrà praticamente le stesse probabilità di diventare obeso che se fosse cresciuto nella sua famiglia naturale (facendo i debiti aggiustamenti per reddito, nazionalità, ecc.), come dimostrano anche gli studi effettuati sui gemelli.

Il peso corporeo, in ogni caso, è universalmente visto come una diretta conseguenza di un fattore comportamentale semplicissimo che si riassume ancora una volta nella più crudele delle massime che derivano dalla cosiddetta saggezza popolare: se vuoi dimagrire "magna di meno". Una condanna moralistica travestita da ovvietà, perfida quanto il suggerire a una persona depressa di sorridere di più. La folk science prosegue, nella sua demolizione di qualsiasi tentativo di giustificazione del grassone che giura di non mangiare affatto quelle porzioni da elefante che lo si accusa di ingurgitare, con l'altra picconata inferta anche ai valori dell'umanità e della civiltà: "ad Auschwitz nessuno era grasso", quasi come se il problema non fosse quello di dimagrire restando in buona salute e senza dover sopportare le torture fisiche e morali di un detenuto in un campo di sterminio, cosa difficilmente raggiungibile con un mero sforzo di volontà.

Dalla colpa individuale i moralisti passeranno poi a mettere sotto accusa l'intero sistema dei valori su cui si basa l'Occidente, l'avidità, il consumismo, il liberismo economico, il laissez-faire, mali dei quali l'epidemia di obesità è un simbolo oltre che un contrappasso evidente. Nel famoso film di Morgan Spurlock di qualche anno fa, Super Size Me, il colpevole diventa appunto la catena di fast food McDonald, responsabile del crimine di vendere cibo, e implicitamente tutta l'industria alimentare se non l'intero sistema capitalista, che ci forza a consumare sempre di più, violando e non rispettando il nostro prezioso ecosistema naturale, simboleggiato nel film dalla fidanzata-fata turchina chef vegetariana che alla fine salva il protagonista-pupazzo nelle mani delle multinazionali con una dieta veg in armonia con la Natura.

Il problema di un film del genere, e dell'esperimento che ne è al centro, è che può servire a indignare, a mobilitare le coscienze, ma non si sa esattamente contro che cosa. Non serve infatti a stabilire con precisione quali potrebbero essere le cause del peggioramento di salute che Morgan Spurlock avrebbe sperimentato, non serve quindi a trovare rimedi che siano altri dal manifestare contro la McDonald simbolo della iniquità del mondo moderno, e forse organizzare azioni legali che renderanno ricchi certi avvocati e associazioni ma non renderanno meno grassi gli americani. In questo caso, la responsabilità, bisogna ammetterlo, è spostata dall'individuo, assolto in quanto stupido, alla società, ma il contenuto moralistico tuttavia rimane immutato. Su questi temi segnalo il brillante documentario-replica di Tom Naughton Fat Head.

Le conclusioni e gli indirizzi della odierna scienza alimentare si sono formati in un periodo storico che è coinciso in effetti con l'esplosione dell'economia del benessere diffuso, della prosperità. Questo e il fatto che esiste un'intera classe di malattie certamente definibili come "malattie della civiltà", nel senso che sono ignote o rarissime presso i popoli che sono appunto rimasti tagliati fuori dalla storia, ha generato una reazione di rifiuto culturale (si pensi alle comunità hippy) che non poteva non influenzare anche la ricerca scientifica, e suggerire come la soluzione dovesse passare almeno in parte attraverso il ritorno a forme di esistenza più "naturali", invito anche sensato sul piano strettamente medico-sanitario (vi è sicuramente qualcosa, nel nostro modo di vita, che ci danneggia) ma rischiosamente intrecciato appunto ad atteggiamenti moralistici che non aiutano a fare chiarezza. E il principale accusato – mai veramente messo in discussione se non da dietologi come Atkins sistematicamente criminalizzati come irresponsabili a caccia di facili guadagni – divenne così l'eccesso di calorie, secondariamente l'eccessivo consumo di grassi e di carne rossa.

Cerchiamo allora di capire qualcosa di più e di meglio. La folk science, la setta del "magna di meno", con l'approvazione purtroppo di buona parte dei dietologi, invocherà come sostegno alla sua tesi il più citato e abusato dei principi scientifici (citato spesso ad esempio dai complottisti dell'11 settembre quando pretendono di dimostrare che le torri gemelle mica potevano cadere come sono cadute, senza barbatrucchi): il principio di conservazione dell'energia, trasformando una macchina complessa quale il corpo umano in un mero recipiente di calorie, il cui peso dipende senza altre complicazioni da quanto entra e quanto esce. Sei sei grasso vuol dire che mangi troppo oppure che non fai abbastanza esercizio fisico, cioè sei un goloso incontinente oppure un pigro, nessuna alternativa o giustificazione.

Soffermiamoci su quest'ultimo punto, essendo innegabile la sua apparente forza. In realtà, che le persone grasse mangino troppo rispetto a quanto consumano, o che brucino troppo poco rispetto a quanto mangiano, è una tautologia, e in effetti una diretta implicazione del principio di conservazione dell'energia. Proprio perché affermazione tautologica, però, non è informativa. Non sappiamo cos'è questo troppo. Non importa che ci domandiamo quanto effettivamente mangia (o sta bruciando) una persona grassa, se si tratta di due calorie al giorno oppure 10.000, è chiaro che sarà sempre troppo, dal momento che è grasso: l'aumento di peso non è causato da uno sbilancio energetico, è uno sbilancio energetico. Quello che trascuriamo di chiederci, quando pronunciamo tautologie con l'aria di avere fatto grandi scoperte, è appunto quali potrebbero essere le cause di questo sbilancio. Non sappiamo qual è la direzione causale, qual è la causa e qual è l'effetto, e nemmeno se le due variabili, quella delle calorie in entrata e quella delle calorie in uscita, siano indipendenti come l'argomento "magna di meno" tenderebbe ad assumere.

Potrebbe darsi benissimo che uno mangi tanto proprio perché grasso e non viceversa: espressa in maniera più precisa, può darsi che l'organismo non riesca a trasferire abbastanza rapidamente le risorse energetiche dalle riserve contenute nei tessuti adiposi alle cellule, laddove c'è bisogno per il loro funzionamento, e per questo richieda ancora maggiori risorse sotto forma di alimentazione, risorse in più che andranno per la maggior parte a depositarsi, ancora una volta, nei tessuti adiposi  – invece di essere usate come combustibile – per un difetto dell'organismo. Se a una persona con questo difetto chiediamo di mangiare meno le sue cellule saranno ancora ancora più bisognose di energia, cosa che determinerà necessariamente un calo compensativo dell'attività fisica. Se a questa persona chiediamo di fare esercizio fisico il mancato apporto energetico a livello cellulare determinerà un attacco di fame acuta.

Una persona priva di questo difetto metabolico, se mangiasse più del necessario, compenserebbe in maniera naturale bruciando le calorie in eccesso, e se viceversa conducesse una vita troppo sedentaria compenserebbe mangiando di meno (non provando gli stimoli dell'appetito). Ora, la regolazione del metabolismo per mantenere costante il proprio peso è una delle prime cose che hanno imparato gli esseri viventi, un trucco che riesce benissimo persino agli organismi unicellulari, nel nostro caso probabilmente settata in maniera profonda nell'hardware del nostro sistema nervoso. Ha senso ipotizzare che possa essere guidata dalla nostra volontà razionale, dal nostro comportamento volontario? E che un difetto metabolico nel rapporto tra calorie in entrata e calorie in uscita possa essere corretto grazie al controllo cosciente di ciò che mangiamo e di quanto ci muoviamo? Che possiamo fregare il nostro corpo così facilmente? Come diceva Pascal "il corpo ha le sue ragioni, che la ragione non conosce" e mai detto si è dimostrato più vero se pensiamo alle ragioni dei dietologi ortodossi.

Non c'è quindi nessuna violazione del principio della conservazione dell'energia (anzi, si è fatto uso di esso), nell'ipotizzare che esista un difetto, probabilmente ormonale, responsabile dell'eccessivo aumento di peso (e forse anche dell'eccessiva magrezza come nell'anoressia) e dell'obesità, e non un difetto psicologico e comportamentale. Si può naturalmente anche ipotizzare quali siano le cause ambientali che favoriscono l'emergere di questo difetto in una grande fetta di cittadini (è impossibile che siano puramente genetiche visto l'andamento epidemiologico). Senza farla troppo lunga e senza trasformare questo post in una troppo noiosa dissertazione, è da circa 150 anni che ogni tanto riemerge, per poi come dicevamo essere ricacciata nell'oblio, la teoria di una dieta ricca di carboidrati e zuccheri (specialmente se raffinati) come particolarmente cicciogenica, mentre una dieta povera o addirittura priva di carboidrati servirebbe a perdere peso. Il primo a proporla, e sperimentarla con successo su di sé, fu un certo William Banting nel 1867 (curiosamente questo Banting è lontano parente di Frederick Banting, premio Nobel per la scoperta dell'insulina, ormone ritenuto dai lowcarbonari il principale responsabile dell'aumento di peso). In tempi più vicini a noi ci sono stati la dieta Atkins, il metodo Montignac, la Zona, e la più recente dieta Dukan (che però, a mio avviso sconsideratamente, elimina anche i grassi). Ed è questa ipotesi che mi accingo a testare tramite una dieta rigorosamente lowcarb, ma altrimenti ricca in calorie e in grassi (saturi o insaturi non mi importa).

Un cambiamento di paradigma scientifico, purtroppo, non sempre è accompagnato in maniera istantanea da un corrispondente cambiamento di mentalità. Ne è la prova per esempio un libriccino di Guia Soncini, Come salvarsi il girovita, che non è esattamente un libro di dietetica, ma più un trattatello sulla mania (giustamente paragonata a una sorta di fervore religioso) per le diete e per la ricerca della linea perduta. Ora, la Soncini non è una scrittrice di scienza ma piuttosto una fustigatrice di costumi (spesso anche acuta), per cui è giusto che ci faccia la morale, ma ci si aspetterebbe almeno un po' di coerenza. Invece riesce a scrivere più volte nel corso del libro quella frase che odio ("magna di meno") accompagnata dalla considerazione che i grassi, come i tossici, "mentono sempre", praticamente nella stessa pagina in cui ha appena celebrato Karl Lagerfeld per aver perso 42 chili in 13 mesi evitando i carboidrati. Riesce a dire "ricordate quando contavamo le calorie? che ingenuità" e poco dopo disserta sul fatto che le "magre naturali" sono tali perché a loro non piace mangiare.

Ma il principio alla base del motto "magna di meno" è che "una caloria è una caloria", ovvero non esiste nessuna differenza, ai fini dell'aumento di peso, fra una caloria di carboidrato e una caloria di grasso o proteine. Non conta quello che mangiate, conta solo quanto mangiate. Ed è un principio evidentemente opposto all'ipotesi del carboidrato, secondo cui le calorie non contano, ma conta cosa l'organismo decide di farne, il che dipende anche da che tipo di calorie sono (sostanzialmente: gli zuccheri nel sangue aumentano il livello di insulina, la quale inibisce la mobilitazione dei grassi che rimangono lì a ingrossarci la pancia o il sedere). Se c'è una morale sulla quale potrei invece essere d'accordo con l'autrice è che in effetti non si ottengono risultati senza sacrifici, come alcuni libri di diete troppo entusiasticamente promettono. Ma insomma, nessuno può essere così pazzo da sostenere davvero che fare a meno del pane, della pasta, della vera pizza napoletana, non costituisca un grosso sacrificio. Siamo seri, siamo italiani.

P.S. come sta andando il mio esperimento: in tre settimane di dieta rigida ho perso almeno quattro chili, passando da 80 a 76 e rientrando nel peso forma (qualche cosa devo averlo perso nei mesi precedenti perché ricordavo una misura della bilancia anche più severa). Sto cercando di tenere alto il numero di calorie giornaliere facendo colazioni abbondanti "all'inglese", ma ammetto che non è facile perché una degli effetti di una dieta lowcarb è proprio la perdita dell'appetito, che limita la quantità di cibo ingerito a pasto. Questo è naturalmente è uno dei punti a suo favore (le diete solo ipocaloriche ottengono prevedibilmente l'effetto opposto) ma rende più problematico smontare la tesi "una caloria è una caloria" (resterebbe comunque vero che la buona volontà non basta, non essendo la fame un impulso facilmente controllabile).

P.P.S. la mia principale fonte d'informazioni è questo libro di Gary Taubes, che sta avendo un notevole impatto e ha resuscitato l'interesse per le diete lowcarb anche da parte delle autorità scientifiche. Annotazione: Taubes è un ottimo esempio di quello che è o dovrebbe essere un giornalista scientifico. Non è uno scienziato, non ha idee originali da proporre e non fa ricerche scientifiche in proprio, ma espone i risultati che già esistono e che attendono solo di essere conosciuti. Un lavoro che fa un gran bene anche alla scienza, quando ben eseguito.

venerdì 23 agosto 2013

obesità e Stato


L'Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un libro, dal titolo Obesità e tasse, che raccoglie vari saggi che indagano sui presupposti e sulle possibili conseguenze di una tassazione selettiva rivolta a particolari generi di consumo accusati di essere deleteri per la salute, e di causare obesità e problemi cardiaci, come bibite gassate o cibi ricchi di grassi saturi (en passant, il libro ha l'introduzione del mio amico Massimiliano Trovato).

Essendo l'IBL notoriamente di ispirazione liberale non sorprenderà che le conclusioni siano nettamente contrarie a qualsiasi politica che "punisca" i comportamenti individuali con criteri che appaiono almeno moralistici se non repressivi, ispirandosi talvolta a quel "paternalismo libertario" di Thaler e Sunstein (la politica delle "spintarelle" bonarie al posto dei divieti) che sembra spesso solo la copertura ideologica del paternalismo autoritario di vecchio stampo. È in effetti difficile qualificare come maggiormente libertaria una repressione fondata sulla tassazione piuttosto che sui divieti, quando ne risulta una identica o molto simile privazione di libertà individuale.

In realtà debbo confessare che io non mi sono mai scandalizzato troppo, in precedenza, delle accise ad esempio sulle sigarette, ritenendole un lampante caso di esternalità, o meglio una semplice e immediata conseguenza del fatto che la gestione della salute in paesi come il nostro non è lasciata all'iniziativa del singolo ma è collettivizzata, il che implica che vengano scaricati sulla collettività anche i rischi e le eventuali conseguenze dei propri comportamenti per quanto irresponsabili. Come correttivo sarebbe quindi equo che chi si assume volontariamente maggiori rischi paghi anche una quota proporzionalmente maggiore dei costi della sanità (un po' come funziona con le assicurazioni private: nessuno si scandalizza che un pilota di formula 1 abbia un premio assicurativo più alto). Anzi: secondo me una volta ammesso come necessario e doveroso l'intervento dello Stato sulla sanità potrebbe qualificarsi come incoerente e persino immorale (da tipico "furbo") appellarsi a principi liberali per opporsi a tali politiche. Se si è statalisti lo si dovrebbe essere sempre, anche quando non fa comodo (e naturalmente viceversa).

Questo argomento dell'esternalità è naturalmente vagliato dal libro, e respinto, per motivi che ho trovato in qualche caso convincenti, mentre non sono riuscito del tutto a persuadermi che il peccato originale dell'intervento statale non debba implicare necessariamente anche un certo tipo di controllo sui comportamenti al fine di correggere le esternalità negative (o promuovere quelle positive). Uno degli argomenti convincenti, scendendo nel piano concreto delle possibili proposte legislative, è che non è affatto detto che i consumatori di prodotti considerati junk food abbiano tutti uno stile di vita poco sano. Tassare la Nutella, per esempio, avrebbe l'effetto di punire in maniera identica sia chi ne abusa danneggiando se stesso sia chi ne fa un uso del tutto compatibile con uno stile di vita altrimenti sano e "corretto" (e allora sarebbe più giusto tassare direttamente gli obesi piuttosto che gli alimenti che si presume causino l'obesità). Una simile imposta inoltre sarebbe regressiva (colpirebbe in misura maggiore le fasce più deboli della popolazione), e infine inefficace (o addirittura dannosa) ovvero non riuscirebbe a raggiungere gli obiettivi che si propone.  Si sostiene, ad esempio, che una tassa sugli alcolici potrebbe portare paradossalmente al consumo (e alla produzione) di prodotti contenenti più alcol, per ottenere il massimo dell'effetto con la minore spesa.

Detto questo, comunque, il passaggio dell'introduzione che volevo sottolineare, in particolare, è il seguente:
Il presupposto tacito dei nove capitoli che compongono questo volume è che l'evidenza scientifica indichi un chiaro nesso di causalità tra il consumo di alimenti politicamente scorretti – cibo spazzatura. grassi, dolciumi, bibite zuccherate… – e l'insorgenza dell'obesità. Per meglio dire, la nostra trattazione prescinde dalle giustificazioni cliniche invocate per questi provvedimenti perché queste appaiono superflue nell'esaminare gli effetti della tassazione selettiva sugli alimenti. Si tratta di una discussione da condurre con gli strumenti intellettuali del diritto e dell'economia, non con quelli della medicina. Ciò nonostante, è evidente che, in mancanza di tale collegamento eziologico, verrebbe meno la stessa ragion d'essere delle tasse sui grassi.
Ora, temo che non sia poi così semplice separare i piani del diritto e dell'economia da quello della medicina e dell'evidenza scientifica tout court. O meglio, potrebbe essere interessante andare a vedere quali sono gli effetti dell'interferenza statale sulle stesse conclusioni scientifiche che dovrebbero servire a giustificare l'interferenza sui consumi individuali. Per accorgersi probabilmente che le conclusioni "scientifiche" sono già compromesse e contaminate dall'intervento pubblico, dall'origine.

Uno dei saggi contenuti nel libro critica l'approccio alla lotta alle malattie delineato dall'epidemiologo Geoffrey Rose, in un influente articolo pubblicato nel 1985 sull'"International Journal of Epidemiology", dal titolo Sick Individuals and Sick Populations (articolo breve e accessibile anche ai profani). Geoffrey Rose suggerisce che esistono due diversi approcci alla prevenzione del rischio, ciascuno con i suoi pro e contro: uno cerca di individuare, all'interno di una data popolazione, quali sono i soggetti più a rischio per una determinata malattia, e quindi offre misure tarate su quegli individui specifici. È quello più intuitivo e immediato, perché sembra rivolgersi alle cause immediate della malattia: se solo (o prevalentemente) gli individui dotati della caratteristica X si ammalano, occorre rivolgersi solo agli individui dotati della caratteristica X, in quanto i soli potenziali beneficiari dell'intervento – individui per i quali, inoltre, non occorrerà ricorrere a espedienti particolarmente complicati al fine di motivarli ad assumere i comportamenti appropriati.

L'altro approccio però, dice Rose, è più radicale e va più in profondità, perché non si rivolge solo alla causa delle variazioni individuali nell'esposizione alla malattia in una data popolazione, ma alla causa stessa dell'incidenza della malattia in quella popolazione, due cose che non sempre coincidono. È quel che può accadere ad esempio quando un'intera popolazione è esposta allo stesso fattore di rischio: se tutti fumassimo venti sigarette al giorno, allora la spiegazione del perché alcuni si ammalano di cancro ai polmoni e altri no (la causa della variazione) sarebbe principalmente genetica, ma la causa dell'incidenza della malattia nella popolazione sarebbero proprio le sigarette. Causa che potrebbe rimanere inosservata proprio a causa della sua onnipresenza (il che porterebbe a scambiare il tumore ai polmoni per una malattia genetica invece che ambientale).

In questo caso, una campagna di educazione volta a ridurre o ancora meglio eliminare del tutto il consumo di sigarette presso l'intera popolazione sembrerebbe più opportuna di un intervento mirato ai soggetti considerati a maggiore rischio (per ragioni genetiche o altro). Da un punto di vista individuale il vantaggio della maggior parte delle persone potrebbe essere scarso o quasi nullo – di modo che per motivarle occorrerebbe ricorrere a forme di pressione psicologica e sociale (ostracismo verso i fumatori) che vanno al di là del mero prospettare i guadagni in termini di salute – mentre dal punto di vista dei grandi numeri e della popolazione nel suo insieme l'intervento risulterebbe invece in una spettacolare diminuizione del numero dei morti (un altro esempio poco controverso che si può richiamare qui è quello dei vaccini).

È innegabile che la logica (almeno apparentemente) stringente di Rose offre un'arma molto potente ai fautori dell'intervento statale e del controllo capillare dello Stato sul comportamento e le preferenze dei cittadini. In realtà è stata discussa e criticata, come viene criticata nel libro dell'IBL, perché almeno nel caso dell'obesità e delle malattie legate alla cattiva alimentazione sembrerebbe appunto avere l'effetto politicamente poco raccomandabile di esacerbare le diseguaglianze. Nell'ipotesi che vengano tassati i grassi e incentivato il consumo di verdure, per esempio, dal momento che sembrano essere proprio le fasce più povere della popolazione a consumare maggiormente i prodotti considerati dannosi e quindi tassati (e sono le fasce più facoltose ad avere già un'alimentazione più "sana"), l'ulteriore peggioramento delle condizioni economiche di queste fasce potrebbe non essere compensato dai benefici o da un sufficiente cambiamento delle abitudini alimentari (qui c'è una discussione e una difesa da questo tipo di rilievi). Potrebbe semmai essere consigliabile un approccio intermedio e maggiormente strutturato (che miri non alle grandi masse e nemmeno agli individui ma ai gruppi).

Quello che preoccupa me, comunque, è in realtà un'altra cosa, ed è uno scrupolo di tipo più scientifico che politico. Quel che temo, cioè, è che il discorso di Rose possa servire a giustificare un massiccio intervento statale sui consumi delle masse (con le distorsioni economiche che ciò comporterebbe), anche in presenza di una scarsa o nulla evidenza riguardo alle supposte cause della malattia che si vuole colpire, cosa anzi che è probabilmente successa nel caso della lotta all'obesità e alle malattie cardiache. Si è sostenuto, cioè, che l'assenza di una comprovata e solida correlazione fra il consumo di grassi e il rischio di malattie cardiache all'interno di una popolazione non dimostra la mancanza di un nesso causale, perché le abitudini alimentari potrebbero essere troppo omogenee. Invece che cercare le variazioni all'interno delle popolazioni bisognerebbe quindi confrontare l'incidenza della malattia in popolazioni diverse con abitudini alimentari che divergono radicalmente.

Rose in bibliografia cita un famoso studio di Ancel Keys, noto come Seven Country Study, che è stato appunto una tappa importantissima nella strada che ha portato a demonizzare i grassi saturi. Se cercate Ancel Keys su Google potreste accorgervi che il tizio, in effetti una delle personalità più influenti del secolo scorso (l'inventore della dieta mediterranea!) è decisamente poco popolare tra i fautori delle diete no- o lowcarb o paleolitica, proprio per il ruolo avuto nell'instaurazione degli attuali dogmi alimentari. Si afferma in genere che Ancel Keys abbia scelto i paesi, per il suo confronto, che già sapeva avrebbero sostenuto la sua ipotesi mostrando una correlazione tra consumo di grassi e malattie cardiache, più frequenti in America e in Finlandia e meno in Grecia, Italia e Giappone – correlazione che sarebbe sparita includendo altri paesi (la realtà, come sempre, è sicuramente un po' più complessa di così).


Il buon senso e poche nozioni di statistica, però, mi dicono che anche in presenza di una correlazione non abbiamo ancora un nesso causale, e questo in realtà dovrebbe essere tanto più vero proprio quando si confrontano tra loro popolazioni diverse, laddove le possibili spiegazioni concorrenti possono essere molte. In realtà mi pare che la precauzione dovrebbe andare nell'altro senso, e che cioè invece di dire "anche se non abbiamo trovato differenze significative all'interno della popolazione questo non significa che la nostra ipotesi sia sbagliata" (il che naturalmente può essere vero) occorrerebbe piuttosto dire "anche se abbiamo trovato una correlazione fra il rischio e le abitudini alimentari di differenti popolazioni la nostra ipotesi non può dirsi corretta finché non dimostriamo che lo stesso fattore causale è in grado di predire o spiegare le variazioni anche all'interno di una stessa popolazione". Si tratta in fondo del popperiano principio di falsificazione, occorre andare in cerca dei dati che smentiscono la nostra ipotesi, non in cerca di conferme. Esattamente il contrario di quanto prospettato da chi usa l'approccio della popolazione per intervenire sui grassi e le malatte cardiocircolatorie

Il ponderoso libro di Gary Taubes, Good Calories, Bad Calories, oltre che essere una critica severa degli attuali dogmi alimentari e della demonizzazione dei grassi, può essere letto con piacere da chi è interessato alla storia di come l'affermarsi di questa credenza, indipendentemente dalla sua validità, è legata in modo in qualche modo perverso proprio alla politica e all'intervento statale, incapace di lasciare che il dibattito scientifico vada avanti da solo raggiungendo in autonomia le sue conclusioni. Ci sono un paio dinamiche che può valere la pena di esaminare.

Innanzitutto, se si ritiene urgente e doveroso intervenire sulla popolazione per prevenire l'insorgere di certi problemi di salute, è evidente che si crea una pressione che tende a far accettare come definitivi risultati che in mancanza della percezione dell'emergenza sarebbero considerati al massimo come possibili o probabili. Il dilemma etico è tutto sommato comprensibile: abbiamo alcune ragioni per credere che i grassi saturi siano dannosi per la salute? queste ragioni non sono tuttavia conclusive? beh, forse è meglio regolarsi, intanto, come se lo fossero, dato che il non prendere le misure consigliate dall'ipotesi si trasformerebbe in un ulteriore danno. Lo scetticismo scientifico, l'atteggiamento dubbioso, assume qui i contorni del comportamento moralmente irresponsabile, del bastiancontriarismo insensibile al bene comune.

Lo stesso Rose tuttavia, alla fine del suo articolo, intravede una possibile controindicazione:
In mass prevention each individual has usually only a small expectation of benefit, and this small benefit can easily be outweighed by a small risk. […] Such low-order risks, which can be vitally important to the balance sheet of mass preventive plans, may be hard or impossible to detect. This makes it important to distinguish two approaches. The first is the restoration of biological normality by the removal of an abnormal exposure (e.g. stopping smoking, controlling air pollution, moderating some of our recently-acquired dietary deviations); here there can be some presumption of safety. This is not true for the other kind of preventive approach, which leaves intact the underlying causes of incidence and seeks instead to interpose some new, supposedly protective intervention (e.g. immunization, drugs, jogging). Here the onus is on the activists to produce adequate evidence of safety. 
Il che è del tutto sensato, ma c'è da chiedersi se sia davvero così innocuo e a basso rischio chiedere alla popolazione di ridurre drasticamente il consumo di grassi, cosa che comporta in realtà delle ipotesi, anche queste non dimostrate, su quella che dovrebbe essere la dieta "naturale" dell'uomo paleolitico. In realtà una dieta relativamente povera in calorie provenienti dai grassi animali implica certamente un aumento del consumo di carboidrati, e altrettanto certamente questi non fanno proprio parte della "biological normality", specialmente nella forma di farine e zuccheri raffinati. In effetti i dati di Ancel Keys sono perfettamente compatibili con l'ipotesi concorrente che a provocare i danni al cuore siano proprio gli zuccheri. Proprio il principio di precauzione avrebbe potuto quindi consigliare di non chiedere alla popolazione di rinunciare ai grassi.

Il secondo punto è che una volta che si è accettata, per i motivi extra-scientifici visti sopra, una delle possibili spiegazioni come quella valida e ufficiale, diventa sempre più difficile contrastarla. Dicevamo che il confronto tra popolazioni non basta a provare l'ipotesi dei grassi: quello che servirebbe sono trial clinici controllati randomizzati eccetera. Ebbene tutti (o quasi) quelli che sono stati fatti dopo il Seven Country Stude non sono riusciti a confermare l'ipotesi, evidenziando correlazioni nulle o addirittura negative fra consumo di grassi e aumento della mortalità. Di solito, nel mondo ideale, il pattern dovrebbe essere il seguente: una ipotesi viene inizialmente accettata in presenza di prove ancora non definitive, e poi le ulteriori ricerche la confermano. Se questo non accade, e le ricerche successive invece di aggiungere conferme la smentiscono, vuol dire che l'ipotesi è falsa e dev'essere abbandonata. Ma se si è deciso, in anticipo, che l'evidenza era sufficiente per agire e avviare iniziative politiche, ogni prova contraria rischia di essere considerata una piccola eccezione o un piccolo incidente di percorso verso una verità già accertata e definitiva (ne parla anche la tv, lo dice anche il governo, ecc.), esattamente il motivo per cui ancora si consiglia di non mangiare grassi.

Il sottotitolo del libro dell'IBL è "perché serve l'educazione, non il fisco", e in effetti alla fine della sua introduzione Trovato afferma che
Una soluzione forse minimalista, ma compatibile con le libertà individuale, potrebbe passare per l’educazione alimentare. Si tratterebbe di una politica praticabile senza insormontabili vincoli organizzativi e di bilancio, innestandosi prevalentemente su strutture e programmi già esistenti – quelli dell’istruzione obbligatoria – e su eventuali complementi caratterizzati da un basso costo unitario, sebbene anche meno efficaci – si pensi alle campagne di comunicazione orientate al grande pubblico.
Con l'avvertenza però (come evidenziato da uno dei saggi del libro), che essendo lo stato paternalista soggetto agli stessi errori cognitivi dai quali vorrebbe proteggere il singolo – se non ancora più vulnerabile e comunque più pericoloso nei suoi effetti – l'educazione rischia di essere una diseducazione. La vera educazione sempre necessaria alla popolazione è quella al pensiero critico, che certo non passa attraverso gli spot che invitano a i bravi bambini a mangiare le loro verdurine.

sabato 20 aprile 2013

Wittgenstein e l'albatros


Souvent, pour s'amuser, les hommes d'équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,

Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.
À peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l'azur, maladroits et honteux,

Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches

Comme des avirons traîner à côté d'eux.
Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!

Lui, naguère si beau, qu'il est comique et laid!

L'un agace son bec avec un brûle-gueule,

L'autre mime, en boitant, l'infirme qui volait!
Le Poète est semblable au prince des nuées

Qui hante la tempête et se rit de l'archer;

Exilé sur le sol au milieu des huées,

Ses ailes de géant l'empêchent de marcher.

Ciò che non può essere parlato dev'essere taciuto. Mi piacerebbe che fosse questa l'ultima proposizione del Tractatus wittgensteiniano. Non perché sarebbe una traduzione più esatta dal tedesco (dove c'è il complemento di argomento, proprio come nella traduzione corrente italiana), ma solo perché mi piace pensare che sarebbe una interpretazione più corretta del pensiero del filosofo.

Riassumendo molto velocemente, nel Tractatus si spiega quali sono i limiti del linguaggio, quali sono le proposizioni dotate di senso, quelle che in virtù della loro forma logica (o correttezza grammaticale) sono in grado di descrivere il mondo, i "fatti" di cui il mondo è fatto. Che questa proposta sia formulata insieme a una infelice teoria della verità quale corrispondenza (laddove ad ogni fatto nel mondo corrisponde una proposizione vera e viceversa) qui ha poca importanza, quel che conta è ciò che Wittgenstein in realtà si propone. Ed è precisamente qui che si innesta l'equivoco per cui il primo Wittgenstein è considerato un eroe della filosofia di tradizione analitica che fa della logica e del linguaggio empirico-scientifico le uniche cose di cui valga la pena occuparsi (poi tradita dal Wittgenstein delle Ricerche, sempre secondo questa visione superficiale).

È ormai tranquillamente accettato fra gli esegeti wittgensteiniani, infatti, che quel che a Wittgenstein interessa in realtà è proprio "l'ineffabile", quel che non può essere detto. L'operazione di tracciare i limiti del linguaggio, i confini dell'effabile, serve paradossalmente a indicare tutto il resto, è la famosa scala che può essere buttata via una volta saliti. Ovvero, è proprio un modo per "parlare" di estetica, di morale, di religione e di tutto ciò che costituisce l'ineffabile, il mistico.

Purtroppo uno degli effetti della svolta linguistica in filosofia è stato proprio quello, invece, di assicurare una importanza sempre maggiore ai fenomeni linguistici o più in generale "cognitivi", e di marginalizzare tutto il resto. Tanto che si è giunti al fenomeno nefasto per cui se un autore vuole parlare di arte, di letteratura, di musica, deve accingersi prima di tutto a dimostrare che vi è qualcosa di "cognitivo" in un'opera d'arte, in un quadro, in un balletto, in una metafora ben riuscita. Che musica e pittura hanno il loro "linguaggio" specifico, che deve solo essere compreso se si vuole penetrarne il mistero. Questo è per me anche il grande errore di quella che considero una pseudoscienza, la semiologia, che riduce qualsiasi attività umana (per non dire l'universo intero) a un sistema di segni, quindi a linguaggio, a "codice" da interpretare.

Nulla, per me, di più falso e di più odioso. È perfettamente inutile che continuate a guardare un pezzo di marmo chiedendo "perché non parli?", non parlerà mai, perché i pezzi di marmo sono muti. Un quadro di Fontana non è un oggetto che ci rivelerà i suoi segreti una volta che ne scopriamo il "codice", e che allora potremo comprendere, esso è ineffabile, non parla. Ci sono senz'altro opere d'arte che prima ancora di cominciare a tentare di comprenderle, hanno bisogno di un certo lavoro preliminare sui "codici", sul sistema di segni in esso inserito: non possiamo ad esempio avvicinarci alla pittura rinascimentale senza conoscere il complesso sistema di simboli e allegorie contenuti nei quadri: banalmente, è utile sapere che il motivo ornamentale del melograno è associato all'idea della fertilità.

Ma non sarebbe ben poca cosa, l'opera d'arte, se ad essa non si levasse nulla sostituendo l'immagine del melograno con la scritta "fertilità"? È evidente che non può essere quello il linguaggio di cui si parla. Se il messaggio di un'opera d'arte potesse venire esaurientemente espresso con parole allora tanto varrebbe esprimerlo con parole. Se Picasso, con Guernica, avesse voluto dire che la guerra è brutta, avrebbe potuto dirlo senza imbrattare una tela. Si dirà che esiste anche la cosiddetta arte concettuale, il cui grosso limite, però, è appunto quello di essere concettuale, e forse di non essere nemmeno arte, come direbbe qualcun altro (non sono perfettamente d'accordo, ma va bene lo stesso). Oppure si risponderà che il linguaggio dell'arte non è fatto di parole, appunto, ma di altri tipi di segni. Una vacuità: non serve a nulla tentare di impreziosire l'arte dandogli la patente del cognitivo se poi non si è in grado di esprimere verbalmente i suoi contenuti.

Tornando alla frase di Wittgenstein, non sono convinto che ci siano cose "delle" quali non si possa parlare. Intorno a un quadro di Picasso, a una fuga di Bach, si può parlare all'infinito, si potrebbe non smettere mai di parlarne. E questo si verifica proprio "perché" (non nonostante) non "parlano" e non possono "essere parlate". Perché è nella natura degli oggetti che costituiscono opere d'arte di essere "analogiche" e quindi inesauribili, dense, mentre il linguaggio è tipicamente digitale, finito, discreto. E vorrei sottolineare che questo vale anche per le opere d'arte che sono fatte "di parole" come i romanzi e le storie, ma che certo non si esauriscono in quelle parole da cui sono costituite. Vale naturalmente per le poesie, la cui caratteristica è proprio quella di usare il linguaggio per andare oltre i limiti del linguaggio, e vale per le metafore.

La metafora può anzi rappresentare benissimo un'ottima sintesi (o metafora) di tutto il discorso che sto cercando di fare intorno all'arte. Infatti, cosa significa una metafora? Cosa vuol dire Carducci quando si rivolge al figlio defunto con le parole "tu fior della mia pianta percossa e inaridita, tu dell'inutil vita estremo unico fior"? Il suo significato letterale è il suo significato letterale (cioè che il figlio è un fiore),  e non ci interessa (anche perché è falso che il figlio di Carducci fosse un fiore, essendo invece un bambino). Qual è allora il significato metaforico? Ecco, il significato metaforico non c'è, è un errore parlare di due generi di significato. Se esistesse un significato metaforico esprimibile diventerebbe immediatamente letterale, e guarda un po', questo è esattamente quel che accade con le metafore quando esauriscono la loro novità, il loro potenziale, quando muoiono come metafora. E diciamolo, parlare della propria progenie come "fiori della mia pianta" si avvicina già molto ad essere una metafora morta, infatti Carducci non era poi questo grande poeta. Ma cosa vuol dire, invece, Wislawa Szymborska quando parla della cipolla? Cosa vuol dire Eliot quando parla dell'ippopotamo? e Montale quando parla di limoni?

Chi vuole far parlare l'arte la vuole uccidere. Vuol fare alla poesia ciò che i marinai fanno all'albatros di Baudelaire. L'arte, come tutto ciò che non può essere parlato, deve tacere per poter esprimere l'ineffabile.

venerdì 22 marzo 2013

critica della ragione cospirazionista


Questo post è stata probabilmente la prima cosa articolata che abbia mai scritto in rete col mio nick. Allora mi ero appassionato di complottismo, e bazzicavo sia siti di complottisti che di debunker. Una prima versione dell'articolo, anzi, comparve proprio su Luogocomune, il sito di riferimento dei "truthers" italiani, e poi la feci circolare in privato anche sul forum di Crono911. Qualcuno lo girò a Paolo Attivissimo, al quale piacque e mi fece l'onore di ripubblicarlo sul suo sito dedicato allo smascheramento delle bufale sull'11 settembre. Ottenne una certa ed effimera attenzione che mi lusingò (un tizio, su un forum che si occupava di scie chimiche, mi definì "uno dei più ambigui e misteriosi personaggi della rete", altri complottisti mi attaccarono su blog ormai defunti). Di tutto quel periodo ricordo che mi divertivo molto a recitare la parte del debunker, e ricordo decine di discussioni appassionate con i complottisti più esagitati su astruse questioni di termodinamica o ingegneria (discussioni nelle quali avrò senz'altro detto, a mia volta, un mucchio di sciocchezze). Però come tutti i passatempi anche questo a un certo punto smise di divertirmi e di occupare le mie giornate. Oggi lo ripubblico perché temo un certo revival del complottismo dovuto al successo politico del movimento di Beppe Grillo, che raccoglie molti dei suoi consensi proprio nella blogosfera più incline alle panzane e avulsa dal pensiero critico. E anche perché, rileggendolo, ne vado immodestamente abbastanza fiero. Credo sia una delle cose più originali che abbia scritto, e un contributo alla psicologia del complottismo tuttora valido e interessante.
 
Possiamo ingannare tutti, una volta sola,
oppure ingannare uno solo ogni volta,
ma non possiamo ingannare tutti ogni volta
– Abramo Lincoln

Questo articolo non intende portare nuovi dati o argomenti a favore o contro la visione comunemente accettata riguardo gli attentati terroristici dell’11 settembre. L’autore non è un esperto di aeronautica, di esplosivi, di ingegneria strutturale, di termodinamica, o chissà che altro: la sua formazione è piuttosto di tipo filosofico. Lo scopo di questo intervento, quindi, è analizzare e criticare da un punto di vista epistemologico i metodi di ricerca e la strategia culturale che stanno dietro gli argomenti e le tesi dei cospirazionisti.

Al di là del ragionevole dubbio


Chiunque abbia studiato anche un poco di filosofia della scienza sa che c’è una cosa che bisogna riconoscere anche al cospirazionista più sfegatato e fantasioso, una cosa riguardo la quale non si può dire che abbia torto: niente è mai provato in maniera definitiva, e di tutto è possibile dubitare, anche di quello che oggi ci appare più certo ed evidente. Potrebbe sembrare, quindi, che il cospirazionista, nel mettere continuamente in dubbio i risultati delle “indagini ufficiali” su qualsivoglia argomento, non faccia altro che tradurre nella propria pratica di vita e di ricerca quello che è uno dei risultati maggiormente acquisiti dell’epistemologia dell’ultimo secolo, ovvero la lezione dello scetticismo, e la natura sfuggente e inattingibile della verità ultima.

Detto questo, però, occorre precisare meglio la portata e i limiti delle precedenti affermazioni. Innanzitutto potrebbe essere utile una distinzione fra certezza epistemica e certezza morale: infatti è vero che non abbiamo certezze epistemiche, ma abbiamo alcune certezze morali. La distinzione, in parole povere, è fra quando mi diverto a mettere in dubbio qualcosa solo per un puro passatempo intellettuale e quella mancanza di certezza che rende davvero difficoltoso passare all’azione.

Per esempio: niente potrà mai darmi la certezza assoluta che il fungo che sto per mangiare non è velenoso, neppure le analisi chimiche più approfondite. Eppure tutti noi mettiamo periodicamente a repentaglio le nostre stesse vite mettendoci a mangiare funghi quando ne abbiamo voglia, il che significa avere la certezza morale che quel fungo è mangereccio. Solo un filosofo potrebbe dubitare della realtà del mondo esterno, o delle altre menti, solo una persona incredibilmente tenace potrebbe continuare a credere, oggi, che il Sole giri intorno alla Terra, solo un pazzo può pensare che due più due non faccia effettivamente quattro, e solo un cospirazionista può credere che lo sbarco sulla Luna fosse una messinscena cinematografica.

Siamo quindi già in grado di indicare un primo difetto del modo di pensare cospirazionista, ovvero la mancata distinzione tra la mancanza di certezza morale e la mancanza di certezza epistemica, quella distinzione che è anche adombrata nel principio giuridico della presunzione d’innocenza, nella formula “ognuno è innocente finché non sia provata la sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”. Non ogni dubbio possibile e immaginabile: ogni dubbio ragionevole.

L'eterno insoddisfatto


Il cospirazionista si distingue dunque per non essere mai soddisfatto da nessuna prova gli si presenti e per trovare appigli sempre più improbabili per sostenere che le cose potrebbero essere andate diversamente da come pensa il volgo. Certo, ci sono decine di testimoni che affermano di aver visto un aereo andare addosso al Pentagono, ma chi ha controllato che i testimoni non fossero tutti miopi e quel giorno non avessero lasciato gli occhiali a casa? I debunker sono spesso meravigliati dalla capacità del cospirazionista di arrampicarsi sugli specchi e di rifiutare come conclusiva ogni evidenza gli portino, ma la cosa cessa di essere così strana una volta compreso che il cospirazionista non può accontentarsi di una semplice certezza morale: quello che vuole è la certezza epistemica, e questa purtroppo non è qualcosa cui un essere umano possa aspirare.

Un’altra precisazione da fare è questa: è vero che possiamo dubitare di qualsiasi cosa, ma questo significa che possiamo dubitare di tutto? Le due cose non sono, come sembra, equivalenti. Come disse Abramo Lincoln, possiamo ingannare tutti una volta sola, oppure ingannare uno solo ogni volta, ma non possiamo ingannare tutti ogni volta. Parafrasando, ogni nostra singola credenza potrebbe un giorno rivelarsi falsa, ma possono tutte le nostre credenze essere false?

In realtà, sembra di no, perché in questo caso perderebbe completamente di senso la stessa distinzione tra il vero e il falso, e i nostri giudizi perderebbero il loro contenuto. Una bugia, infatti, può esistere ed essere compresa solo in un largo sfondo di verità condivise.

Immaginate di andare in un paese straniero e di doverne imparare la lingua. Immaginate anche di non potervi assolutamente fidare degli aborigeni, che sono dei noti bugiardi: qualunque cosa vi dicano o sentiate dalla loro bocca è sicuramente una menzogna. Riuscireste in queste condizioni ad assegnare un contenuto ai loro enunciati? In realtà, non potreste neanche assicurarvi che gli aborigeni stiano effettivamente dicendo qualcosa, tanto incomprensibile ed enigmatico apparirebbe il loro comportamento linguistico: per poter interpretare le parole e i pensieri delle altre persone occorre quindi applicare quelli che i filosofi chiamano “principio di carità” (la totale idiozia o la mendacia dell’interlocutore sono meno probabili di un mio errore di traduzione). L’esistenza del linguaggio, e del pensiero che ne viene espresso, presuppone dunque che quel che pensiamo ed esprimiamo sia in larga parte vero.

Ora, non credo che ci siano molte persone di buon senso disposte a giurare sul fatto che la versione ufficiale fornita dalle autorità americane riguardo ai fatti dell’11 settembre sia esatta in ogni suo dettaglio. In qualche caso potrebbero esserci degli errori, in altri casi delle omissioni, in altri casi ancora delle vere e proprie menzogne. Non ci sarebbe neanche molto da stupirsi: in fondo il lavoro dei servizi segreti consiste proprio nel mantenere segreto ciò che non deve essere rivelato per motivi di sicurezza di Stato (e ricordiamoci che è il Pentagono ad essere stato colpito).

Ma il cospirazionista va molto oltre queste ovvietà: egli è convinto che tutti mentano, sempre, su tutto. Uno degli argomenti dei cospirazionisti, per esempio, è che i dirottatori non avrebbero mai potuto avere le capacità tecniche di pilotare degli aerei di linea e condurli fino all’obiettivo colpito: a chi gli fa notare che in realtà avevano seguito dei corsi e conseguito dei certificati che affermano l’esatto contrario, replicano candidamente che tali certificati sono stati falsificati (un’ipotesi di complotto che ne sostiene un’altra). È anche inutile dire a un cospirazionista che ci sono dei testimoni che hanno visto l’aereo dirigersi sul Pentagono, o che è stato analizzato il DNA dei resti dei passeggeri: semplicemente, non può esserci un’affermazione in grado di confermare o confutare un’altra affermazione, perché tutte le affermazioni sono ugualmente false o non attendibili. In questo modo il cospirazionista si garantisce in un certo senso contro l’accusa di incoerenza (non si può dire che abbia delle credenze fra loro in conflitto) ma al caro prezzo di non sapere più, in modo chiaro, che cosa egli creda o di cosa effettivamente dubiti.

Nessuna alternativa coerente


A conferma di quanto detto, se si analizzano i discorsi dei cospirazionisti si può notare come essi non abbiano in realtà una ipotesi alternativa a quella ufficiale che tenti almeno di rendere conto della totalità delle osservazioni riguardanti quel fatidico 11 settembre: tutto quel che dicono, ripetutamente, è di contrastare quella che chiamano la “Versione Ufficiale” degli avvenimenti (da loro abbreviata in VU).

Ma che cos’è la versione ufficiale? Non è una singola proposizione, o una teoria le cui parti sono sistematicamente connesse, in modo che se ne salta una si porta dietro tutto il resto: è una molteplicità di affermazioni e di ipotesi spesso anche slegate fra di loro. Alcune di queste affermazioni ed ipotesi potrebbero benissimo rivelarsi false senza che ciò intacchi in maniera sostanziale il succo del discorso.

Il cospirazionista ha invece una visione olistica estrema, in cui ogni particolare inesatto concorre a confermare la sua teoria secondo cui tutto è falso. Facciamo un esempio testuale concreto: in questo acceso dialogo sull’attentato al Pentagono, che ho tratto dal sito "911 subito", il debunker Paolo Attivissimo ha appena detto a un certo Jack, che difende le tesi cospirazioniste, che probabilmente l’aereo quando ha impattato contro il Pentagono non volava perfettamente radente al suolo, ma con una leggera pendenza.


Jack: «Questo è il top. Hai toccato il fondo. Stai stravolgendo completamente la versione ufficiale che vorresti difendere, paradossalmente rendendola più logica e verosimile di quanto non sia. [...]
Ormai lo sanno anche i sassi. Uno dei punti più discussi dell'intera faccenda è proprio che secondo la versione ufficiale, e ti sfido a negarlo stavolta, l'aereo ha si è avvicinato al Pentagono in linea perfettamente retta, senza la benchè minima pendenza. IN LINEA PERFETTAMENTE RETTA».

Attivissimo: «Ehm... chi ti ha detto che io voglio difendere a tutti i costi la versione ufficiale?»

Jack: «Questo è un giochetto che fai spesso. Ogni tanto salti su a dire: “Ma io non difendo la versione ufficiale al millimetro”, in modo da poterti salvare in extremis quando si dimostra senza possibilità di errore che alcuni aspetti della versione ufficiale sono assolutamente impossibili. [...]. Difendi la posizione che vuoi. A me basta provare che quello che dice il governo USA a proposito dell'attentato è falso. Di provare che quello che dice attivissimo è falso non mi frega nulla, a meno che attivissimo non voglia difendere alcuni aspetti della versione ufficiale. In quel caso smentendo attivissimo smentisco anche la versione ufficiale. Capisci? Non sei il fine, sei il mezzo».

Lo scambio è significativo perché Attivissimo sta dicendo che un aereo è andato a sbattere contro il Pentagono, che in fondo è la stessa cosa che dice il governo americano; quel che è disposto a discutere sono le modalità con cui ciò potrebbe essere avvenuto, ma a quanto pare non è questo ad interessare Jack: non è minimamente interessato a verificare o confutare una singola affermazione di natura empirica. Quello che dice di volere è “provare che quello che dice il governo USA a proposito dell'attentato è falso”, qualunque cosa significhi e senza spiegare cosa questo esattamente comporti. È in effetti impossibile confutare simili ragionamenti, per il semplice motivo che non affermano e non negano nulla, sono assolutamente privi di contenuto. Si dice che qualcosa è falso, anzi, tutto lo è, ma si evita accuratamente di specificare il “cosa”.

Non si tratta di malafede: è che il mondo del cospirazionista è davvero un incubo in cui non vi è nessun punto fermo, nulla di saldo a cui aggrapparsi, la cui stessa realtà ontologica è messa continuamente in discussione (non a caso molti cospirazionisti sono cultori del film Matrix). In queste condizioni, è quasi sgarbato chiedergli di mantenere fermo il punto di una qualsiasi questione, o cosa vogliano dimostrare esattamente.

Altro esempio: è una tesi cospirazionista che le Torri Gemelle non sono crollate a causa dell’impatto con gli aerei, ma sono state fatte crollare nell’ambito di una demolizione controllata. Forse è così (per amor di discussione)... ma come esattamente? Beh, in uno dei cento modi diversi ipotizzati dai cospirazionisti (con esplosivi convenzionali, con l’utilizzo di un materiale chiamato termite in grado di sciogliere l’acciaio, con mini-esplosivi nucleari, con raggi provenienti dallo spazio...). Si presentano indizi che potrebbero andare in direzione di una o dell’altra ipotesi (trascurando, però, ogni evidenza contraria): la presenza, peraltro non dimostrata, di pozze di metallo fuso alla base delle macerie potrebbe essere un segno dell’uso della termite, mentre gli sbuffi di fumo che fuoriescono dalle torri nei piani sottostanti quelli che stanno crollando rivelerebbero la presenza di detonazioni.

Il problema è che tutte queste teorie sono in conflitto tra loro, quindi gli indizi a favore di una teoria confuterebbero non solo la VU, ma anche l’altra teoria concorrente. Ma il cospirazionista non si preoccupa di fortificare o rendere coerente la sua ipotesi spiegando l’evidenza contraria, perché in realtà non ha nessuna vera ipotesi. Egli accetta e usa tutti gli indizi, perché nella sua visione valgono ciascuno come prova contro la VU, e questo gli basta. Se abbiamo cento teorie in conflitto tra loro, ma che contrastano la VU, e se ognuna di queste teorie è supportata da una singola osservazione, allora abbiamo ben cento osservazioni diverse che smentiscono la VU. Si potrebbe dire che le ipotesi di complotto sono come il maiale: non si butta via niente.

Principio di carità e rasoio di Occam


Ciò che si è detto prima a proposito del principio di carità, secondo cui non è possibile che tutto quanto crediamo sia falso ma dobbiamo necessariamente nutrire un vasto corpus di credenze vere (condizione stessa per poter credere qualcosa), ha un importantissimo corollario per quanto riguarda la ricerca scientifica, che è anche noto col nome di “rasoio di Occam”. Il principio di carità, cioè, può servire a dare un significato operativo più preciso alla massima secondo la quale, di due spiegazioni concorrenti del medesimo fenomeno, bisogna scegliere quella più semplice: quando dobbiamo spiegare qualcosa che non si adatta al resto delle nostre credenze, la strada migliore da seguire è fare gli aggiustamenti minimi che si rendono necessari, piuttosto che rivoluzionare l’intero nostro sistema concettuale (le rivoluzioni concettuali, o cambiamenti di paradigma, sono talvolta necessari, ma solo quando gli aggiustamenti che dobbiamo fare cominciano ad essere in numero talmente imbarazzante da non essere poi così economici).

Esempio: dopo che due aerei sono andati a sbattere a New York contro le Torri Gemelle, un terzo aereo a Washington fa perdere le proprie tracce. Viene visto da decine di testimoni sbattere contro una delle facciate del Pentagono. Vengono trovati rottami di aereo sul prato antistante. In seguito viene raccolta la scatola nera, mentre su ciò che rimane dei passeggeri vengono fatte le analisi del DNA per permettere l’identificazione.

Tutto insomma concorre verso un’unica spiegazione dei fatti, ma ci sarebbe un problema: quella breccia sul Pentagono è strana, sembrerebbe troppo piccola per essere causata da un aereo di quelle dimensioni. Una persona di buon senso, messa di fronte a questo dilemma, penserebbe: “Uhmm, interessante; cerchiamo di capire com’è possibile che un aereo così grande possa lasciare un buco in apparenza così piccolo, ammesso che lo sia”.

Ecco invece come pensa il cospirazionista: “Stupefacente! Occorre capire quale oggetto abbia colpito il Pentagono, per quale motivo i testimoni mentano e chi li abbia costretti a farlo, chi abbia sparpagliato finti rottami di aereo sul prato, dove sia finito l’aereo scomparso e in che modo siano stati eliminati i suoi passeggeri, e inoltre chi abbia falsificato i dati della scatola nera e le analisi del DNA”. Il cospirazionista non è in grado di applicare il rasoio di Occam, perché non ha un corpus di credenze che ritiene più centrali e più affidabili di altre, ma per lui tutto è egualmente sacrificabile. Non solo sospetta di tutto, ma non crede a niente, in maniera letterale, nel senso che non ha credenze di sorta.

Ma si potrebbe anche dire, senza reale contraddizione, che invece crede a qualsiasi cosa. Proprio la totale indifferenza nei confronti della verità lo rende al tempo stesso sia profondamente scettico (nei confronti di ciò che spesso è più che ragionevole) sia incredibilmente ingenuo (nei confronti delle più strampalate affermazioni). È solo in questo modo che possono trovare giustificazione sillogismi apparentemente assurdi quali «C’è qualcosa che non mi convince nella ricostruzione ufficiale, penso mi stiano mentendo e non mi fido di nessuno, quindi ho deciso di credere ciecamente nelle teorie del sedicente professor X, che afferma che gli aerei erano telecomandati, e di considerarle come verbo. Chiunque tenti di dimostrare l’inesattezza delle supposizioni del professor X è sicuramente al soldo della CIA».

Nel caso in cui qualche circostanza davvero dirompente riesca a far cambiare idea al cospirazionista, egli allora afferma: «Non importa se la teoria del professor X è sbagliata. Io so che il governo mente, quindi se gli aerei non erano telecomandati vuol dire che in realtà erano degli ologrammi, come afferma l’ingegner Y, che gode della mia totale fiducia».

Il cospirazionista nemico di se stesso


Si capisce quindi come il peggior nemico per la credibilità del cospirazionista è spesso il cospirazionista stesso: egli infatti non si accontenta quasi mai di un’ipotesi di complotto, ma immemore della frase di Lincoln posta in epigrafe a questo articolo, desidera strafare e vede complotti ovunque.

Così, se anche per caso avesse qualcosa da dire a proposito dell’omicidio di Kennedy, non viene ascoltato, perché al tempo stesso afferma che l’Area 51 pullula di alieni. Fra i più noti sostenitori delle “verità alternative” riguardo l’11 settembre, vi è ad esempio David Icke, il quale si dice anche convinto dell’esistenza di una specie aliena di rettili (in grado di nascondersi fra gli umani) che manovra i destini dell’umanità.

Per restare nel nostro paese, il sito che è il principale punto di riferimento per i cospirazionisti italiani (Luogocomune.net, gestito da Massimo Mazzucco) fra le varie cose ospita discussioni sullo sbarco sulla Luna come messinscena cinematografica, sulla cospirazione che ha portato all’uccisione di Kennedy, sulle scie chimiche (ultima moda del cospirazionismo), sugli UFO, sul ruolo della massoneria e delle sette segrete nella storia degli Stati Uniti (e l’instaurazione del “Nuovo Ordine Mondiale”), e sul creazionismo come valida alternativa alla selezione naturale darwiniana. Cosa ancora più deprecabile, fra i cospirazionisti si annidano a volte anche sostenitori di teorie meno “innocue” dal punto di vista ideologico e politico, come il negazionismo e l’antisemitismo.

Se il cospirazionista non è interessato alla verità, a cosa è interessato? Probabilmente alla “sincerità” che è tutt’altra cosa, essendo un attributo delle persone e non delle affermazioni. Il che significa che ciò che interessa nel dire una cosa è soprattutto fornire una rappresentazione di se stessi come aderenti alla “giusta causa” e come persone di un certo tipo. L’accettazione di una frase come “La neve è bianca”, non dipende quindi dalla sua verità (dalla bianchezza della neve) ma dalle implicazioni di tale accettazione sul mio modo di concepire me stesso e sul modo in cui voglio apparire al resto del mondo. Il che è un altro modo, in fondo, per dire che l’ideologia ha il sopravvento su qualsiasi considerazione di natura critica e razionale. Ma è anche un modo elegante per dire che i cospirazionisti raccontano “stronzate”, nel senso messo magistralmente in luce dal filosofo americano Harry Frankfurt nel suo celebre saggio On Bullshit, di cui riportiamo alcuni passaggi:

[...] dire bugie non inficia la capacità di dire la verità quanto invece il raccontare stronzate. A causa di un eccessivo indulgere a quest’ultima attività, che implica il fare asserzioni senza prestare attenzione ad alcunché, tranne che a ciò che fa comodo al proprio discorso, la normale abitudini di badare a come stanno le cose può attenuarsi o perdersi. Uno che mente e uno che dice la verità giocano in campi opposti, per così dire, ma allo stesso gioco. [...]. Chi racconta stronzate ignora completamente tali esigenze, Non rifiuta l’autorità della verità, come fa il bugiardo, e non si oppone ad essa. Non le presta attenzione alcuna. A causa di ciò, le stronzate sono un nemico più pericoloso delle menzogne.

È chiaro che:

Le stronzate sono inevitabili ogni volta che le circostanze obbligano qualcuno a parlare senza sapere di cosa sta parlando. Pertanto la produzione di stronzate è stimolata ogniqualvolta gli obblighi o le opportunità di parlare di un certo argomento eccedono le conoscenze che il parlante ha dei fatti rilevanti attorno a quell’argomento. Questa discrepanza è comune nella vita pubblica, in cui le persone sono spesso spinte – vuoi dalle proprie inclinazioni, vuoi dalle richieste altrui – a parlare in lungo e in largo di materie delle quali sono, in grado maggiore o minore, ignoranti.

Ma soprattutto:

La contemporanea proliferazione delle stronzate ha origini anche più profonde in svariate forme di scetticismo, secondo le quali noi non abbiamo alcun accesso affidabile a una realtà oggettiva, e pertanto non possiamo conoscere la vera realtà delle cose. […] Le conseguenze di questa perdita di fiducia sono state l’abbandono dalla disciplina richiesta dalla fedeltà all’ideale dell’esattezza e l’adozione di una disciplina di genere del tutto diverso, imposta dal perseguimento dell’ideale alternativo della sincerità. […] È come se [una persona] decidesse che dato che non ha senso cercare di essere fedeli ai fatti, allora dovrà invece tentare di essere fedele a se stesso.


Credo ideologico


L’ideale della fedeltà a se stessi, e al proprio credo ideologico, sono a mio avviso il principale motore della cultura cospirazionista. Può una persona con certi ideali e con una certa immagine di sé presentarsi al mondo come un ingenuo che crede a quello che vede scritto nei giornali, che segue ciecamente il gregge nelle sue opinioni, e che si fa mansuetamente manipolare la coscienza dai giornalisti asserviti al potere? Certamente no, anche al costo di dire qualche “stronzata”, o persino al costo di non dire altro. Mai dare un’arma in mano al nemico: mai sospettare anche solo per un attimo che il governo americano, che è all’origine di tutti mali del mondo, possa essere stato la vittima di un attentato terroristico di matrice islamica, perché ciò significherebbe schierarsi dalla parte di una grande potenza militare imperialistica, e contro i deboli e i derelitti del Sud del mondo. Mai credere a una fonte di informazione “ufficiale”, se non si è soddisfatti dello status quo, perché tale fonte non può che essere un riflesso e una propaganda in favore di chi quello status vuole mantenere, ma sempre schierarsi con chi fa “contro-informazione”, a prescindere da quel che dice. L’importante, infatti, non è quel che dice, ma quale causa serve, e come ci si sente a difendere questa causa.

I discorsi cospirazionisti contengono innumerevoli esempi di “aria fritta” (altro modo in cui è possibile tradurre il colorito termine inglese), e c’è solo l’imbarazzo della scelta: a chi obietta che non ha molto senso far sparire un aereo di linea per poi non utilizzarlo come arma e sostituirlo di nascosto con un missile contro il Pentagono (soprattutto in considerazione che già sono stati usati due aerei contro le Torri), il cospirazionista può replicare che non è tenuto a rispondere a queste domande, e che casomai è l’organizzatore del complotto che è tenuto a spiegare come e perché ha agito in quel modo. A chi fa precise obiezioni di natura tecnica, si può rispondere con considerazioni intorno al “quadro generale” della situazione geopolitica d’inizio ventunesimo secolo (in altre parole “Bush è cattivo e tutto quel che puoi dire non può smuovere le mie convinzioni”). Oppure, dopo l’ennesima smentita, si può uscire con una frase come “ma noi non proponiamo teorie alternative, ci limitiamo a porre questioni sui punti oscuri riguardanti l’11 settembre”, salvo smentirsi immediatamente dopo con un nuovo volo pindarico di fantasia e nuove pesantissime accuse nei confronti di ogni persona che lavora per il governo Usa.

Ancora, dopo aver presentato “una prova incontrovertibile di complotto” che viene poi ridimensionata, il cospirazionista può dire “va bene, ma non era quella la prova incontrovertibile di cui parlavo, in realtà era quest’altra”, e così via finché non si ritorna nuovamente alla strategia del “quadro generale” (cfr. la diatriba “seven/salamino” su Luogocomune).

La testa nella sabbia


In conclusione, quindi, è giusto sottolineare come il cospirazionismo non abbia nulla a che vedere con l’atteggiamento del sano scetticismo scientifico, di cui si parlava all’inizio di questo intervento, il quale è in fondo l’ispiratore delle grandi innovazioni teoriche e delle conquiste tecnologiche dell’umanità. Lo scetticismo scientifico infatti è concepito dalle menti critiche non come una negazione della verità tout court, ma anzi come uno strumento che serve a evitare di credere, troppo facilmente, in cose che potrebbero rivelarsi false, e quindi come uno strumento che serve all’allargamento della nostra conoscenza.

Il tipo di scetticismo adottato dai cospirazionisti assomiglia più a un mettere la testa sotto la sabbia, serve a evitare di credere e basta. Non in vista, cioè, di una teoria migliore che potrebbe essere più serenamente accettata da tutti (sia dai cospirazionisti che dalla comunità scientifica). Il cospirazionista è infatti condannato a restare in minoranza perché questa è la missione che si è scelto. Se una teoria cospirazionista diventasse mainstream, il cospirazionista molto probabilmente smetterebbe di sostenerla, e anzi, troverebbe alquanto sospetta la circostanza (“Che sta succedendo? Qui gatta ci cova. Se mi hanno dato ragione, è perché evidentemente vogliono darmi uno zuccherino, in quanto sperano di distogliere la mia attenzione da quelle sono le loro reali malefatte. Ma io sono più furbo di loro, non credano di fregarmi”). Non è la verità che conta, conta solo la propria persona e il proprio sentire. Il mondo esterno si è dissolto, da tempo, in una cartesiana macchinazione contro l’essere umano, e l’essere umano si difende, cartesianamente, ripiegandosi su se stesso in un atto di onanismo mentale perpetuo.