venerdì 23 agosto 2013

obesità e Stato


L'Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un libro, dal titolo Obesità e tasse, che raccoglie vari saggi che indagano sui presupposti e sulle possibili conseguenze di una tassazione selettiva rivolta a particolari generi di consumo accusati di essere deleteri per la salute, e di causare obesità e problemi cardiaci, come bibite gassate o cibi ricchi di grassi saturi (en passant, il libro ha l'introduzione del mio amico Massimiliano Trovato).

Essendo l'IBL notoriamente di ispirazione liberale non sorprenderà che le conclusioni siano nettamente contrarie a qualsiasi politica che "punisca" i comportamenti individuali con criteri che appaiono almeno moralistici se non repressivi, ispirandosi talvolta a quel "paternalismo libertario" di Thaler e Sunstein (la politica delle "spintarelle" bonarie al posto dei divieti) che sembra spesso solo la copertura ideologica del paternalismo autoritario di vecchio stampo. È in effetti difficile qualificare come maggiormente libertaria una repressione fondata sulla tassazione piuttosto che sui divieti, quando ne risulta una identica o molto simile privazione di libertà individuale.

In realtà debbo confessare che io non mi sono mai scandalizzato troppo, in precedenza, delle accise ad esempio sulle sigarette, ritenendole un lampante caso di esternalità, o meglio una semplice e immediata conseguenza del fatto che la gestione della salute in paesi come il nostro non è lasciata all'iniziativa del singolo ma è collettivizzata, il che implica che vengano scaricati sulla collettività anche i rischi e le eventuali conseguenze dei propri comportamenti per quanto irresponsabili. Come correttivo sarebbe quindi equo che chi si assume volontariamente maggiori rischi paghi anche una quota proporzionalmente maggiore dei costi della sanità (un po' come funziona con le assicurazioni private: nessuno si scandalizza che un pilota di formula 1 abbia un premio assicurativo più alto). Anzi: secondo me una volta ammesso come necessario e doveroso l'intervento dello Stato sulla sanità potrebbe qualificarsi come incoerente e persino immorale (da tipico "furbo") appellarsi a principi liberali per opporsi a tali politiche. Se si è statalisti lo si dovrebbe essere sempre, anche quando non fa comodo (e naturalmente viceversa).

Questo argomento dell'esternalità è naturalmente vagliato dal libro, e respinto, per motivi che ho trovato in qualche caso convincenti, mentre non sono riuscito del tutto a persuadermi che il peccato originale dell'intervento statale non debba implicare necessariamente anche un certo tipo di controllo sui comportamenti al fine di correggere le esternalità negative (o promuovere quelle positive). Uno degli argomenti convincenti, scendendo nel piano concreto delle possibili proposte legislative, è che non è affatto detto che i consumatori di prodotti considerati junk food abbiano tutti uno stile di vita poco sano. Tassare la Nutella, per esempio, avrebbe l'effetto di punire in maniera identica sia chi ne abusa danneggiando se stesso sia chi ne fa un uso del tutto compatibile con uno stile di vita altrimenti sano e "corretto" (e allora sarebbe più giusto tassare direttamente gli obesi piuttosto che gli alimenti che si presume causino l'obesità). Una simile imposta inoltre sarebbe regressiva (colpirebbe in misura maggiore le fasce più deboli della popolazione), e infine inefficace (o addirittura dannosa) ovvero non riuscirebbe a raggiungere gli obiettivi che si propone.  Si sostiene, ad esempio, che una tassa sugli alcolici potrebbe portare paradossalmente al consumo (e alla produzione) di prodotti contenenti più alcol, per ottenere il massimo dell'effetto con la minore spesa.

Detto questo, comunque, il passaggio dell'introduzione che volevo sottolineare, in particolare, è il seguente:
Il presupposto tacito dei nove capitoli che compongono questo volume è che l'evidenza scientifica indichi un chiaro nesso di causalità tra il consumo di alimenti politicamente scorretti – cibo spazzatura. grassi, dolciumi, bibite zuccherate… – e l'insorgenza dell'obesità. Per meglio dire, la nostra trattazione prescinde dalle giustificazioni cliniche invocate per questi provvedimenti perché queste appaiono superflue nell'esaminare gli effetti della tassazione selettiva sugli alimenti. Si tratta di una discussione da condurre con gli strumenti intellettuali del diritto e dell'economia, non con quelli della medicina. Ciò nonostante, è evidente che, in mancanza di tale collegamento eziologico, verrebbe meno la stessa ragion d'essere delle tasse sui grassi.
Ora, temo che non sia poi così semplice separare i piani del diritto e dell'economia da quello della medicina e dell'evidenza scientifica tout court. O meglio, potrebbe essere interessante andare a vedere quali sono gli effetti dell'interferenza statale sulle stesse conclusioni scientifiche che dovrebbero servire a giustificare l'interferenza sui consumi individuali. Per accorgersi probabilmente che le conclusioni "scientifiche" sono già compromesse e contaminate dall'intervento pubblico, dall'origine.

Uno dei saggi contenuti nel libro critica l'approccio alla lotta alle malattie delineato dall'epidemiologo Geoffrey Rose, in un influente articolo pubblicato nel 1985 sull'"International Journal of Epidemiology", dal titolo Sick Individuals and Sick Populations (articolo breve e accessibile anche ai profani). Geoffrey Rose suggerisce che esistono due diversi approcci alla prevenzione del rischio, ciascuno con i suoi pro e contro: uno cerca di individuare, all'interno di una data popolazione, quali sono i soggetti più a rischio per una determinata malattia, e quindi offre misure tarate su quegli individui specifici. È quello più intuitivo e immediato, perché sembra rivolgersi alle cause immediate della malattia: se solo (o prevalentemente) gli individui dotati della caratteristica X si ammalano, occorre rivolgersi solo agli individui dotati della caratteristica X, in quanto i soli potenziali beneficiari dell'intervento – individui per i quali, inoltre, non occorrerà ricorrere a espedienti particolarmente complicati al fine di motivarli ad assumere i comportamenti appropriati.

L'altro approccio però, dice Rose, è più radicale e va più in profondità, perché non si rivolge solo alla causa delle variazioni individuali nell'esposizione alla malattia in una data popolazione, ma alla causa stessa dell'incidenza della malattia in quella popolazione, due cose che non sempre coincidono. È quel che può accadere ad esempio quando un'intera popolazione è esposta allo stesso fattore di rischio: se tutti fumassimo venti sigarette al giorno, allora la spiegazione del perché alcuni si ammalano di cancro ai polmoni e altri no (la causa della variazione) sarebbe principalmente genetica, ma la causa dell'incidenza della malattia nella popolazione sarebbero proprio le sigarette. Causa che potrebbe rimanere inosservata proprio a causa della sua onnipresenza (il che porterebbe a scambiare il tumore ai polmoni per una malattia genetica invece che ambientale).

In questo caso, una campagna di educazione volta a ridurre o ancora meglio eliminare del tutto il consumo di sigarette presso l'intera popolazione sembrerebbe più opportuna di un intervento mirato ai soggetti considerati a maggiore rischio (per ragioni genetiche o altro). Da un punto di vista individuale il vantaggio della maggior parte delle persone potrebbe essere scarso o quasi nullo – di modo che per motivarle occorrerebbe ricorrere a forme di pressione psicologica e sociale (ostracismo verso i fumatori) che vanno al di là del mero prospettare i guadagni in termini di salute – mentre dal punto di vista dei grandi numeri e della popolazione nel suo insieme l'intervento risulterebbe invece in una spettacolare diminuizione del numero dei morti (un altro esempio poco controverso che si può richiamare qui è quello dei vaccini).

È innegabile che la logica (almeno apparentemente) stringente di Rose offre un'arma molto potente ai fautori dell'intervento statale e del controllo capillare dello Stato sul comportamento e le preferenze dei cittadini. In realtà è stata discussa e criticata, come viene criticata nel libro dell'IBL, perché almeno nel caso dell'obesità e delle malattie legate alla cattiva alimentazione sembrerebbe appunto avere l'effetto politicamente poco raccomandabile di esacerbare le diseguaglianze. Nell'ipotesi che vengano tassati i grassi e incentivato il consumo di verdure, per esempio, dal momento che sembrano essere proprio le fasce più povere della popolazione a consumare maggiormente i prodotti considerati dannosi e quindi tassati (e sono le fasce più facoltose ad avere già un'alimentazione più "sana"), l'ulteriore peggioramento delle condizioni economiche di queste fasce potrebbe non essere compensato dai benefici o da un sufficiente cambiamento delle abitudini alimentari (qui c'è una discussione e una difesa da questo tipo di rilievi). Potrebbe semmai essere consigliabile un approccio intermedio e maggiormente strutturato (che miri non alle grandi masse e nemmeno agli individui ma ai gruppi).

Quello che preoccupa me, comunque, è in realtà un'altra cosa, ed è uno scrupolo di tipo più scientifico che politico. Quel che temo, cioè, è che il discorso di Rose possa servire a giustificare un massiccio intervento statale sui consumi delle masse (con le distorsioni economiche che ciò comporterebbe), anche in presenza di una scarsa o nulla evidenza riguardo alle supposte cause della malattia che si vuole colpire, cosa anzi che è probabilmente successa nel caso della lotta all'obesità e alle malattie cardiache. Si è sostenuto, cioè, che l'assenza di una comprovata e solida correlazione fra il consumo di grassi e il rischio di malattie cardiache all'interno di una popolazione non dimostra la mancanza di un nesso causale, perché le abitudini alimentari potrebbero essere troppo omogenee. Invece che cercare le variazioni all'interno delle popolazioni bisognerebbe quindi confrontare l'incidenza della malattia in popolazioni diverse con abitudini alimentari che divergono radicalmente.

Rose in bibliografia cita un famoso studio di Ancel Keys, noto come Seven Country Study, che è stato appunto una tappa importantissima nella strada che ha portato a demonizzare i grassi saturi. Se cercate Ancel Keys su Google potreste accorgervi che il tizio, in effetti una delle personalità più influenti del secolo scorso (l'inventore della dieta mediterranea!) è decisamente poco popolare tra i fautori delle diete no- o lowcarb o paleolitica, proprio per il ruolo avuto nell'instaurazione degli attuali dogmi alimentari. Si afferma in genere che Ancel Keys abbia scelto i paesi, per il suo confronto, che già sapeva avrebbero sostenuto la sua ipotesi mostrando una correlazione tra consumo di grassi e malattie cardiache, più frequenti in America e in Finlandia e meno in Grecia, Italia e Giappone – correlazione che sarebbe sparita includendo altri paesi (la realtà, come sempre, è sicuramente un po' più complessa di così).


Il buon senso e poche nozioni di statistica, però, mi dicono che anche in presenza di una correlazione non abbiamo ancora un nesso causale, e questo in realtà dovrebbe essere tanto più vero proprio quando si confrontano tra loro popolazioni diverse, laddove le possibili spiegazioni concorrenti possono essere molte. In realtà mi pare che la precauzione dovrebbe andare nell'altro senso, e che cioè invece di dire "anche se non abbiamo trovato differenze significative all'interno della popolazione questo non significa che la nostra ipotesi sia sbagliata" (il che naturalmente può essere vero) occorrerebbe piuttosto dire "anche se abbiamo trovato una correlazione fra il rischio e le abitudini alimentari di differenti popolazioni la nostra ipotesi non può dirsi corretta finché non dimostriamo che lo stesso fattore causale è in grado di predire o spiegare le variazioni anche all'interno di una stessa popolazione". Si tratta in fondo del popperiano principio di falsificazione, occorre andare in cerca dei dati che smentiscono la nostra ipotesi, non in cerca di conferme. Esattamente il contrario di quanto prospettato da chi usa l'approccio della popolazione per intervenire sui grassi e le malatte cardiocircolatorie

Il ponderoso libro di Gary Taubes, Good Calories, Bad Calories, oltre che essere una critica severa degli attuali dogmi alimentari e della demonizzazione dei grassi, può essere letto con piacere da chi è interessato alla storia di come l'affermarsi di questa credenza, indipendentemente dalla sua validità, è legata in modo in qualche modo perverso proprio alla politica e all'intervento statale, incapace di lasciare che il dibattito scientifico vada avanti da solo raggiungendo in autonomia le sue conclusioni. Ci sono un paio dinamiche che può valere la pena di esaminare.

Innanzitutto, se si ritiene urgente e doveroso intervenire sulla popolazione per prevenire l'insorgere di certi problemi di salute, è evidente che si crea una pressione che tende a far accettare come definitivi risultati che in mancanza della percezione dell'emergenza sarebbero considerati al massimo come possibili o probabili. Il dilemma etico è tutto sommato comprensibile: abbiamo alcune ragioni per credere che i grassi saturi siano dannosi per la salute? queste ragioni non sono tuttavia conclusive? beh, forse è meglio regolarsi, intanto, come se lo fossero, dato che il non prendere le misure consigliate dall'ipotesi si trasformerebbe in un ulteriore danno. Lo scetticismo scientifico, l'atteggiamento dubbioso, assume qui i contorni del comportamento moralmente irresponsabile, del bastiancontriarismo insensibile al bene comune.

Lo stesso Rose tuttavia, alla fine del suo articolo, intravede una possibile controindicazione:
In mass prevention each individual has usually only a small expectation of benefit, and this small benefit can easily be outweighed by a small risk. […] Such low-order risks, which can be vitally important to the balance sheet of mass preventive plans, may be hard or impossible to detect. This makes it important to distinguish two approaches. The first is the restoration of biological normality by the removal of an abnormal exposure (e.g. stopping smoking, controlling air pollution, moderating some of our recently-acquired dietary deviations); here there can be some presumption of safety. This is not true for the other kind of preventive approach, which leaves intact the underlying causes of incidence and seeks instead to interpose some new, supposedly protective intervention (e.g. immunization, drugs, jogging). Here the onus is on the activists to produce adequate evidence of safety. 
Il che è del tutto sensato, ma c'è da chiedersi se sia davvero così innocuo e a basso rischio chiedere alla popolazione di ridurre drasticamente il consumo di grassi, cosa che comporta in realtà delle ipotesi, anche queste non dimostrate, su quella che dovrebbe essere la dieta "naturale" dell'uomo paleolitico. In realtà una dieta relativamente povera in calorie provenienti dai grassi animali implica certamente un aumento del consumo di carboidrati, e altrettanto certamente questi non fanno proprio parte della "biological normality", specialmente nella forma di farine e zuccheri raffinati. In effetti i dati di Ancel Keys sono perfettamente compatibili con l'ipotesi concorrente che a provocare i danni al cuore siano proprio gli zuccheri. Proprio il principio di precauzione avrebbe potuto quindi consigliare di non chiedere alla popolazione di rinunciare ai grassi.

Il secondo punto è che una volta che si è accettata, per i motivi extra-scientifici visti sopra, una delle possibili spiegazioni come quella valida e ufficiale, diventa sempre più difficile contrastarla. Dicevamo che il confronto tra popolazioni non basta a provare l'ipotesi dei grassi: quello che servirebbe sono trial clinici controllati randomizzati eccetera. Ebbene tutti (o quasi) quelli che sono stati fatti dopo il Seven Country Stude non sono riusciti a confermare l'ipotesi, evidenziando correlazioni nulle o addirittura negative fra consumo di grassi e aumento della mortalità. Di solito, nel mondo ideale, il pattern dovrebbe essere il seguente: una ipotesi viene inizialmente accettata in presenza di prove ancora non definitive, e poi le ulteriori ricerche la confermano. Se questo non accade, e le ricerche successive invece di aggiungere conferme la smentiscono, vuol dire che l'ipotesi è falsa e dev'essere abbandonata. Ma se si è deciso, in anticipo, che l'evidenza era sufficiente per agire e avviare iniziative politiche, ogni prova contraria rischia di essere considerata una piccola eccezione o un piccolo incidente di percorso verso una verità già accertata e definitiva (ne parla anche la tv, lo dice anche il governo, ecc.), esattamente il motivo per cui ancora si consiglia di non mangiare grassi.

Il sottotitolo del libro dell'IBL è "perché serve l'educazione, non il fisco", e in effetti alla fine della sua introduzione Trovato afferma che
Una soluzione forse minimalista, ma compatibile con le libertà individuale, potrebbe passare per l’educazione alimentare. Si tratterebbe di una politica praticabile senza insormontabili vincoli organizzativi e di bilancio, innestandosi prevalentemente su strutture e programmi già esistenti – quelli dell’istruzione obbligatoria – e su eventuali complementi caratterizzati da un basso costo unitario, sebbene anche meno efficaci – si pensi alle campagne di comunicazione orientate al grande pubblico.
Con l'avvertenza però (come evidenziato da uno dei saggi del libro), che essendo lo stato paternalista soggetto agli stessi errori cognitivi dai quali vorrebbe proteggere il singolo – se non ancora più vulnerabile e comunque più pericoloso nei suoi effetti – l'educazione rischia di essere una diseducazione. La vera educazione sempre necessaria alla popolazione è quella al pensiero critico, che certo non passa attraverso gli spot che invitano a i bravi bambini a mangiare le loro verdurine.