giovedì 24 settembre 2009

storia del cannibalismo


"L'uomo è misura di tutte le cose", disse Protagora, il filosofo greco inventore del relativismo culturale, intendendo che valori come "bello", "buono", "giusto" non possono essere considerati come assoluti ed eterni, ma dipendono dalle preferenze individuali (ciò che piace a me potrebbe fare schifo a te) oppure dal contesto sociale e antropologico nel quale vengono calati.

Nell'opera Le antilogie (Ragionamenti contraddittori) a lui attribuita, uno dei primi esempi che vengono fatti per illustrare le diversità di costumi dei vari popoli e quindi la relatività dei valori, è quello del cannibalismo.

Presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l'una e l'altra cosa. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne indorato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dei; invece, presso i Greci neppure si vorrebbe entrare nella casa di uno che avesse compiuto tali cose. I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l'esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come donne, e si congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello, presso i Greci, nessuno le vorrebbe sposare. Anche gli Egizi non s'accordan con noi su ciò che è bello; qui è ritenuto bello che sian le donne a tessere e filar la lana; lì invece gli uomini, e che le donne facciano quel che qui fanno gli uomini. Impastare l'argilla con le mani, e la farina coi piedi, lì è bello, ma per noi è tutto il contrario.


L'usanza del cannibalismo, uno dei più forti e sentiti tabù della nostra cultura, è spesso stata utilizzata e citata come paradigma della diversità culturale, ma anche come principale terreno di scontro nei dibattiti fra etnocentristi e relativisti.

La parola "cannibale" deriva da "canibal" (probabilmente una storpiatura di "cariba", ovvero abitante della regione dei Caraibi), popolazione che venne nominata a Colombo dagli indigeni americani con cui stabilì i primi contatti, e che egli volle credere fossero i sudditi del Gran Khan. Shakespeare avrebbe ulteriormente storpiato il termine per dare il nome al suo personaggio Calibano, nella Tempesta (colui che ha imparato l'uso del linguaggio, ma solo per lanciare maledizioni). In realtà la parola dovrebbe significare qualcosa come "gente coraggiosa".

Questa popolazione comunque era ritenuta dedita all'usanza del cannibalismo, o almeno così venne detto a Cristoforo Colombo dagli indigeni spaventati. In realtà lo stesso Colombo accolse la notizia con un certo scetticismo, nonostante la sua credulità in molte altre faccende (sirene, isole abitate da sole donne, o da uomini con la testa di cane), ma la notizia che il Nuovo Mondo era abitato da popolazioni cannibali non tardò ad arrivare in Europa.

Le notizie però non si limitavano ai soli Caraibi: gli Aztechi praticavano sacrifici umani e il cannibalismo di massa, mentre una famosissima testimonianza oculare relativa al cannibalismo arriva nella metà del Cinquecento da Hans Staden, un soldato tedesco che in Brasile venne catturato dai Tupinamba, e che fu l'unico dei suoi compagni a sfuggire alla orribile sorte di essere squartato e mangiato.

Ciò non poteva non influire sulla percezione europea dei nativi americani e sul dibattito riguardo al trattamento più o meno umano da riservare loro. Cannibalismo e sacrifici umani erano appunto le accuse più pesanti rivolte agli indiani per giustificarne la schiavitù, nella famosa disputa di Valladolid sui loro diritti svoltasi nel 1555 fra il domenicano Bartolomeo de Las Casas (a favore degli indiani) e Juan Ginés de Sepulveda (contro). Nella sua difesa degli indiani, a giustificazione del cannibalismo Las Casas ricorse ad argomenti non troppo convincenti ("sono cose che capitano anche da noi, in condizioni di estremo bisogno"), non disponendo appunto in modo consapevole e maturo dell'arma ideologica fornita dal relativismo (riuscì comunque a vincere la disputa).

Fu Montaigne a evidenziare per primo (dopo Protagora) il tema della molteplicità delle culture, e il loro essere giudicabili solo a partire dai parametri di riferimento forniti dalla stessa cultura in esame, nel suo celebre saggio Sui cannibali. Barbari e civilizzati sono etichette che possono facilmente scambiarsi di ruolo, a seconda dei punti di vista:


Ora mi sembra che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto mi hanno riferito, se non che ognuno chiama barbaro quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.

Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo, che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martirii un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere o dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini, e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.


Quando l'antropologia culturale diviene una scienza matura, tuttavia, queste argomentazioni non vengono più percepite come sufficienti. Il cannibalismo, il cibarsi della carne del proprio simile, è ritenuta cosa troppo orribile e repellente perché ci si limiti a constatare la diversità dei costumi dei vari popoli. Il cannibalismo, per essere accettato, deve anche essere razionalizzato, compreso. Esso deve apparirci in una prospettiva, per così dire, più positiva. Altrimenti i razzisti e gli imperialisti potrebbero sempre usarlo come scusa per colonizzare gli altri popoli.

Nascono così le interpretazioni "simboliche" dell'antropofagia, spesso di matrice strutturalista. Solo gli ignoranti accecati dall'etnocentrismo possono davvero credere che una persona possa scegliere di cibarsi di carne umana semplicemente perché concepisce il prossimo suo come "nutrimento", e non come una persona. Al contrario, cibarsi del prossimo significa rispettarlo, rendergli onore. Ci si nutre del corpo del nemico ucciso, perché si vuole assimilarne le doti di coraggio e di forza. E il tutto avviene sempre in un contesto molto connotato dal punto di vista simbolico e rituale.

C'è chiaramente una certa tensione, in queste interpretazioni: da un lato non si accetta di bollare il prossimo come "cattivo" solo perché diverso da noi. Dall'altro si inventano giustificazioni di questa diversità, in modo che essa ci appaia in una luce più favorevole. È questa la fase "politically correct" , o buonista, della letteratura antropologica relativa al cannibalismo.

Politicamente scorrettissima, quindi, apparve l'opera di Marvin Harris, antropologo di formazione marxista, al suo apparire. In Cannibali e re, e poi in Buono da mangiare, Harris si fa gioco delle interpretazioni simbolico-strutturali del cannibalismo, giudicate come vacue, e afferma con crudezza che le motivazioni di questa pratica vanno semplicemente cercate nel bisogno di proteine animali.

Secondo Harris il cannibalismo è un'usanza normale nelle società guerriere di tipo pre-statale: cibarsi del nemico ucciso è solo un modo per ammortizzare le spese di una campagna di guerra condotta lontano da casa e senza che si disponga di una adeguata scorta di viveri. È solo con la nascita dello Stato che tale usanza diviene un tabù, e per motivi prettamente economici. Il nemico, da semplice ostacolo da eliminare, diventa potenziale suddito e pagatore di tributi al re. Ucciderlo per mangiarlo diventa uno spreco di preziose risorse, esattamente come cibarsi di un cavallo per un soldato, o di una vacca per un indiano.

Harris ha difficoltà solo a spiegare il cannibalismo degli Aztechi nel suo modello, dato che si trattava di una società statale estremamente avanzata e complessa, ma se la cava mostrando che l'ecosistema mesoamericano forniva uno scarso apporto di proteine animali, e anche che la mancanza di animali domestici di grossa taglia da usare come bestie da soma rendeva meno praticabile un'economia basata sul lavoro degli schiavi, rendendoli più appetibili come cibo (comunque riservato all'elite).

La reazione "buonista" a questa interpretazione oltraggiosa è piuttosto radicale: così William Arens nel libro Il mito del cannibale, arriva addirittura a negare la stessa esistenza del fenomeno, almeno come pratica comune e accettata culturalmente dai membri di una data società. Tutte le storie relative al cannibalismo, afferma Arens, sono state inventate dai colonialisti cattivi come pretesto per soggiogare e sfruttare gli altri popoli. Certo, è piuttosto facile dimostrare una tesi del genere, una volta che si è deciso di liquidare tutte le testimonianze, anche quelle dirette come quella di Staden, come menzognere o non attendibili (come curiosità, le tesi di Arens erano citate spesso nei film italiani degli anni '70 del sotto-genere "cannibale", dove però gli antropologi che difendevano tale posizione "progressista" finivano regolarmente mangiati).

Arens comunque riesce a persuadere del fatto che, se non proprio inesistente, il cannibalismo è fenomeno comunque esagerato nella sua estensione e anzi piuttosto raro. Molte delle testimonianze sono in effetti di seconda mano, e potrebbero anche essere il frutto di equivoci culturali: se dovessimo dare retta a tutte le fonti che parlano di cannibalismo dovremmo infatti accettare l'idea che erano cannibali i primi cristiani dell'antichità, come ventilato dai loro oppositori, per non parlare dell'accusa del sangue che viene periodicamente rivolta agli ebrei dai cospirazionisti antisemiti. O ai comunisti (dove l'origine della diceria risale alla grande carestia russa del 1921-23).

Una delle prove ritenute più sicure dell'esistenza del cannibalismo fino a tempi recenti, ci fa anche capire come mai, tutto sommato, questa usanza sia così rara. Riguarda le scoperte mediche di Carleton Gajdusek in Nuova Guinea, il quale identificò la prima malattia causata da lenti-virus (quelli che oggi sono stati più correttamente identificati come prioni), vincendo un Nobel per questo. Gajdusek pensava che l'origine della malattia (il kuru) fosse da cercarsi nel consumo della carne dei defunti, dissotterrati e mangiati.

In realtà anche le prove di Gajdusek sono state contestate (gli si oppone il fatto che il contagio sarebbe potuto avvenire con modalità diverse) nonostante lui affermasse di aver persino assistito a banchetti cannibali. Però le sue ricerche dimostrano che mangiare i parenti defunti è abitudine in effetti poco igienica per almeno due motivi: la prima è strettamente sanitaria (il cervello di una persona morta, e forse anziana e malata, potrebbe contenere prioni nocivi). La seconda è più sociale: non è molto sostenibile un sistema dove consanguinei e congiunti sono anche considerati fonte di nutrimento. Ogni morte diviene sospetta, e le accuse di stregoneria dilagano. Eppure, proprio il fatto che la stregoneria è cosa che viene presa molto sul serio in praticamente tutte le società più "primitive", dovrebbe far sospettare che qualcosa di concreto ci sia.

Questo però non vale per il cannibalismo guerriero secondo il modello di Harris, che probabilmente era il più diffuso nelle società pre-statali. Ma la political correctness di Arens ha comunque mietuto le sue vittime, dato che oggi è diventato difficile trovare testi sulla storia di qualche popolazione che menzionino questo aspetto sgradevole del loro passato. I Maori? erano vegetariani, non vi preoccupate quando digrignano i denti, è un gesto d'affetto. I Samoani nella descrizione di Margaret Mead costituiscono lo stereotipo stesso del "buon selvaggio", eppure c'è chi ha collegato l'attuale incidenza di obesità e la vera e propria dipendenza di molti Samoani dalla carne in scatola (la Spam che dà il nome alle mail spazzatura) all'antica usanza di mangiare carne umana. E anche riguardo agli Aztechi, se si fa spesso menzione dei sacrifici umani, si è molto più prudenti nel parlare di cannibalismo, perché i loro attuali discendenti potrebbero offendersi.

Una delle prove più attendibili riguarda il ritrovamento di resti umani e ossa, in un sito archeologico collegato alle presenza degli indiani Anazasi in America del Nord circa 800 anni fa, dove tali reperti mostrano segni inequivocabili di cottura e di masticazione da parte di altri esseri umani (o meglio mostravano, visto che sono stati seppelliti di nuovo). Ma i discendenti degli Anazasi, altro popolo per cui gli adepti della new age vanno in sollucchero, non l'hanno presa bene. Ma se è vero che, nella dottrina del relativismo culturale, ogni usanza è giudicabile solo secondo gli stessi parametri della cultura di appartenenza, che c'è da vergognarsi?

sabato 12 settembre 2009

stanze cinesi

Questo post nasce in margine ai commenti a un post di Paolo Attivissimo. Da prendersi come il mio omaggio ad Alan Turing

Nel suo celebre articolo Computer Machinery and Intelligence Turing propose di sostituire alla domanda, formulata in modo vago, "può una macchina pensare?", un'altra domanda, basata su più precisi criteri comportamentali (forse non abbastanza precisi, come vedremo), ovvero: può una macchina superare il tipo di test che sto per proporre? e il test consisteva nel dialogare a distanza con un essere umano in modo che costui non sospettasse di stare interagendo con una macchina.

Per come è formulata la questione, vi è un equivoco frequente riguardo il test di Turing, ed è quello di scambiarlo per una sorta di "definizione" dell'intelligenza, piuttosto che un semplice criterio. Turing infatti sapeva benissimo che l'intelligenza di una persona non si riduce alle sue capacità verbali o anche al suo comportamento manifesto, ma attraverso il suo gioco della simulazione intendeva elaborare un test tale che, superato il quale, non avrebbe lasciato dubbi sulle effettive capacità cognitive della macchina.

Turing aveva in mente, infatti, delle vere conversazioni, e non quelle parodie di conversazione che sono diventate popolari grazie ai primi programmi di intelligenza artificiale, come ELIZA, che un tempo venivano pubblicizzati come "programmi che avevano battuto il test di Turing". In realtà ELIZA, che simula uno psicoterapeuta rogeriano, non fa che rielaborare le stesse frasi dei "pazienti" girandole in forma di domanda:

P: oggi mi sento triste
E: perché ti senti triste?
P: mio padre mi odia
E: parlami di tuo padre
P: da piccolo mi picchiava
E: il fatto che da piccolo ti picchiava è importante?

Il fatto che alcune persone, forse suggestionabili, abbiano scambiato ELIZA per un vero psicoterapeuta, e addirittura si siano sentite "comprese", in realtà dovrebbe far riflettere sui limiti della psicoterapia, piuttosto che su quelli dell'IA. In una variante di ELIZA ancora più ridicola, il programma PARRY simulava un paziente paranoico convinto di essere perseguitato dalla mafia. Osservando che PARRY riusciva a infilare la mafia in qualsiasi discorso stesse facendo alcuni psicoterapeuti, non sapendo che si trattava di un programma, lo scambiarono per un vero soggetto con sintomi paranoici.

Il trucco qui diventa evidente: non si sta simulando il comportamento di una persona "normale", "razionale", ma si sta simulando appunto l'assenza di razionalità, che è cosa molto più facile. Seguendo la stessa linea, si potrebbe dire che il mio pupazzo Carletto è perfettamente in grado di superare il test di Turing simulando il comportamento di un catatonico.

L'esempio di conversazione che Turing stesso riporta nel suo articolo, piuttosto, dovrebbe chiarire le idee su cosa è veramente richiesto per superare il test: si tratta di un ipotetico esame di letteratura, il cui scopo, normalmente, è proprio quello di verificare che il candidato non abbia assimilato nozioni in modo "meccanico", "a pappagallo".

D: Nella prima riga del sonetto: "ti paragono a un giorno d'estate", "un giorno di primavera" non andrebbe altrettanto bene?
R: Rovinerebbe la metrica
D: E un "giorno d'inverno"? ci starebbe
R: Sì, ma nessuno vuole essere paragonato a un giorno d'inverno
D: Lei non direbbe che il signor Pickwick le ricorda il Natale?
R: In un certo senso.
D: Ma il Natale è un giorno d'inverno, e credo che Pickwick apprezzerebbe il paragone.
R: Lei non dice sul serio. Con "un giorno d'inverno", si intende una tipica giornata invernale, non un giorno particolare come il Natale.

Forse sono troppo ottimista riguardo ai pregiudizi della gente, ma io sono in effetti convinto che se i computer potessero davvero conversare in questa maniera, pochissime persone avrebbero dubbi riguardo alla loro capacità di comprensione, anche delle poesie di Shakespeare.

Dunque ci sono due questioni da affrontare: la prima è se un computer potrà mai superare il test di Turing (ma davvero, non con i trucchi in stile ELIZA). La mia personale opinione è che sia teoricamente possibile (negare questo significherebbe concepire l'essere umano in maniera diversa da una macchina, ovvero porlo al di fuori della natura, opinione naturalmente legittima ma un po' demodé), ma che siamo ancora molto molto lontani dall'obiettivo (per farsene un'idea basta conversare con l'ultimo software vincitore del Loebner Prize).

Fra gli argomenti contrari, ovvero che vorrebbero dimostrare l'impossibilità per una qualsiasi macchina di Turing (ricordiamo che una macchina di Turing universale è in grado di simulare qualsiasi altra macchina) di riprodurre le abilità cognitive del cervello umano, vi è una linea di pensiero che va da John Lucas per arrivare al fisico Roger Penrose, e che fa un uso abbastanza disinvolto dei teoremi limitativi della matematica (il teorema di incompletezza di Gödel, e lo stesso teorema di Turing riguardo all'esistenza di problemi non decidibili).

Io del teorema di Gödel parlerò il meno possibile, perché è un argomento sul quale è facilissimo dire sciocchezze (e ho il privilegio di avere lettori che se ne accorgerebbero subito). Basti dire che Gödel ha dimostrato, con un teorema la cui dimostrazione è uno dei più alti risultati (anche estetici) mai raggiunti dall'umanità, che in ogni sistema formale sufficientemente ricco vi sono proposizioni vere ma non dimostrabili (all'interno del sistema). Il ragionamento di Penrose, nel libro La mente nuova dell'imperatore, è più o meno questo, stringendo: dal momento che vi sono proposizioni che noi possiamo riconoscere come vere ma una macchina non può, allora la mente umana è più potente di una qualsiasi macchina. Si consideri per analogia il seguente argomento: dal momento che voi non siete in grado di guardarvi negli occhi (se non con uno specchio) ma io posso guardarvi negli occhi, allora ho delle capacità che voi non avrete mai.

In effetti l'opinione dei logici riguardo all'uso di Penrose del teorema di Gödel è abbastanza chiara (indipendentemente dai grandi meriti di Penrose come scienziato e anche come divulgatore). Per Odifreddi "In realtà tale argomento, banalmente scorretto, potrebbe essere un buon test per verificare, in sede di esame, la comprensione di uno studente del Teorema di Gödel e della sua dimostrazione. Il problema non è qui che Penrose non passerebbe il test, quanto piuttosto il fatto che egli finisca col traviare lettori sprovveduti in matematica, benché altrimenti avveduti".

Markus Hutter è ancora più tagliente: "L'argomentazione di Penrose, che di fatto ricalca quella di John Lucas e la estende in due volumi, è una delle più interessanti obiezioni al programma della 'IA forte', e tutti dovrebbero leggerla e comprenderla. Ma naturalmente è errata, come ogni altra obiezione alla IA presentata ad oggi". RIP.

La seconda questione è se sia davvero lecito considerare intelligente un programma che superi (con tutti i crismi) il test di Turing. Chi sostiene il contrario si mette in una posizione abbastanza delicata, da un punto di vista metafisico. Se esibire un comportamento intelligente non basta ad essere definiti degli esseri pensanti, allora c'è anche il rischio che nessuno di noi (a parte me, ovviamente) sia davvero un essere pensante. Io so chi sono, per introspezione, ma nessuno può garantirmi che gli altri non siano altro che stupidi automi privi di pensiero e di coscienza.

Comunque John Searle l'ha fatto: nell'articolo Minds, Brains, and Programs, con una delle argomentazioni più balzane della storia della filosofia, ha preteso di dimostrare che non basta superare il test di Turing per essere considerati esseri pensanti. Tale argomento è noto come "l'esperimento mentale della stanza cinese".

Si immagini, dice Searle, di essere rinchiusi in una stanza piena di libri, dove l'unico contatto col mondo esterno è una feritoia. Ogni tanto qualcuno da fuori inserisce un foglio nella feritoia, pieno di strani simboli. Il compito dell'uomo rinchiuso in questa stanza è quello di prendere il foglio e consultare i suoi libri, che sono pieni di istruzioni per trasformare questi simboli in altri simboli, scriverli su un nuovo foglio, e poi infilarlo nella feritoia per trasmetterlo al di fuori (es. "se è presente il simbolo x, sostituirlo con i simboli y e z").

Si dà il caso che quei simboli strani siano ideogrammi cinesi, e che ciò che l'uomo nella stanza sta facendo, senza esserne consapevole, è dialogare in cinese col mondo esterno (magari proprio sul sonetto di Shakespeare). Se l'uomo, pur rispondendo in corretto cinese, non è in grado di comprenderlo (perché agisce come mero automa ed esecutore di istruzioni), allora neanche una qualsiasi macchina di Turing (che anch'essa esegue solo istruzioni) può essere considerata in grado di capire quel che fa. Searle pretende di aver dimostrato, così, che "la sintassi non può mai generare la semantica".

Io lascio al lettore il compito di individuare le varie falle presenti in quest'argomentazione (esiste un'ampia letteratura su questo esperimento mentale, proprio perché è talmente difettoso che ognuno vi individua un errore diverso, e questo del resto ne ha fatto la fortuna). C'è una cosa però su cui Searle ha evidentemente ragione. In effetti la sintassi, da sola, non può generare la semantica, ovvero non è la semplice correttezza formale a far sì che con la frase "il libro è sul tavolo" ci si riferisca proprio a un libro sul tavolo.

La semantica però non è nemmeno garantita da un misterioso "potere causale" del cervello umano (come pensa Searle, e che Roger Penrose crede addirittura di individuare nella fisica quantistica). Essa è semplicemente garantita dall'interazione col mondo esterno. Un programma inerte in effetti non potrà mai essere definito "intelligente", se non in potenza. Pensare, essere intelligenti, significa risolvere problemi, significa fare qualcosa, significa essere influenzati in maniera causale dal mondo, ed influenzarlo in maniera causale.

E se vi è davvero un aspetto che i teorici dell'IA hanno spesso sottovalutato, è questo. Difficile che un software possa superare il test di Turing, nelle attuali circostanze, perché in genere i software testati non sono che assembramenti di byte privi di apprendimento e la cui unica interazione col mondo avviene tramite le domande dei giudici. Essi non hanno a che fare, nella loro esistenza, con libri e tavoli, e quindi non possiamo aspettarci che siano davvero in grado di comprendere una frase come "il libro è sul tavolo". Sic et simpliciter.

sabato 5 settembre 2009

la luna è quadrata



Il video mostra come costruire, con riga e compasso, un quadrato di area approssimativamente uguale a quella di un cerchio di raggio dato. Naturalmente non si tratta di una vera quadratura del cerchio perché, come sanno anche le capre, questo problema è stato dimostrato impossibile da risolvere da Ferdinand von Lindemann nel 1882, così come impossibile risulta trisecare un angolo o duplicare un cubo (sempre limitandoci agli strumenti di riga e compasso, altrimenti si può fare).

Pi (il rapporto fra circonferenza e diametro di un cerchio) è un numero trascendente, ovvero non costruibile. Non è definibile né come rapporto fra numeri interi (nel qual caso sarebbe un numero razionale), né come radice di un'equazione (nel qual caso sarebbe un numero algebrico). È definibile solo come limite di una serie infinita di somme (in vari modi), il che ne preclude appunto la costruibilità con riga e compasso.

La storia, però, è piena di personaggi bizzarri che hanno preteso di aver trovato la "quadratura del cerchio" (espressione che è divenuta proverbiale per indicare una soluzione perfetta a un problema apparentemente insolubile). Uno dei più famosi, ad esempio, è Thomas Hobbes (1588-1679), l'autore del Leviatano, uno dei padri della concezione moderna dello Stato, e teorico del "contratto sociale" secondo cui gli uomini escono dallo stato di natura e dall'eterna guerra dell'uomo contro l'uomo solo rinunciando alle loro libertà e affidando la sovranità ad un unico soggetto. Ma Hobbes oltre che occuparsi di filosofia politica era anche un matematico dilettante.

Le idee filosofiche di Hobbes erano improntate a un materialismo estremo, che non lasciava spazio alcuno per entità "ideali" e astratte. Proprio questa sua visione avrebbe da un lato decretato il successo e l'originalità della sua teoria politica, dove la costruzione dello Stato trova legittimazione non in un'entita divina e sovra-umana, ma nelle materialissime e terrestri pulsioni umane, e dal desiderio degli uomini di proteggersi dai loro simili. Dall'altro lato, lo avrebbe spinto a rendersi ridicolo di fronte alla comunità scientifica, nel corso di una furiosa polemica col contemporaneo John Wallis, durata oltre vent'anni.

Pare infatti che gli errori di Hobbes derivassero proprio dal fatto di non essere in grado di riconoscere le linee e i punti geometrici come entità astratte, prive di une dimensione fisica e concretamente misurabile. L'idea di un ente matematico "non costruibile" fisicamente, e intuibile solo sul piano dell'intelletto, era inaccettabile per Hobbes, che vedeva in questa concezione anche un pericolo per la sua idea dello Stato (anch'esso, appunto, definibile come una costruzione interamente umana).

John Wallis, che aveva gioco facile nello scovare gli errori di Hobbes, era d'altronde motivato pure lui dall'avversione per il sistema filosofico hobbesiano, il che lo spinse a criticarlo con asprezza che alcuni giudicano eccessiva. Proprio il fatto che la posta in gioco non era semplicemente un problema geometrico, spinse invece Hobbes a intestardirsi oltre misura. Così, una volta ammesso che la sua prima dimostrazione (contenuta nel De corpore) era sbagliata, invece di riconoscere semplicemente che tale problema era di natura forse troppo complicata, ma che questo non inficiava necessariamente il suo approccio materialista, continuò a produrre nuove dimostrazioni, tutte rigorosamente sballate. Lo strazio e la polemica con Wallis si interruppero solo con la morte di Hobbes.

Ma Hobbes ha avuto moltissimi epigoni, che continuano a quadrare il cerchio anche ai nostri giorni. Epigoni meno noti, e i cui errori sono, a dirla tutta, meno interessanti da investigare e comprendere: per la maggior parte si tratta di semplici lunatici, che ovviamente devono liquidare tutta la matematica e la geometria del passato come frutto di errori e del dogmatismo accademico, il quale impedisce anche l'accettazione della loro ovvia ed elementare scoperta. È lo stesso genere di persona che invade i forum su Internet sostenendo che la gravità di Newton è una bufala colossale (non so se avete presente il tipo).

"Lunatici" si rivela, per coincidenza, il termine giusto, visto che l'ultimo ad inserirsi nella folta schiera dei "quadratisti", l'autore del video mostrato, è Jarrah White, uno dei più famosi lunacomplottisti, cioè quelle persone che sostengono che lo sbarco della Luna fu tutta una messinscena cinematografica. In realtà Jarrah non fa che citare uno dei padri storici del lunacomplottismo, ovvero Ralph René (passato a miglior vita nel 2008, ma il cui sito è ancora attivo). Il quale René, a sua volta, si rifaceva all'opuscolo scritto da un certo Dan W. Gaddy nel 1988 (On the Exact Measurement and Quadrature of the Circle). Vale la pena notare come René affermi, tra le altre cose, anche che la teoria della gravitazione newtoniana è sbagliata perché secondo i suoi calcoli la Luna dovrebbe cadere sul Sole almeno una volta al mese.

La cosa straordinaria, e che il video in effetti non mostra appieno, è il fatto che secondo Gaddy e René il quadrato ottenuto con quel metodo non è un'approssimazione dell'area del cerchio, ma è una perfetta quadratura. Il che però significa che l'area del cerchio di raggio unitario è davvero uguale alla radice di due più la radice di tre. Il che sarebbe sconvolgente, perché vorrebbe dire che il valore di pi è diverso da quello che finora tutti hanno creduto. Leggere per credere:

For almost 3,000 years mathematicians have proved, time and time again, that by using only a straight edge and compass, a square with the area of that circle couldn't be created. 12 years ago Dan W. Gaddy did just that and in doing so, found that PI does not equal 3.1415926 but instead it equals 3.146264. The 12 page pamphlet ($14.00) shows Gaddy's method.


Purtroppo non ci è possibile scoprire attraverso quali passaggi Gaddy ha trovato questo valore, se non pagando 14 dollari, che è il prezzo dell'opuscolo di Gaddy in vendita sul sito di René. Un modo, lo dico con sincera ammirazione, davvero geniale per spillare soldi ai gonzi (14 dollari per sole 12 pagine, ma contenenti la scoperta del secolo... forse ne vale la pena).

Jarrah White è entrato in questa antica e illustre contesa solo di recente, in seguito alle pressioni fatte su di lui da un debunker, un tipo che si fa chiamare FractalDimension su Youtube. Come documentato in questo video, FractalDimension ha chiesto a Jarrah White quale dei due valori ritenesse corretto. La risposta di Jarrah è stupefacente:

I'm open to both values until one of them can be proven correct. I don't istantly dismiss an alternative theory simply because everyone else jumps on a bandwagon. Instead i test the theory to uncover wich is correct. I plan to experimentig to find out wich value of pi holds true.


Il classico concentrato di arroganza complottista dove chi parla mostra tutta la sua ignoranza abissale nel contempo vantandosi della sua pretesa indipendenza di pensiero. Dunque, Jarrah White ha deciso di "sperimentare" in proprio per scoprire quale dei due valori è quello corretto (una scelta lessicale che già dimostra come non sappia nemmeno di cosa sta parlando, come se la matematica fosse una scienza empirica). L'annuncio è di quelli che causano delle alte aspettative. Chissà cosa avrebbe tirato fuori Jarrah....

Beh, alla fine, e circa un mese fa, il risultato delle elucubrazioni (anzi, sperimentazioni) di Jarrah è stato il video che abbiamo visto. Un po' poco, visto che c'è la costruzione del quadrato ma manca appunto un qualsiasi accenno di dimostrazione del fatto che le due aree sono uguali. Nel frattempo, la sonda americana LRO ha fotografato i siti dell'allunaggio, fornendo finalmente la prova definitiva che i lunacomplottisti chiedevano da tempo. Bisogna dire che questi ultimi hanno trovato un bel modo per recuperare un po' della loro credibilità distrutta.

Ah, tranquilli: le foto della sonda sono false. Parola di quadratista.