sabato 6 ottobre 2012

malati transitori

Durante il mio breve periodo di supplenza, qualche mese fa, parlando di malattie mentali mi capitò di menzionare il fatto che l'omosessualità non è più considerata un disturbo della personalità solo dal 1973, anno in cui venne cancellata dal manuale diagnostico e statistico.

Per riassumere brevemente la faccenda, in quell'occasione venne cancellata solo la cosiddetta "omosessualità ego-sintonica", ovvero quella in cui il soggetto accetta la propria condizione, mentre continuò ad essere considerata un disturbo da curare (nel senso di far cambiare orientamento sessuale al soggetto) l'omosessualità ego-distonica, fino all'uscita del DSM IV nel 1994. È ancora oggi considerato un disturbo la distonia dell'orientamento sessuale in genere, disturbo che però può riguardare anche le persone eterosessuali (e si ritiene che il compito della terapia dovrebbe essere piuttosto quello di far accettare il proprio orientamento sessuale).

La storia di come l'American Psychiatric Association (APA) arrivò a prendere questa decisione è molto interessante, e se ne parla in questo post. Qui vale la pena ricordare, quale dettaglio pittoresco, come in questa storia a un certo punto faccia la sua comparsa un certo dottor Anonymous, con maschera di Nixon (a me sembra piuttosto Leatherface di The Texas Chainsaw Massacre) e parruccone, che parla a un incontro appositamente organizzato per descrivere la sua condizione di psicologo gay costretto a nascondere le sue preferenze (altrimenti non avrebbe potuto esercitare, secondo il regolamento dell'ordine).

Meno pittoresco è il fatto che tale decisione venne presa sia per pressioni interne alla comunità degli psicologi, non soddisfatti dello statuto teoretico della definizione di omosessualità come malattia, che per pressioni esterne alla comunità scientifica, ovvero da parte degli attivisti gay. Motivo questo per cui anche dopo la revisione del 1973 questa incontrò una forte opposizione da parte di una minoranza conservatrice di psicologi convinti che la scienza avesse ceduto il passo alla politica, all'ideologia. E in effetti ci si può ben chiedere quanto abbiano contato i motivi ideologici in quella decisione.

È esattamente quando ho detto questo (ma non è che abbia ripetuto tutto il pappardello sopra, non giudicatemi male) che una studentessa mi ha guardato e mi detto: "ma prof, era giusto che non fosse considerata una malattia". Mi ha fatto molto piacere una tale sensibilità contro l'omofobia in una ragazza di liceo, e naturalmente l'ho subito rassicurata: certo che era giusto. Il punto però non era questo. Il punto è che è effettivamente difficile, quando si vuole stabilire cosa è un disturbo mentale, riuscire a discriminare che cosa è puramente scientifico da quello che è politico e ideologico, forse impossibile.

Ma il punto qui non è nemmeno ribadire l'ovvietà secondo cui i giudizi di valore sono sempre inestricabilmente mescolati con i giudizi teoretici, il punto forse è che non c'è nessuna realtà oggettiva sulla quale i nostri giudizi di valore fanno presa, essendo quella realtà appunto una costruzione di quegli stessi valori. Non parlo ovviamente della "realtà" in senso generale (non sono un idealista), parlo di alcune specifiche realtà, ovvero di quei fenomeni che vengono appunto chiamati "disturbi mentali".

Nel libro I viaggiatori folli Ian Hacking introduce la categoria della "malattia mentale transitoria". Un disturbo mentale transitorio è un disturbo che fa la sua comparsa in una certa epoca, in un certo contesto, viene descritto, studiato, analizzato, e poi sparisce così come era misteriosamente comparso. Il caso dal quale prende le mosse Hacking è l'epidemia della fine dell'Ottocento di "determinismo ambulatorio", ovvero di persone che spinte da un qualche stimolo irresistibile si sentivano come costrette a vagare senza meta, spesso in stato di coscienza alterata, ritrovandosi poi a distanza di mesi, ritrovata la lucidità, in paesi lontanissimi dalla loro residenza abituale.

Il primo caso di fugueur diagnosticato come tale fu un operaio di Bordeaux, Albert Dadas, e il medico che per primo descrisse il male fu Albert Tissiè (figura importante anche per la storia della pedagogia e in particolare dell'educazione fisica, le idee riguardo alla quale lo posero in contrasto col barone de Coubertin). Ma presto moltissimi altri ne seguirono, prima in Francia, poi anche in Germania. È affascinante seguire nel libro di Hacking le polemiche e i dibattiti dottrinali che accompagnarono il decorso dell'epidemia: in sostanza secondo la scuola di Tissiè la fuga era un fenomeno di origine isterica mentre secondo la scuola di Charcot apparteneva invece alla classe dei disturbi epilettici. È affascinante, dicevo, in quanto secondo le moderne categorie psichiatriche quella diatriba non ha alcun significato, non trova posto nella nostra tassonomia scientifica, è come se quelle persone stessero parlando, in assoluta serietà, del sesso degli angeli. Cosa che dovrebbe almeno far sospettare che i dibattiti odierni possano essere giudicati un domani nello stesso modo.

Comunque accanto alla malattia mentale transitoria Hacking introduce il concetto, collegato e altrettanto importante, di "nicchia ecologica", ovvero l'insieme delle condizioni (sociali, culturali, economiche) affinché una malattia mentale venga all'esistenza, e la mancanza delle quali ne determina invece la scomparsa. Quali fattori hanno determinato, ad esempio, la comparsa del determinismo ambulatorio nella Francia di fine Ottocento? Una risposta plausibile, per Hacking, è la polarizzazione-opposizione fra due altre categorie (polarizzazione solo in quel momento resa possibile), quella del turista e quella, antica, del vagabondo. Il vagabondaggio era un fenomeno che destava allora preoccupazione sociale, che si cercava di estirpare tramite meccanismi di controllo quali il documento d'identità reso obbligatorio, meccanismi ai quali Albert Dadas tentava di sfuggire "smarrendo" ripetutamente i suoi documenti (ma in altre occasioni conservando quelli che lo "certificavano" come malato da curare). Dall'altro lato della medesima polarità si trova il fenomeno, nuovo, del turismo: la media borghesia è libera di viaggiare (grazie anche all'espansione delle ferrovie) per il puro piacere di farlo e vedere posti nuovi.

Ma persone come Albert Dadas non sono classificabili né come vagabondi né come turisti: non sono reietti e diseredati della società come il classico vagabondo, si tratta di professionisti, persone che hanno un loro lavoro, ma al tempo stesso mancano dei requisiti di benessere tali da identificarli come turisti. Ecco allora che si rende necessario spiegare la loro esistenza introducendo una nuova etichetta: Albert Dadas è la devianza patologica di quegli altri fenomeni, altrimenti normali e rassicuranti (rassicuranti almeno dal punto di vista cognitivo). Negli Stati Uniti il fenomeno non prende piede perché lì la polarità in questione è resa impossibile dal mito della frontiera. In Germania invece è rinforzato da un altro elemento della polarità: quello della renitenza alla leva, tanto che parte dei dibattiti verte sul come distinguere il vero fugueur (isterico o epilettico che sia) dal semplice disertore. Infine il fenomeno cessa quando viene a mancare uno dei poli che lo alimentano, ovvero quello della paura del vagabondaggio. Ma anche per motivi interni alla scienza psichiatrica (anch'essi facenti parte della nicchia ecologica), ovvero l'aggiornamento della tassonomia e delle classificazioni mediche che dissolvono la dicotomia tra isteria ed epilessia, negano uno status autonomo alla fuga e semplicemente la inseriscono all'interno dei comportamenti possibili associati ad altri disturbi della personalità (di varia natura).

Hacking non intende dire che il fenomeno non sia in un certo senso "reale" (lo è certamente, anche se reso relativo), che sia una sorta di impostura, né il suo libro vuole essere un atto di accusa in senso antipsichiatrico. Credo piuttosto che intenda essere una seria riflessione su quanto sia rischioso certo "positivismo" applicato alle scienze che studiano la mente. Quali altre malattie transitorie conosciamo? Non è molto difficile individuare una classe di possibili candidati. Lo stesso Hacking ha scritto un precedente libro, La riscoperta dell'anima, dedicato al disturbo della personalità multipla, che in molti sospettano essere una sorta di costrutto giuridico, fatto per evitare il carcere ai responsabili di atti violenti e alimentato anche dalle pratiche pseudoscientifiche di certi psicologi che usano l'ipnosi per far emergere false memorie. Vogliamo parlare del disturbo da deficit dell'attenzione? Oppure della sindrome di Asperger, dove possiamo anche ritrovare quella polarità fra due termini in opposizione, ovvero l'idiota e il genio asociale (il geek)? Forse pure l'anoressia potrebbe essere classificata come transitoria, se si ritengono necessarie certe condizioni solo oggi presenti affinché possa esistere.

Tornando all'omosessualità, potremmo chiederci di nuovo: perché era considerata una malattia, e perché non lo è più? Quali sono le condizioni affinché un dato comportamento possa essere classificato come patologico e deviante? Quello che il sottoscritto trova curioso, ad esempio, è il come la "normalità" (non patologicità) del comportamento sia passata attraverso l'instaurarsi di un dogma oggi praticamente indiscusso quale l'ipotesi innatista. Oggi insinuare che l'omosessualità possa essere il frutto di una scelta (consapevole o meno) derivante da esperienze di vita è considerato oltraggioso, qualche decennio fa forse sarebbe stato considerato oltraggioso il contrario, sempre dal punto di vista del pensiero politicamente corretto, perché qualsiasi ipotesi innatista correva il rischio di essere bollata come riduzionismo biologico e quindi di stampo addirittura eugenicista.

Si tratta di un modo, direi, per escludere a priori l'intervento terapeutico, perché se uno non ha la possibilità di essere altro che omosessuale (o eterosessuale) allo psicologo spetta al massimo il compito di fargli accettare questa condizione. Non esiste invece la possibilità che un orientamento sessuale incerto possa  prendere una direzione o un'altra in seguito a particolari condizioni successive alla nascita, o meglio, questa possibilità non deve essere riconosciuta perché si vuole escludere che qualcuno possa considerare il proprio orientamento sessuale (specie se omo) come qualcosa di indesiderabile, da dover cambiare. Ma a me sembra chiaro che in questo modo gli psicologi vengono meno al loro dovere di neutralità e non fanno altro che sovrapporre quelli che sono i nostri valori (di liberali occidentali del ventunesimo secolo) ai desiderata dei loro potenziali clienti. Mentre io, da non credente, non trovo nulla di particolarmente scandaloso nel fatto che un cattolico possa desiderare di "guarire" dalla sua omosessualità. Pensare questo sarebbe come considerare il cattolicesimo una malattia da estirpare, inserendola magari nel DSM prossimo venturo.

In realtà, le condizioni che prima rendevano possibile la classificazione dell'omosessualità come malattia non consistevano tanto, da parte degli psicologi, in una valutazione moralistica del comportamento omosessuale (ma ci sarà stato sicuramente anche questo), quanto in una valutazione oggettiva del fatto che l'omosessualità era, ai tempi, socialmente indesiderabile. Ed è il fatto che la società ha infine accettato l'omosessualità come un comportamento non scandaloso ad avere infine spinto verso la revisione. Alcuni omosessuali in paesi dove l'omosessualità è proibita provano certamente un disagio direttamente legato alla loro condizione, ma questa è in fondo la definizione di disturbo della sessualità: una disfunzione nel meccanismo dell'attrazione sessuale che preclude la trasmissione dei propri geni, e tale da provocare un disagio psichico in chi ce l'ha. Il che significa che il considerare l'omosessualità una malattia oppure no potrebbe dipendere dal paese dove ci si trova a risiedere.

Ovviamente, come dissi alla mia studentessa nel tentativo di rassicurarla, è senz'altro una cosa positiva che gli psicologi americani abbiano alla fine rivisto le loro posizioni, in quanto la posizione degli psicologi, oltre a registrare il dato di fatto, rischiava di giustificarlo e perpetuarlo. Ma ancora una volta, questo ci fa solo capire come l'intreccio sia pressoché inestricabile. Il problema insomma, non è nel concetto di omosessualità, è nel concetto di malattia mentale.

domenica 23 settembre 2012

il senso della vita

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Richard Dawkins, nel suo libro L'illusione di Dio, si dice abbastanza convinto di avere dimostrato l'inesistenza di un sommo artefice dell'universo (o quel che si intende generalmente con l'ambigua espressione "Dio"). Naturalmente si tratta di quel genere di dimostrazione che in realtà lascia più o meno tutto come sta, nel senso che convincerà gli atei e troverà scettici i credenti.

Se non altro, è un argomento che ho trovato abbastanza nuovo e originale (anche se questo non significa che lo sia davvero, non essendo il sottoscritto esattamente un dottore in teologia) e che non mi pare che abbia in fondo trovato degna rappresentazione e discussione nella blogosfera. Ecco perché vorrei, abbastanza brevemente e semplicemente, riassumerlo.

Come noto uno degli argomenti più classici a favore dell'esistenza di un sommo creatore è quello di William Paley (1743-1805) in cui si ipotizza che un passante trovi per terra un orologio. Nessuno sano di mente, sostiene Paley, potrebbe pensare che quell'insieme di pezzi così preciso, così ordinatamente assemblato, così complicato, possa essere frutto del semplice e ignorante caso. Chiunque arriverebbe subito alla conclusione che un oggetto che svolge la sua funzione in modo così mirabile sia stato volontariamente progettato da qualcuno in modo tale da svolgerla, qualcuno di intelligente. Nella fattispecie il passante che formulasse una tale ipotesi avrebbe quasi certamente ragione: un orologio è il segno lasciato da un orologiaio, pochi dubbi su questo.

Analogamente, secondo la linea di pensiero teista, la natura stessa è un meccanismo di troppo mirabile perfezione per credere che sia venuta fuori dal nulla o dal caso: l'universo stesso, con le sue leggi, con le sue creature, è il segno dell'esistenza di un creatore superintelligente. Prova ne è che nessuno di noi, nemmeno quelli che sanno fabbricare orologi, sarebbe in grado di costruire entità ancora più complesse come i fiori, gli insetti, o un uomo. Ancora più improbabile che nel caso dell'orologio, quindi, che a farlo sia stato il caso.

L'argomento è onestamente ben formulato e a un primo sguardo convincente, ma l'ateo, una volta esaminatolo, può ben rispondere che in realtà l'ipotesi dell'orologiaio, benché vera, è lungi dal rispondere all'enigma dell'esistenza dell'orologio, perché non fa altro che spostare il problema. Ovvero, una volta che abbiamo appurato che è stato un orologiaio a far venire all'esistenza l'orologio, resta pur sempre il problema di spiegare l'esistenza dell'orologiaio. Per fare un esempio moderno, secondo alcune ipotesi fantascientifiche la vita in realtà non si è sviluppata sulla Terra ma su altre galassie, i cui abitanti milioni di anni fa hanno colonizzato la nostra. Ebbene, sono in pochi che accetterebbero questa come una "spiegazione" dell'origine della vita. Anche se fosse vero che la vita si è sviluppata in altri pianeti e solo dopo diffusasi sul nostro, noi vogliamo sapere come ha avuto origine su quegli altri pianeti.

Il teista, naturalmente, ha una risposta al quesito su cosa ha creato l'orologiaio, molto elegante nella sua semplicità. È stato Dio, ovvero il creatore di tutte le cose. L'ateo a questo risponde: "Ok, e Dio chi l'ha creato?", e qui tradizionalmente si arresta il dibattito in quanto tutti restano fermi sulle loro posizioni: il teista che ritiene che non vi sia bisogno di postulare alcun altro ente oltre a Dio, il quale è per definizione il creatore di tutto, e l'ateo nel quale rimane invece la sensazione che in tal modo non si sia spiegato un bel niente.

La novità, rispetto ai tempi di Paley, e che viene sfruttata da Dawkins, è che oggi abbiamo una risposta più soddisfacente alla questione "chi ha fatto l'orologiaio", anche se questo non significa ancora rispondere a "chi ha fatto la vita, l'universo, e tutto quanto". Oggi sappiamo, ed è una acquisizione scientifica, non un semplice postulato filosofico, che a trasformare gli organismi semplici in organismi via via più complessi, fino alla costruzione di organismi iper-complicati in grado di costruire altri meccanismi come un orologio, è stata una forza chiamata "evoluzione tramite selezione darwiniana".

Il punto, qui, non è sostituire la scienza alla fede in un atto di arroganza intellettuale, ma rendersi conto che la spiegazione scientifica è più soddisfacente per l'intelletto perché va nella direzione giusta: ovvero, non spiega qualcosa di complesso a partire da qualcosa di ancora più complesso, l'orologio dall'orologiaio, lasciandoci così ultimamente insoddisfatti, ma spiega qualcosa di complesso a partire da qualcosa di più semplice, ed è questa la grande forza della teoria dell'evoluzione.

L'argomento di Dawkins si riduce quindi a questo: che spiegare l'esistenza dell'universo tramite Dio è una mossa che, per quanto non sia logicamente incoerente, da un punto di vista razionale e scientifico va sicuramente nella direzione sbagliata: spiega qualcosa di mostruosamente complesso, l'universo, con qualcosa di ancora più mostruosamente complesso, ovvero un ente al cui confronto il nostro orologiaio sparisce: un ente di intelligenza infinita, e dalle capacità illimitate.

Si potrebbe sostenere, certamente, che nulla obbliga a pensare a Dio come a un ente complesso, ma è anche vero che è proprio questa l'implicazione dell'argomento dell'orologio di Paley: per fare un orologio, meccanismo complicato avente un comportamento semi- o simil-intelligente, occorre un organismo intelligente, e intelligenza significa complessità, e per fare un organismo intelligente come l'orologiaio, occorrerà allora un organismo super-intelligente e supercomplesso.

Ma più procediamo nei gradi crescenti di complessità, più aumentano le cose da spiegare, lungi dal diminuire. Nulla di tutto questo nell'ipotesi darwiniana: l'esistenza dell'uomo si spiega effettivamente partendo da qualcosa di più semplice, ovvero dall'esistenza di entità autoreplicanti, soggette ad errore di copiatura, che si riproducono in maniera differente in risposta alle stimolazioni dell'ambiente. È così possibile spiegare, in maniera quasi del tutto soddisfacente, l'esistenza dell'uomo a partire dell'esistenza dei primi organismi unicellulari.

Il che non significa certo aver spiegato tutto: non sappiamo ad esempio come siano nati quei primi organismi cellulari, e non sappiamo nemmeno come sia nato l'universo, Quel che sappiamo è come non rispondere. Dire che la vita sulla Terra è nata per opera di Dio, o se è per questo per opera di creature extraterrestri provenienti da un'altra galassia, non risolve il problema, non fa che spostarlo, e soprattutto lo sposta nella direzione sbagliata. La comprensione si muove nell'altro senso, la spiegazione dev'essere più facile della cosa spiegata.

Ecco perché possiamo fare a meno dell'idea di un creatore onnipotente dell'Universo. Sempre che questa sia una definizione adeguata di Dio, naturalmente.

Nella foto, un bel ritratto di Kurt Gödel, che tentò una prova ontologica dell'esistenza di Dio.

venerdì 11 maggio 2012

le brutte parole


Quando l'antropologo Napoleon Chagnon venne accusato, all'inizio del secolo, di condotta immorale nel suo lavoro sul campo e di alimentare i conflitti e l'aggressività fra gli indios yanomami che in teoria avrebbe dovuto osservare in maniera distaccata e neutra (chissà se una cosa del genere è possibile, poi), una parte delle accuse riguardava il suo modo di raccogliere i nomi proibiti e le parole "tabù" nei vari villaggi amazzonici. La questione è: un antropologo ha sempre bisogno di ricostruire i rapporti di parentela all'interno di una certa comunità, ma siccome le parole che designano i parenti sono spesso ambigue (mio zio, mio cognato, mio nonno, sì, ma quale?) ha bisogno anche dei nomi di persona per capire davvero chi diavolo è chi. Peccato che nominare una persona fra gli Yanomami sia proibito, e che farlo in presenza del nominato in questione possa essere pure pericoloso. Nella mentalità yanomami il nome personale infatti è qualcosa di sacro, e il suo uso da parte di persone ostili può essere percepito come una minaccia o comunque come una perdita di dignità, quindi va protetto.

Chagnon racconta appunto che aveva tentato di bypassare il problema grazie a un sapiente uso degli informatori, in un percorso graduale comunque costellato di errori: ovvero si rivolgeva spesso ai bambini (più disinibiti e corrompibili) oppure ai nemici della persona di cui voleva sapere il nome, e poi per controllare se era stato informato bene ne pronunciava il nome in sua presenza. All'inizio le sue vittime si limitavano a scoppiare a ridere, e in questo modo Chagnon si rendeva conto di essere stato preso in giro, e che le parole usate in realtà significavano nella lingua yanomami cose come "grande ano" o "vulva pelosa". Se invece l'indio si metteva a inseguire Chagnon con un machete tentando di decapitarlo probabilmente aveva ottenuto l'informazione giusta.

In realtà è un po' ingiusto utilizzare questi racconti come capi di accusa perché Chagnon racconta questi episodi appunto come esempio di errore che si può fare nella ricerca sul campo, e non proprio come modello da seguire: se ci si pensa, è quel genere di cosa che può capitare non solo agli antropologi, ma a chiunque sia trapiantato in un ambiente nuovo e non conosca la lingua degli indigeni. Infatti non sono soltanto i "primitivi" ad avere delle parole o dei nomi che sono "tabù", ma è qualcosa che accade in tutte le culture, compresa ovviamente la nostra, solo che noi non li chiamiamo "tabù" ma "buona educazione". È maleducato, ad esempio, chiamare col nome di battesimo una persona con la quale non si ha intimità. Se questa persona poi è particolarmente autorevole, come un Presidente della Repubblica, probabilmente non rischierei la vita a rivolgermi a lui con "ehi, Giorgio", ma insomma sarebbe "molto" inappropriato.

A parte i nomi di persona, è chiaro che pure noi occidentali civilizzati abbiamo tutta una serie di parole che uno straniero inconsapevole potrebbe usare maldestramente: pensiamo a cosa accadrebbe ad esempio a chi si rivolgesse a una persona di colore, in America, come a un "nigger" pensando che sia un termine accettabile. A queste parole, in un residuo di pensiero "selvaggio", è attribuito un potere quasi magico: ovvero, non avrebbe molto senso dire a qualcuno che odiamo "vaffanculo" o "stronzo" se non pensassimo che in questi suoni ci sia qualcosa in grado di influire negativamente sul suo benessere. Del resto non avremmo neanche paura di nominare Dio invano o addirittura di rivolgergli quelle brutte parole di prima, se non avessimo un residuo di superstizione che ci fa temere una possibile vendetta. D'altra parte qualcuno sostiene che vi è della superstizione religiosa anche nell'insultare le divinità (come si fa spesso per motivi catartici), e io non lo contraddirò. Insomma, voglio parlare delle parolacce.

Ci sono delle parole che non si possono dire, o almeno non in tutti i contesti (che la proibizione non sia universale è autoevidente: se il tabù fosse assoluto non avremmo neanche modo di sapere quali sono le parole da evitare e non potremmo evitarle). La questione è: perché? Cosa c'è che non va in queste parole? Oppure, cosa c'è in loro che invece le rende così utili? perché – parliamoci chiaro – alcune delle cosiddette parolacce sono le parole che usiamo più spesso, per motivi che però non sono chiarissimi. La sfera semantica delle parolacce, comunque, riguarda i seguenti argomenti: 1) la religione, ovvero le bestemmie, che però almeno in Italia ricadono nella regola già vista di non dare nomignoli irrispettosi a persone autorevoli (e Dio è molto autorevole, per chi ci crede); 2) secrezioni corporee (urina, feci, sperma, in misura minore il muco); 3) attività sessuale (fornicare e i suoi mille sinonimi, le parti del corpo coinvolte nell'attività e le secrezioni, già dette, più epiteti che alludono a chi svolge l'attività come professione o in maniera molto frequente) 4) gli epiteti politicamente scorretti rivolti a certe categorie ("negro", "frocio") per i quali rimando ad altri post passati.

In un mondo in cui le parolacce non fossero tabù la voce relativa a "apparato genitale femminile" su Wikipedia  si svilupperebbe così: "la fica è il canale antistante l'utero, e nella scopata è l'organo che accoglie il cazzo". Effettivamente potrebbe essere fastidioso. Siccome però non può essere il suono stesso della parola, del tutto convenzionale e arbitrario, a risultare fastidioso (e infatti a uno che non parla l'italiano non direbbe niente), dobbiamo per forza pensare che non siano le parole, ma le cose stesse nominate dalle parole a risultare fastidiose da pensare. Ma cosa ci sarà mai di fastidioso nel cazzo e nella fica? e perché allora "pene" e "vagina" non risultano altrettanto insultanti?

Per quanto riguarda le secrezioni corporee, almeno, è chiaro che proviamo schifo per le feci in quanto veicoli di malattie, o comunque in quanto trattasi di cose abbastanza ripugnanti alla vista e all'odorato. Allora probabilmente dire "merda" è diverso dal dire "feci" in quanto, sebbene la denotazione sia la stessa, cambia la connotazione. Ovvero, nella merda è necessariamente contenuta, nel suo significato, pure la sensazione di disgusto provata. Sebbene però non ci piaccia pensare alla merda o parlarne, è chiaro che ci sono dei contesti in cui si è costretti a farlo, come quando un dottore deve analizzare la merda del suo paziente per scoprire eventuali malattie, e allora gli dice "mi porti un campione delle sue feci". Questo perché "feci" è un tentativo di denotare lo stesso oggetto privandolo delle sue connotazioni più sgradevoli. E ci sono invece occasioni in cui quel che vogliamo è proprio richiamare alla mente dell'ascoltatore la sgradevolezza della cosa, per effetti comici o per rendere l'idea della esasperazione in cui ci si trova: "e così, sapete, quell'imbranato non solo mi ha pestato i piedi mentre ballavamo il tango, ma mi ha pure riempito le scarpe di merda di cane appena pestata". Naturalmente l'uso metaforico è molto frequente: "sono nella merda fino al collo" (non si è mai "nelle feci fino al collo").

Veniamo al cazzo e alla fica ("cazzo" è peraltro parola di origine ignota, essendo le etimologie finora proposte abbastanza improbabili, es. un peggiorativo di "oca"). Nella nostra mentalità libera ed emancipata facciamo forse fatica a comprendere perché le connotazioni legate all'attività sessuale, e quindi anche agli strumenti principali di tale attività, siano così negative da proibire addirittura di nominarli apertamente. "Cazzo" è parola che rientra anche in molti insulti come "testa di cazzo", "sei un cazzone", eccetera, così come "coglione". Curiosamente, in Francia è la parola che indica l'organo femminile, "con" (che però è maschile) ad essere usata come insulto, e le "conneries" sono le nostre "cazzate". L'inglese "cunt" a sua volta è (probabilmente) imparentato con "con", ed è pure quello un insulto. Il paradosso è che la fica è nell'immaginario di molti qualcosa di delizioso, di cui si va perennemente in cerca, non qualcosa che ripugna, e si spera che la stessa cosa sia vera per il cazzo (a seconda dell'orientamento sessuale, ovviamente).

Questo però significherebbe trascurare, in maniera abbastanza ipocrita, tutto ciò che di effettivamente negativo è associato all'atto sessuale, e questo sopratutto in epoche precedenti alla nostra, prive di metodi contraccettivi e spesso con minore attenzione all'igiene personale. In primo luogo, e ancora, gli organi genitali possono essere un veicolo di malattie infettive. Sono veicolo anche di cattivi odori, e insomma non è detto che l'incontro ravvicinato con essi debba per forza costituire una gradevole esperienza, per quanto gli ultimi decenni di erotismo patinato alla Playboy ne abbiano addomesticato molto la natura per certi versi brutale. Si pensi per esempio alla progressiva tendenza alla scomparsa della peluria: una volta la fica era associata all'immagine di una sorta di foresta selvaggia, oggi è al massimo una siepe da giardino, o un cespuglietto pulito e ordinato (rasa il pratino!). Poi, certo, è probabile che dipenda dalle differenze culturali se l'inglese "cunt" è molto ma molto più offensivo della nostra simpatica e sbarazzina fica (per cercare un termine che si avvicini all'inglese quanto a volgarità potremmo ricorrere a "fregna").

Il cazzo, oltre che spesso maleodorante e non sempre gradevole alla vista, può essere invece associato all'idea di una minaccia, di aggressione sessuale. E qui veniamo anche a tutti quei termini che, curiosamente, alludono alla fornicazione (e più spesso ancora alla sodomia) come a qualcosa di negativo e da evitare, invece che a qualcosa di ricercato e agognato: "mi hanno proprio inculato", "ammettilo, stavolta ti ho fottuto", "ma vai a farti fottere" (per quanto quest'ultimo sia probabilmente un esempio di doppiaggese). Steven Pinker nel suo libro The Stuff of Thought, che contiene un intero capitolo sul tema delle parolacce e di cui questo post costituisce un tentativo di localizzazione, individua uno schema ricorrente e interessante, nelle parole che si riferiscono appunto alla fornicazione: da un lato abbiamo "scopare", "trombare", "fottere", "chiavare" eccetera, che sono tutte "parolacce". Dall'altro lato abbiamo "fare l'amore" (o "all'amore"), "andare a letto", "dormire insieme", "giacere", o anche appunto "fornicare" che non è una parola bellissima ma si può dire.

C'è una cosa riguardante le parole "volgari" che salta subito agli occhi , e che manca nelle parole più "accettabili". I verbi non usabili nei contesti più formali sono tutti transitivi. Si scopa o si tromba qualcuno ma si va a letto "con" qualcuno, o si fa l'amore con qualcuno. Il modo in cui un verbo può essere usato per formare una frase può dirci molto sul significato recondito di una parola, cose che un semplice vocabolario non potrebbe dirci e che sfuggono anche all'etimologia. "Scopare" è transitivo, dicevamo, ma i verbi possono essere raggruppati in modi molto più sottili. Per esempio, ci sono tipi di verbo che accettano la doppia costruzione "ho spruzzato la vernice sul muro" e "ho spruzzato il muro di vernice", ma "scopare" non appartiene evidentemente a questo gruppo: "ho scopato Scarlett sul divano", ma non "ho scopato il divano di Scarlett" (oddio, l'ultima frase potrebbe anche essere grammaticale, ma ha un significato completamente diverso, e pure abbastanza orrendo). Ci sono verbi che accettano la doppia costruzione "ho morso il braccio di Scarlett" e "ho morso Scarlett sul braccio" e stavolta il verbo "scopare" potrebbe rientrare fra questi, ad esempio… no, l'esempio forse è meglio non farlo. Il libro di Pinker è praticamente tutto centrato su quello che la lingua – la grammatica – rivela riguardo ai nostri schemi concettuali, talvolta anche innati (seguendo una vecchia tradizione della filosofia analitica, del resto).

Si può anche notare che è più facile usare questi verbi quando il soggetto è maschile (come genere sessuale, non grammaticale) e l'oggetto femminile: Bob scopa Alice ma sebbene al giorno d'oggi possa anche capitare che Alice scopi Bob, e più facile che ci faccia l'amore. La prova del nove consiste nel fatto che un soggetto maschile può anche scopare un oggetto neutro: ovvero (e scusate), Bob può scopare una zucca, o una capra, ma è difficile che Alice scopi un cetriolo o un cavallo (semmai potrebbe farsi scopare dal cetriolo o dal cavallo). Insomma, per farla breve "scopare" appartiene a una classe di verbi in un cui un soggetto attivo fa un qualcosa a oggetto passivo, con o senza la sua collaborazione, alterandone la condizione originaria, spesso in peggio. Ovvero è affine a verbi come "rompere" (in inglese del resto "to bang" è uno dei sinonimi, mentre anche noi di una cosa rotta diciamo che è "fottuta"), "battere", "picchiare", "rovinare", eccetera. Per essere ancora più chiari, tocca dare ragione a certe femministe: "scopare" e "stuprare" sono pericolosamente vicini quanto a significato, e per questo probabilmente si tratta di una parola molto più sgradevole di "fare l'amore". È comunque possibile scopare insieme a qualcuno, che è certo una cosa più gentile: pregherei di notare la differenza di sfumature esistente fra "ma insomma, come va con Chiara, alla fine ci hai scopato?" e "ma insomma, come è andata con quella? te la sei scopata o no?".

Mi rimane un piccolo dubbio. Steven Pinker argomenta che in espressioni come "fuck off", "fuck yourself" eccetera, il paradosso di stare invitando qualcuno di odiato a sollazzarsi piacevolmente in ultima analisi è risolto dal fatto che in quel caso la parola "fuck" non è affatto un riferimento all'attività sessuale, ma in effetti non significa niente ed è lì solo come riempitivo, come una sorta di interiezione che può essere infilata dappertutto: "questo fottuto esame del cazzo" (cosa c'entra il cazzo? niente, evidentemente). Forse anche allo scopo di rimpiazzare altre parole in origine considerate anche più offensive (come quando diciamo "maremma maiala"). "Go fuck yourself" insomma non è invito alla masturbazione (come dice l'Urban Dictionary), ma è un eufemismo per "go to hell" o "damn yourself". Il dubbio è che, come dicevo, sto cercando di localizzare, però non saprei proprio se il nostro "vaffanculo" è davvero riferibile a un'attività che richiede l'uso del posteriore, oppure si tratta anche in questo caso di un modo eufemistico per dire altro. Quello che ho scoperto (tralasciando etimologie fasulle come quella secondo cui la "vaffa" era un palo) è che, nonostante l'ubiquità nel nostro parlato di tale espressione, potrebbe essere molto più recente di quanto pensassi. Lo Zingarelli ne indica l'origine addirittura nel 1953. Chissà, potrebbe anche essere nata sotto l'influenza dell'inglese. Lascio ai lettori ulteriori ricerche, sperando che siano così gentili da comunicarmene i risultati.

lunedì 30 aprile 2012

dov'ero


Volevo solo rassicurare i miei milioni di fan e dire che non sono morto. Se da un paio di mesi almeno non scrivo più una riga sul blog è semplicemente perché ho da fare, con il che intendo dire che ho da lavorare. Capirai che novità, direte. No, non è che prima fossi nullafacente e mi occupavo solo di scrivere scemenze su un blog, è solo che questo che sto facendo comincia ad assomigliare ad un lavoro vero, sebbene ancora precario, e con lavoro vero intendo dire che mi alzo alle sette di mattina.

Quello che è successo è che mi hanno affidato una supplenza, e quindi insegno scienze umane in un liceo. Non me lo aspettavo, nel senso che l'abilitazione per insegnare l'ho presa diversi anni fa e oramai mi ero rassegnato ad essere solo un numerino in graduatoria (cosa che molto probabilmente tornerò ad essere dopo giugno). Quindi mi sono ritrovato, da un giorno a un altro, davanti a delle classi piene di ragazzini (ragazze, perlopiù, ma la lingua italiana vuole che in questi casi si usi il maschile) pendenti dalle mie labbra e ai quali avrei dovuto insegnare.

Cioè, dovete capire che è traumatico: una cosa è pontificare su un blog, magari giocando ad avere l'opinione controcorrente, e assolutamente privi di una qualsiasi responsabilità morale o deontologica. Una cosa è comunicare il proprio "sapere" a delle persone vive in carne e ossa, e pure  minorenni. Tutti i giorni, poi, nemmeno la facoltà di prendersi una pausa per documentarsi meglio su ciò che si dovrebbe insegnare (e che non è affatto detto che si sappia). Il che comporta poi che il lavoro in classe me lo porti anche a casa (senza che abbia smesso di fare il lavoro che già facevo, ma lasciamo perdere). E che prepari i compiti, e le verifiche.

Ecco, le verifiche significa le interrogazioni, ovvero io devo fare domande a degli estranei e poi dargli un voto, alto o basso a seconda se le risposte mi hanno soddisfatto oppure no. Mi sento a disagio, ho già fatto piangere delle persone. E poi sono in qualche modo artefice del loro destino, potrebbe dipendere da una mia decisione il mandarle avanti a studiare le cose che studiano oppure indirizzarle da tutta un'altra parte, e questo, voi capite, è terrorizzante.

Insomma, non sono sicuro di avere la stoffa giusta, anche se naturalmente ce la sto mettendo tutta, e già ho il sospetto di essere troppo buono e malleabile, però volevo anche dire che mi sto divertendo. Io capisco che probabilmente è uno dei mestieri più frustranti del mondo, specialmente per chi lo fa da anni e magari è stato risucchiato dalla routine. Quello che si sente dire in giro è terribile, insegnanti scoraggiati, avviliti dalla mancanza di senso della burocrazia e delle circolari ministeriali, avviliti anche da una Stato che sembra dare una sempre minore importanza all'istruzione e alla cultura, e quindi al loro ruolo sociale (con qualche triviale ricaduta anche in busta paga). Capisco che dopo un po' è difficile continuare a resistere, a lottare, e ci si arrende, e allora si va in classe un po' come si andrebbe in catena di montaggio, solo che il tuo lavoro non consiste nel tuo relazionarti con un macchinario, ma con delle persone che hanno delle esigenze, delle richieste (spesso inespresse), e allora diventa davvero brutto perdere la voglia di ascoltarle, di venire incontro alle loro richieste.

Ecco, mi sembra ancora presto per tirare delle somme dalla mia esperienza, e non è che voglia fare del mio blog l'ennesimo blog sulla scuola e sull'insegnamento (se dovessi, potrei intitolarlo "il prof col tatuaggio", visto che è una delle cose che sembrano aver colpito maggiormente i ragazzi, e in effetti c'è qualcosa di lievemente perturbante nell'avere un ruolo di potere, pagato dallo Stato, esibendo una A anarchica sull'avambraccio). Ce ne sono di ottimi, un paio dei quali segnalati sul mio blogroll. Tutto quello che posso dire, in tutta semplicità, è che mi diverto. Perché quando hai spiegato una cosa per un'ora, a volte anche due, e quella cosa non è neppure semplice, e allora ti sei dannato per riuscire a fare in modo che ti seguano, spesso facendo anche errori ma provandoci di continuo, e perché trovino persino interessante quel che dici, e quando insomma hai la vaga sensazione di esserci riuscito (la certezza mai), allora sei abbastanza contento.

lunedì 5 marzo 2012

il teorema Cencelli



Vi prego di guardare questo video (che non riesco a embeddare sennò l'avrei embeddato).

Io non ho la minima idea del perché, il giorno 27 febbraio del 2012, al Tg2 abbiano deciso di dedicare un approfondimento di 3 minuti e mezzo al famoso manuale Cencelli. Una nostalgia per la Democrazia Cristiana e i meccanismi della prima Repubblica (che in effetti sono gli stessi della seconda)? Semplicemente un modo come un altro per non parlare dell'attualità? boh. Certo, come mi è stato fatto notare, colpiscono anche quelle sequenze montate alla fine con le interviste ai parlamentari in stile Iene, salvo che gli onorevoli rispondono tutti bene e ci fanno una gran bella figura, cose che danno un significato concreto a espressioni abbastanze logore quali "telegiornale di regime".

Sia come sia, l'argomento ha il suo interesse, e al di là dello stupore in realtà mi sarebbe piaciuto vederlo ancora maggiormente approfondito, in modo che si svelasse del tutto l'esatta formula che stava alla base della ripartizione delle cariche fra i vari partiti. Sembra infatti che, nonostante si parli sempre di "manuale Cencelli", un vero e proprio manuale, nel senso di testo stampato e in circolazione, non sia mai esistito.

In realtà, dalle scarne notizie che trovo in rete, ho l'impressione che non si tratti neanche di una vera e propria formula, ma piuttosto di una euristica dove quel che conta non è tanto il metodo preciso di spartizione, improntato a una fumosamente definità "equità", ma il punteggio assegnato a ciascuno carica (quanti sottosegretari all'Ambiente vale un Ministro dell'Interno?). E i cui criteri erano e sono ancora oggi continuamente aggiornati, ad esempio tenendo conto anche della rappresentanza geografica oltre che di quella partitica. E quando ci sono troppe variabili temo anche che un algoritmo esatto diventi pressoché impossibile, un po' come il problema di compilare un orario scolastico che tenga conto delle esigenze di tutti i professori (problema che come alcuni sapranno appartiene a NP, che fondamentalmente vuol dire che una soluzione ottimale esisterebbe ma non vale la pena cercarla perché anche il computer più veloce del mondo ci impiegherebbe troppo ed è meglio adattarsi all'imperfezione).

Dal punto di vista intellettuale, logico-matematico, però, è proprio l'algoritmo preciso, ovvero il modo in cui definiamo l'equità che è più interessante. Nel video si ha l'impressione che Cencelli adotti una formula in fondo molto semplice, dove la percentuale di poltrone (fatti salvi i diversi punteggi assegnati alle diverse poltrone) deve più o meno rispecchiare la percentuale dei voti presi dal partito o dalla corrente della coalizione (ovvero se la Lega ha preso il 30% dei voti della coalizione e il PdL ha preso il 70%, allora bisogna dare il 30% delle poltrone alla Lega e il 70% al PdL). Ma si tratta solo di un posssibile criterio, e non è affatto detto che sia davvero il migliore (il fatto poi che Cencelli alluda alle regole per comporre i consigli di amministrazione delle aziende mi fa credere che pure lui in realtà abbia in mente qualcosa di simile a quello di cui parlerò in seguito).

Si tratta di una classe di problemi che appartengono alla teoria dei giochi, e più precisamente ai "giochi cooperativi". Formulato generalmente il problema è: in che modo misurare il contributo che ciascun giocatore fornisce alla squadra di cui fa parte, e quindi individuare un criterio sensato di spartizione del bottino? Facciamo un esempio semplicissimo: Alice suona il piano e Bob la tromba. Alice col suo mestiere di pianista guadagna 2000 euro al mese. Bob col suo mestiere di trombettiere ne guadagna solo 1000. Ma viene proposto a entrambi di formare un duetto, e siccome la sinergia fra loro funziona egregiamente il loro stipendio come coppia arriva a 5000 euro. Come spartirsi i 5000 euro? Apparentemente il criterio più equo sembrerebbe quello di dividerseli a metà, ma in questo modo il talento superiore di Alice come pianista non verrebbe rispecchiato. Un altro criterio, probabilmente migliore, può essere quello di spartirsi equamente solo il surplus generato dalla coalizione. Ovvero, dato che insieme Alice e Bob guadagnano 2000 euro di più della somma dei loro stipendi da solisti, Alice dovrebbe prendere 2000 + 1000 = 3000 euro, e Bob 1000 + 1000 = 2000 euro. Comunque una qualsiasi spartizione in cui nessuno dei due guadagna meno di quanto guadagnerebbe senza l'altro potrebbe essere considerata razionalmente accettabile e conveniente per entrambi, anche se non del tutto "equa". Persino quella dove Alice suona il piano per 2001 euro e Bob la tromba per 2999 euro.

La faccenda si fa più complicata, e assomiglia maggiormente alla dinamica dei gruppi parlamentari, quando gli attori in gioco sono più di due e quando è possibile formare più coalizioni alternative che ambiscono al medesimo premio, dove allora vediamo che non è più solo una questione di equità ma soprattutto di equilibrio, ovvero del potere di contrattazione che i singoli membri della coalizione hanno, potendo minacciare di formare altre coalizioni.

Esempio: ipotizziamo un Parlamento fittizio, con 100 parlamentari divisi in 4 partiti di diversa entità numerica, e ipotizziamo che esista un numero fisso di 20 poltrone (ministeri e sottosegretariati) da spartirsi fra tutti i partiti della maggioranza. È subito chiaro che se esistesse un partito che da solo contasse 51 parlamentari questo partito non avrebbe bisogno di allearsi con nessuno per governare e potrebbe accaparrarsi tutte le cariche da solo (in questa simulazione facciamo finta che ogni parlamentare rimanga sempre fedele al suo partito, quindi che non esistano gli Scilipoti).

Ma se il partito di maggioranza relativa non ha la maggioranza assoluta è allora costretto ad allearsi con qualcun altro, e in questo caso il premio dato a ciascun alleato non può dipendere solo dal suo peso numerico, ma da quanto è importante per la vittoria della coalizione. Ora, se c'è un partito facente parte della coalizione i cui parlamentari però non sono fondamentali per ottenere la fiducia in Parlamento, allora  in prima istanza potremmo aspettarci che quel partito non ottenga nemmeno una poltroncina. Ma riflettendoci meglio ci accorgiamo che non è esattamente così. C'è sempre il rischio, infatti, che quel partito e un altro della stessa coalizione si accordino per formare un'altra maggioranza includendo partiti che prima erano fuori dalla coalizione ed escludendone gli altri. Cosa che infatti è successa nella presente legislatura, con i finiani che esclusi dalla vecchia maggioranza in quanto non necessari al raggiungimento della fiducia, adesso sostengono Monti insieme al Pdl e al Pd (che prima era all'opposizione) escludendo la Lega. Quel che conta quindi non è solo quanto un partito è determinante per l'attuale maggioranza, ma quanto potrebbe esserlo in tutte le possibili combinazioni di accordi. Quando invece un partito non solo non è determinante, ma neanche potrebbe esserlo in una qualsiasi coalizione, possiamo stare praticamente certi che non otterrà nulla.

Insomma, c'è una formula matematica precisa per stabilire, dato v(S) il valore totale di qualsiasi cosa da distribuire ai membri di una squadra S (potrebbe essere appunto il numero di poltrone – incarichi di governo), quanta parte di v(S) va data a ciascun membro i della coalizione, in funzione di quanto contribuisce al successo della coalizione. L'ha inventata un Cencelli d'oltreoceano, tale Lloyd Shapley, nel 1953. Tale valore (la quota da assegnare a ciascun giocatore o partito della coalizione) è detto appunto "valore di Shapley", ed è uno dei più importanti risultati della teoria dei giochi.

La formula ha un aspetto non troppo rassicurante (questa è una delle sue possibili rappresentazioni):


ma è spiegabile, tenendo a mente quel che abbiamo detto finora. La parte finale della formula, quella che segue la frazione, è quella più interessante e rappresenta appunto il contributo dato dal partito i alla coalizione S. Ovvero la differenza fra il premio v(S) dato alla coalizione con i, e il premio dato alla stessa coalizione ma senza i.  Nel nostro esempio questa differenza può avere solo i valori 0 e 20 (che ricordiamo essere il numero delle poltrone). Insomma il contributo dato da i può essere solo quello di permettere o non permettere di avere una maggioranza parlamentare.

La parte con la frazione invece rappresenta la probabilità che il partito i riesca ad essere effettivamente determinante nel formare una maggioranza aggiungendosi alla coalizione S, cosa che dipende anche dal tempismo con il quale decide di aggiungersi alla coalizione.  Spiego: assumendo che il valore dell'ultima parte della formula non sia pari a zero – nel qual caso il momento in cui i decide di aggiungersi alla coalizione non conta – e dato N il numero dei partiti, il denominatore N! (ovvero tutte le permutazioni dell'insieme di N partiti), rappresenta tutti i modi possibili di formare una grande coalizione (la coalizione formata da tutti i partiti) mentre il numeratore rappresenta il sottoinsieme, fra tutte queste possibilità, in cui il partito i si aggiunge ad S in tempo per essere determinante (ovvero prima che una maggioranza si sia già formata). Tutto questo infine, va ripetuto per ogni possibile coalizione S sommando i vari risultati (e questo spiega il simbolo della sommatoria presente prima della frazione).

Come si vede, quindi, il peso elettorale del singolo partito non conta quanto si potrebbe pensare, perché un partito potrebbe essere determinante, e quindi meritare una larga percentuale di poltrone, anche con pochissimi parlamentari, anche se naturalmente più sono i parlamentari, più sono le possibili coalizioni in cui il contributo del partito è utile a formare una maggioranza.

Supponiamo quindi che alle prossime elezioni si presentino questi 4 partiti e che conquistino i seguenti seggi (il totale è sempre 100):

Partito Democratico: 35
Popolo delle Libertà: 30
Lega: 21
Movimento 5 stelle: 14

Le possibili coalizioni, escludendo l'insieme vuoto, sono le seguenti, e accanto a esse ci metto il loro valore in poltrone (0 o 20):

(Pd = 0) (Pdl = 0) (Lega = 0) (M5S = 0) (Pd + Pdl = 20) (Pd + Lega = 20) (Pd + M5S = 0) (Pdl + Lega = 20) (Pdl + M5S = 0) (Lega + M5S = 0) (Pd +Pdl + Lega = 20) (Pd + Pdl + M5S = 20) (Pd + Lega + M5S = 20) (Pdl + Lega + M5S = 20) (Pd + Pdl + Lega + M5S = 20)

Ora possiamo calcolare il valore di Shapley per ognuno dei 4 partiti, che di è 0 per il Movimento 5 Stelle, e di 6,6 periodico per tutti gli altri. È chiaro infatti che il Movimento 5 Stelle non potrà mai essere determinante in nessuna possibile coalizione (non esiste una coalizione che riesce a vincere grazie al suo contributo) e questo lo penalizza. Per ognuno degli altri 3 partiti, invece, possiamo vedere che contribuiscono al successo della coalizione in almeno 4 casi (fra tutte le coalizioni in cui compaiono). In 2 di questi casi si tratta di coalizioni con 2 partiti, e in altri due casi di coalizioni con tre partiti. Questo ci dà la formula:

(((4-2)! (2-1)! )/ 4!) * (20* 2)) +  (((4-3)! (3-1)! )/ 4!) * (20* 2)) = 20/3 = 6,6 periodico

Questo ci dice che nonostante il diverso peso elettorale i tre partiti maggiori hanno tutti la stessa importanza e hanno diritto alla stessa quota di spartizione, qualora decidessero di formare una grande coalizione. Possiamo divertirci a cambiare i numeri e vedere cosa succederebbe nel caso in cui:

Partito Democratico: 40
Popolo delle Libertà: 30
Lega: 20
Movimento 5 stelle: 10

In questo caso il Pd avrebbe 8,3 periodico poltrone, il Pdl e la Lega 5 poltrone a testa, e il M5S 1,6 periodico poltrone.

Il problema di questo approcio, però, è che il valore di Shapley calcola solo le spartizioni fra i partiti che decidono di aderire a una grande coalizione, cosa che in certi contesti ha senso, ma che in politica nella pratica avviene raramente. Nella formula si assume anche che tutti i modi di formare grandi coalizioni (le permutazioni dell'insieme dei partiti) siano a priori equiprobabili, e che aderire alla grande coalizione sia sempre nell'interesse di tutti (o almeno non a detrimento), ma anche questo nella pratica non è plausibile, in quanto le avversità ideologiche possono rendere più difficile un'alleanza rispetto a un'altra (oppure essere impopolare per l'elettorato).

Nella realtà ad esempio è più probabile che la Lega e il Pdl (tornando alla prima ipotesi di voto) formino un'alleanza che esclude il Pd. In questo caso come si spartirebbero il bottino? Beh, ritengo (ma posso sbagliare) che farebbero come Bob e Alice, ovvero si spartirebbero equamente il surplus generato dal loro accordo (la quota di 6,6 periodico poltrone che spetterebbero al Pd) e quindi finirebbero con l'avere 10 poltrone a testa. Nella seconda ipotesi di voto, e seguendo questo criterio, se il Pdl, la Lega e il M5S si alleassero insieme per escludere il Pd finirebbero con l'avere: il Pdl e la Lega 7,7 periodico poltrone ciascuno, e il M5S 4,4 periodico poltrone.

E niente, se siete arrivati in fondo a questo post, originato e stimolato da un servizio del Tg2 su Cencelli, non so se avrete imparato qualcosa ma di certo avrete avuto una testimonianza di un certo mio autismo nel modo di pensare alle cose. Non badateci troppo, non sono pericoloso, non molto.

sabato 7 gennaio 2012

sassolini



Non sarebbe mia intenzione trasformare questo mio spazio, che raccoglie in post sparsi il suono dei miei sospiri mortali, in un blog monotematico dedicato all'economia, però viste alcune reazioni suscitate dal mio ultimo post penso sia il caso di aggiungere qualche cosina. Nel caso che qualche lettore sia stupito da questo mio attacco di urielismo preciso che oltre che nei commenti in calce al blog spesso discuto anche in un social network di nicchia frequentato da molti turchi e alcuni blogger italiani, e che lì in genere le discussioni sono più animate e vivaci che sul blog (un po' per la maggiore familiarità, un po' per la natura più vicina alla chat del social network in questione).

Allora, dicevo che di là, dove di certo non ho mai nascosto le mie inclinazioni liberiste e libertarie, in molti sembrano aver visto un'occasione per attaccare frontalmente queste mie idee, trascurando purtroppo di criticare il contenuto del post vero e proprio, dove non si fanno certo affermazioni radicali ed esplosive ma si  scopre solamente l'acqua calda, anzi tiepidina, ovvero che le tasse hanno un effetto distorsivo sull'economia e sono inefficienti. E mi pareva anche di aver concesso molto ammettendo che le tasse siano giustificate e persino necessarie, finché non le si voglia trasformare in un discutibile strumento di giustizia sociale, anziché di mero finanziamento per lo spese dello Stato.

Un punto debole nel mio discorso c'era, e consiste nell'aver effettivamente adottato un sistema di valori dove l'efficienza economica aveva un posto di prestigio ignorando la possibilità che potesse confliggere con altri valori, come quello dell'equità. Ovvero io consideravo che una maggiore equità al prezzo di una minore efficienza (quindi una più equa spartizione di una torta più piccola per tutti) non valesse la pena di essere perseguita, mentre mi rendo conto che per altri l'equità potrebbe essere un valore così importante da rendere insignificante il prezzo da pagare in termini di efficienza (buffo però che nel pesare i valori in gioco ricorra ad un lessico che richiama, ancora una volta, quello dell'efficienza economica). Anche se altri valori in realtà li avevo ponderati, come quello della solidarietà per i più deboli e sfortunati (che non è proprio la stessa cosa dell'equità). Questo punto debole comunque è stato notato da pochissimi, mentre i più si sono dedicati alla ripetizione di una serie di slogan e argomenti totalmente fuori bersaglio, che ora per mio divertimento andrò a criticare.

Mi è stato detto per lo più di essere un teorico della "mano invisibile" accecato dall'ideologia, e di credere appunto nell'efficienza dei mercati che invece sono "notoriamente" inefficienti, come è dimostrato da quei casi in cui si è costretti ad intervenire con la tassazione per scoraggiare esiti che, se vigesse il totale laissez-faire, sarebbero funesti. L'inquinamento potrebbe essere l'esempio paradigmatico. Le fabbriche inquinano e danneggiano l'atmosfera, ma nessuna di esse ha un incentivo abbastanza forte a smettere di inquinare, almeno finché gli altri continuano a farlo, ed ecco quindi che un intervento dello Stato sottoforma di sanzioni anche come risarcimento alla comunità può essere considerato provvidenziale.

È il tema delle "esternalità". Capita che una nostra azione oltre a darci un beneficio abbia anche una ricaduta negativa sulla collettività,  e sono quelle occasioni in cui la collettività può essere giustificata a tassarci (può capitare anche l'inverso, ovvero che una nostra azione abbia un beneficio collettivo tale da rendere conveniente l'incentivarla tramite sussidi). Quello che stupisce però è che il tema dell'esternalità venga usato in funzione antimercato, quando al contrario ne dimostra in maniera definitiva la maggiore efficacia rispetto alle alternative. Ovvero, le esternalità sono quello che succede laddove non esiste un mercato, perché di certe tipologie di bene non si riesce a stabilire la proprietà, e quindi il prezzo.

Come l'aria, appunto. Se noi, in quanto soggetti privati, fossimo proprietari dell'aria che respiriamo potremmo costringere chi la vuole usare a pagare il prezzo che riteniamo più adeguato, e far pagare un prezzo ancora più alto a chi ne rovina la qualità. Non succede ad esempio che chi abita un appartamento sia libero di danneggiare il locale quanto vuole, magari danneggiare anche le proprietà vicine, e poi non debba affrontare le conseguenze dei suoi comportamenti. Non siamo nemmeno liberi di andare in macchina, tamponare le altre vetture, e poi fuggire indisturbati. In effetti quando il governo costringe le fabbriche che inquinano a pagare una tassa non fa che ripristinare una certa logica di mercato laddove prima era assente: essendo l'aria della collettività intera, è la collettività che impone un pagamento per chi danneggia la proprietà comune. 

Viceversa collettivizzare quello che non ha nessun bisogno di essere collettivizzato in quanto ha già delle regole chiare concernenti la proprietà e il suo prezzo determinato dal mercato sarebbe la premessa per una tragedia appunto collettiva. Perché il fatto di essere molto più attaccati alle nostre proprietà che al bene comune non è solo una mancanza di educazione civica, è perfettamente razionale ragionando in termini di puro calcolo degli interessi. Se io ho un oggetto che vale 1000 euro e lo distruggo ho perso 1000 euro. Ma se distruggo una proprietà comune che vale 1000 euro ho perso una frazione infinitesimale di 1000 euro, un sessantamilionesimo circa. Direi un buon affare, per me.

Insomma, dato che i teorici del libero mercato sostengono che tutto deve andare nel migliore dei modi – in un regime di mercato libero – non si capisce che razza di critica sia la constatazione che laddove non esiste il mercato libero o esso sia disturbato dall'interferenza statale le cose invece non vadano così bene. Ma a questo punto i miei critici fanno di solito notare che appunto, non esiste un mercato perfetto, e che questo da solo è sufficiente a invalidare gli assunti del liberismo. Le ricette del liberismo si fondano su premesse inesistenti, e devono quindi essere rimpiazzate da assunti meno fantasiosi e utopici, come, che so, la generosità del cuore umano o la saggezza dei rappresentanti delle istituzioni.

Bizzarro punto di vista, anche questo. Perché lo so pure io che il mercato perfetto non c'è, ma allora non si capisce come possa qualcosa di inesistente fare tutti i danni che i critici del mercato gli attribuiscono. Seriamente, o la colpa delle cose che vanno male è del mercato, che però non esiste, oppure occorre trovare qualche altro capro espiatorio. Il vantaggio di prendersela con le ingerenze della politica è che almeno si tratta di una cosa esistente. Immaginate che qualcuno dica che è necessaria una maggiore onestà da parte dei contribuenti, perché se non ci fosse l'evasione fiscale e tutti pagassero le tasse avremmo risolto il problema del debito pubblico. Ma tutti sappiamo che questa premessa è irreale: non succederà mai che tutti facciano la loro parte, ci sarà sempre qualcuno che vorrà fare il furbo e la farà franca. Ma allora questo dovrebbe essere un argomento contro l'onestà? Avrebbe un qualche senso dire che il debito pubblico italiano è colpa dell'onestà?

Approfondiamo ulteriormente il tema: una delle cose che vengono imputate al libero mercato è che esso tende ad autodistruggersi in quanto tende a creare monopoli o cartelli, il che distruggerebbe l'assunto della concorrenza su cui l'efficienza del mercato si regge. Si ritiene cioè che quando esistono molte imprese concorrenti queste tendano a mettersi d'accordo per imporre ai consumatori un prezzo superiore a quello del mercato che sarebbe naturalmente imposto dalla concorrenza. E non c'è dubbio che questo sarebbe effettivamente nel loro interesse, se solo esistesse un modo di far rispettare i patti, e tutti potessero essere sicuri di non essere danneggiati dal furbetto di turno. Ma l'unico modo per garantire il rispetto dei patti (specialmente quando le imprese sono molte) è tramite l'intervento statale. Ad esempio tramite la creazione di un ordine professionale, e la messa fuorilegge di chi non rispetta le regole dell'ordine. Insomma l'unico modo sarebbe fuoriuscire appunto da una situazione di libero mercato.

Allora vediamo, secondo gli oppositori del libero mercato noi dovremmo appoggiare l'intervento statale e per esempio imporre gli ordini professionali che danneggiano i consumatori, perché in assenza di esso le imprese si metterebbero d'accordo per fuoriuscire dal libero mercato e riuscirebbero a far imporre gli ordini professionali a danno dei consumatori. Mi pare che messo così la debolezza dell'argomento emerga meglio.

Chiedo scusa per il bignamino di economia, però le feste di Natale mi rendono nervoso e polemico. Inoltre le trovo terribilmente inefficienti.