mercoledì 31 dicembre 2014

liberismo e decrescita


Il mio modello economico è in fondo molto semplice: ognuno dovrebbe essere libero di scambiare ciò che vuole con chi vuole e cercare di procurarsi le cose che desidera e che lo rendono felice, possibilmente senza ledere gli eguali diritti altrui.

Non sono sicuro che “capitalismo” sia il termine più giusto per indicare un tale modello di società libertaria, ma è probabile che in fondo ne sia a un tempo la causa e l’effetto, dato che da un lato dalla libertà economica consegue la libertà di accumulare patrimoni e mezzi di produzione, e quella di acquistare e vendere lavoro umano tramite quei patrimoni; dall’altro lato il capitalismo sembra, pure se in modo non altrettanto perfetto, il modello più adeguato proprio a conservare e difendere quelle libertà, economiche e se è per questo non solo (non c’è davvero differenza fra il “liberismo”, odioso neologismo tutto italiano, e il liberalismo).

Certo, qualcuno potrebbe invece difendere il capitalismo per altre ragioni, ad esempio come modello virtuoso di darwinismo sociale e sopravvivenza del più forte, oppure come esemplificazione dell’etica protestante, o anche in maniera utilitaria come mezzo per garantire la più alta crescita economica e il maggiore aumento del PIL della nazione. A questo punto, in effetti, e anche ammesso che il capitalismo sia davvero la strategia più efficace per far crescere un indicatore come il prodotto interno lordo, uno si potrebbe chiedere perché dovrebbe essere un fine prioritario, o anche semplicemente un fine fra tanti, far crescere il PIL, far crescere l’economia di un paese.

Devo ringraziare Luca Simonetti che col suo recente libro, Contro la decrescita. Perché rallentare non è la soluzione, mi fornisce lo spunto  per parlare di alcuni aspetti del modello economico del mondo contemporaneo che a quanto pare vengono severamente criticati dai cosiddetti “decrescisti” o fautori della "decrescita felice". Esiste una corrente di pensiero, della quale nel libro di Simonetti vengono esposte le motivazioni esplicite e le radici nascoste, insieme alle sue fallacie, che vede nel “dogma della crescita economica”, o detto in maniera più terra terra e comprensibile agli umani, nel consumismo sfrenato e nella volontà di accumulo tipica dell’uomo bianco ecc. ecc., l’origine di tutti i mali della nostra civiltà (edit: mi si fa giustamente notare che consumismo e volontà di accumulo siano in realtà termini in opposizione, ma in fondo va bene, dato che non considero coerente il discorso dei decrescisti).

Quello che i decrescisti propongono è di ritornare al modello primitivo dell’autoconsumo, dove ognuno produce per sé solo quello che gli è strettamente necessario per la sopravvivenza mentre tutto il resto sarebbe amorevolmente scambiato ma non in vista di un guadagno economico, non come “merce” ma sotto forma di “dono” fatto e ricevuto per puro amore e amicizia. Qualcosa del genere, i decrescisti sono molti e possono dire cose abbastanza diverse fra loro, anche se è comune una certa vaghezza e fumosità dei loro programmi. Il nucleo fondamentale sembrerebbe essere l’odio per il denaro, per la misura del benessere espressa in termini volgarmente monetari, e quindi l’identificazione della ricchezza con l’accumulo di beni materiali.

Come si può intuire, non esiste alcun motivo per cui io o qualsiasi persona di animo liberale dovrebbe opporsi a un simile programma di esistenza. Vuoi lasciare il tuo impiego di agente di borsa per andare a coltivare le vigne della tua tenuta ritenendo che sarai più felice? benissimo, è tuo diritto. Sarei più preoccupato se tu volessi impedire a me di fare quello che voglio, come sospetto che in effetti vorresti fare, ma a dire il vero i decrescisti si pongono solitamente in maniera più umile, non amano la politica e quindi non possono ambire a chissà quali azioni di massa o tentare di realizzare un movimento organizzato. Il loro scopo immediato è più quello di fare “massa critica” ritenendo che più persone si avvicinano al loro modello di esistenza mettendosi a fare i coltivatori diretti o – perché no – i cacciatori-raccoglitori, più si avvicina il momento in cui il capitalismo crollerà su se stesso, e proprio in virtù delle scelte compiute dagli eroici decrescisti.

Si potrebbero definire insomma delle persone piuttosto innocue, dato che le loro illusioni al riguardo sono naturalmente ridicole, ma è pur vero che alcune delle loro idee rappresentano luoghi comuni sul capitalismo, il consumismo, la mercificazione, e il neo-turbo-iper-fantasti-liberismo abbastanza perniciosi e dei quali probabilmente sarebbe meglio tentare di liberarsi. Una di questi è appunto il presunto dogma della crescita infinita. Come sostiene Simonetti i decrescisti vedono l’economia come un qualcosa di inarrestabile, un meccanismo che non può essere fermato o frenato se non in modo catastrofico, cioè quando finalmente si scontra coi suoi limiti. A questo proposito si possono ricordare in effetti le dichiarazioni soddisfatte dei politici quando il PIL cresce di qualche punto percentuale, e chiedersi in maniera legittima “ma perché è così necessario che il PIL cresca indefinitamente?”. Normalmente i decrescisti aggiungono anche un altro luogo comune, quello secondo il quale disastri naturali come un terremoto o un’inondazione avrebbero paradossalmente un effetto positivo sull’economia, dato che le spese per la ricostruzione entrano nel conteggio del PIL, il che renderebbe evidente l’assurdità di considerare il PIL come misura di progresso e benessere.

In realtà, spiega bene Simonetti, la scienza economica è esattamente il contrario di quello che sostengono i decrescisti, ovvero non dottrina fondata sulla dismisura, sulla mancanza di limiti, ma – secondo la classica definizione di Lionel Robbins – proprio scienza della scelta razionale da compiere in presenza di mezzi scarsi e applicabili a usi alternativi. Ma soprattutto ci viene spiegato che in realtà non c’è nulla da obiettare alle critiche dei decrescisti riguardo la crescita economica perché è tutto vero: in una economia di stampo liberista, al contrario di quello che potrebbe invece accadere in una economia pianificata di tipo sovietico, la crescita del PIL non dovrebbe essere l’obiettivo di nessuno. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere, cosa che naturalmente i decrescisti si guardano dal fare, perché il PIL tendenzialmente cresca come conseguenza degli sforzi dei singoli di conseguire i propri obiettivi personali e indipendenti dagli indicatori economici.

Il PIL, che – ricordiamo – è la somma del valore di tutti i beni e i servizi prodotti in un paese entro un determinato periodo, aumenta perché tendenzialmente la gente si sforza di stare meglio e aumentare il proprio reddito e conseguentemente, senza per questo voler fare un dispetto ai decrescisti, si scambia beni e servizi. E in realtà il PIL, se si bada a non idolatrarlo e scambiarlo per un fine intrinseco è un buon indicatore dell’aumento del benessere: la gente non starebbe a scambiarsi tanti beni e servizi se non fosse per conseguire qualche scopo e non avesse qualche ragionevole aspettativa di farcela. Potrebbe pure valere la pena qui, anche se il tema non è direttamente collegato, di ridimensionare una delle leggende urbane più famose riguardanti il PIL: quella, come si diceva, per la quale un disastro naturale come un terremoto o perché no una guerra potrebbe avere l’effetto di aumentare il PIL (nonostante nessuno si sognerebbe certo di dire che sia aumentato il benessere).

Effettivamente la spesa per la ricostruzione rientrerebbe nel calcolo del PIL e quindi potrebbe anche determinare un provvisorio aumento dello stesso, ma si tratterebbe in realtà di un effetto di breve durata, cosa della quale possiamo gioire perché altrimenti ai nostri politici potrebbe venire l’idea di provocare artificialmente qualche disastro allo scopo appunto di migliorare gli indicatori economici. La credenza nell’effetto positivo per l’economia di un disastro è un esempio di quella che è nota come broken window fallacy (da una parabola dell’economista francese dell’Ottocento Bastiat): mandare monelli a lanciare sassi contro le vetrine dei negozi è certamente vantaggioso per il vetraio che si vede aumentare il lavoro e il reddito, e aumenta il flusso di denaro in circolazione. Questo però, diceva Bastiat, è solo l’effetto più superficiale, quello che possiamo vedere. Quello più nascosto, che non vediamo ma possiamo intuire se ci ragioniamo sopra, è la perdita in termini di opportunità, di usi alternativi del denaro speso in vetrine riparate. Il negoziante danneggiato si vede costretto in realtà a rinunciare ad altri acquisti e investimenti, che avrebbe fatto più volentieri, in conseguenza della spesa imprevista, o potrebbe addirittura essere costretto a contrarre un debito, in modo che alla lunga l’effetto sull’economia è nella migliore delle ipotesi neutro, molto più probabilmente negativo.

Tornando ai decrescisti, dunque, vediamo che essi imputano alla teoria economica neoliberista una caratteristica che in realtà è assolutamente estranea proprio al liberismo, ovvero la tendenza a voler “dirigere” l’economia, a intervenire nel settore macroeconomico e nelle scelte pubbliche in modo da manipolare gli indicatori. Quello che forse Simonetti (che fra l’altro non credo sia proprio un convinto fautore del liberismo) sottovaluta, tuttavia, è la misura nella quale i decrescisti hanno in fondo e forse inconsapevolmente ragione se ci riferiamo alla prassi economica attuale, che tutto è fuorché neoliberista. Nella stessa identica maniera è ormai un luogo comune riferirsi al capitalismo e al neo-liberismo come alle principali cause dell’attuale e infinita crisi economica, senza accorgersi che in realtà ce la stiamo prendendo col loro contrario, ovvero con le cattive politiche economiche attuate da governi e istituzioni come le banche centrali; istituzioni, quelle sì, sfrenate e insofferenti di qualsiasi limite alla loro potenza.

Ecco che in ultima analisi, quindi, siamo davvero tutti per la decrescita, se questo significa rinunciare a influenzare e ridurre il campionario di libere scelte a disposizione dei cittadini in nome di qualche obiettivo macroeconomico e politico, come possono essere la stabilità dei prezzi, come la benedetta crescita del PIL, come del resto l’aumento del livello di occupazione, o più verosimilmente l’aumento del livello di vita di particolari gruppi di interesse. Il che non significa certo che rallentare sia la soluzione: la soluzione, per tornare a crescere e prosperare, è lasciare che ognuno proceda alla velocità che desidera.