martedì 9 ottobre 2018

istruzioni per essere belle persone su Facebook



Diciamolo, quella storia della virtù che sarebbe premio a sé stessa non ci ha mai convinto fino in fondo: a noi belle persone non basta sapere di essere delle bellissime persone, ma vorremmo che lo sapessero anche gli altri, vorremmo che ce lo dicessero, che ce lo ripetessero in continuazione. È per questo che è stato inventato Facebook, fra le altre cose. Lasciamo ad altri il riempire le loro bacheche con vuoti contenuti fatti di selfie disinibiti sulla spiaggia al tramonto con uno spritz in mano, di fotografie di piatti dall’apparenza più o meno commestibile, di buongiornissimi e tazzine di caffè, di catene di sant’Antonio e di fake news, per noi Facebook è soprattutto lo strumento ideale per la narrazione della nostra chebellapersonitudine.

Ma come fare a essere universalmente riconosciuti come persone meravigliose? Il nostro obiettivo è essere elogiati non solo dagli amici o dai parenti stretti ma raggiungere il maggior numero di utenti possibile, quindi creare contenuti virali: la nostra bellezza interiore deve essere tale da suscitare non solo della semplice ammirazione ma anche la voglia di diffondere il buon esempio, deve voler essere raccontata a sua volta, deve anzi suscitare l’illusione che condividere il racconto possa trasmettere un po’ di bella persona che siamo anche a chi condivide, che la nostra bellezza sia addirittura contagiosa. Qui di seguito cercherò di compilare una guida alla creazione di tali contenuti virali, servendomi di alcuni esempi elaborati all’uopo e commentati.

Fra gli ingredienti essenziali, prima di tutto, occorre una brutta persona alla quale contrapporre la propria nobiltà. La brutta persona può essere effettivamente presente nel racconto oppure no, ma la sua presenza implicita deve comunque aleggiare. Può far parte semplicemente del contesto sociale più ampio, come condizione che rende possibili le situazioni narrate alle quali noi ci contrapponiamo, o come immaginario interlocutore. La brutta persona potrebbe essere il maleducato che getta il mozzicone di sigaretta sulla spiaggia, quello che maltratta gli animali, il tizio che fischia alle ragazze per strada, oppure, e di questi tempi in particolare, il razzista.

Occorre poi una vittima, qualcuno (la cui presenza anche in questo caso potrebbe essere implicita) in posizione di debolezza che noi intendiamo proteggere dalla brutta persona: il cucciolo di foca, la donna molestata per strada, lo straniero, o anche l’onesto cittadino che paga le tasse. Talvolta la vittima coincide col narratore ma tale scelta a mio avviso non è consigliabile. Il genere “che bella persona che sono” non deve essere confuso con quello, completamente diverso, del “povero me”: non vogliamo suscitare pietà ma ammirazione e inoltre un eccesso di vittimismo può allontanare le simpatie dei lettori. Possiamo sì narrare situazioni di estremo disagio, senza vergognarci di toccare le corde del sentimentalismo, ma risulteremo più efficaci raccontandole in terza persona, come osservatori. Ci dilungheremo, semmai, nel descrivere le nostre emozioni di bella persona nell’osservare situazioni che “ci fanno fremere di rabbia”, “ci indignano profondamente”, “ci fanno venire le lacrime agli occhi”.

Occorre infine un evento, una situazione creata appunto dalla brutta persona e che si riflette in modo negativo sulla vittima, alla quale noi reagiamo facendo emergere, con la nostra reazione, tutta la magnificenza e lo splendore che abbiamo dentro. Passiamo a un esempio di narrazione che descrive una situazione tipo:

Questa mattina stavo recandomi a fare la mia solita donazione di sangue

Questa deve essere un’informazione buttata lì apparentemente per caso sulla quale non occorre tornare, e serve solo a creare dal primo istante un pregiudizio positivo verso il narratore. Altri esempi potrebbero essere: “stavo andando al centro di recupero per cuccioli di foca disabili dove svolgo volontariato”, oppure “intendevo recarmi a concimare naturalmente il mio orticello sociale dove coltivo cipolle biologiche”.

e sono salito su una vettura dell’autobus.

I mezzi pubblici sono da sempre il luogo ideale per far interagire persone che non si conoscono fra di loro e quindi far emergere i conflitti fra brutte persone da una parte, vittime e belle persone dall’altra. Non stiamo a specificare troppo l’ora, la località, e la linea di autobus, non vogliamo che qualcuno si metta a fare verifiche o che dica “c’ero anch’io”, ma non perché temiamo i controlli – non ammettiamo dubbi sulla nostra sincerità – ma solo perché non vogliamo distrarre il lettore dal contenuto essenziale (noi, noi, noi).

Vicino a me era compostamente seduta una signora di colore, vestita con i suoi sgargianti e tradizionali abiti colorati, e con un piccolo bambino in braccio che veniva allattato con un biberon.

Abbiamo trovato una vittima. Per essere efficaci al massimo, non basta dire “c’era una nera/uno zingaro/un cucciolo di foca”, ma dobbiamo aggiungere dettagli che aiutino a empatizzare con lei. La signora è seduta “compostamente” per indicare da subito l’alto livello di civiltà rispetto a chi la circonda, ella deve svettare in mezzo alla folla grazie al suo atteggiamento sempre dignitoso, come quello di una principessa in esilio, e anche il suo vestiario esotico deve riflettere questo status. Non abbiamo soltanto una signora in autobus, e non si tratta semplicemente di una generica “straniera”, ma siamo in presenza di Rigoberta Menchù in persona, di Vandana Shiva col pallino rosso in fronte, di Frida Kahlo e le sue sopracciglia, della regina di Saba. Allo stesso tempo il bambino introduce un elemento di ulteriore debolezza. La persona che abbiamo di fronte è una madre, non deve difendere solo sé stessa ma anche il suo cucciolo indifeso.

Alla fermata successiva sale il controllore.

Entra in scena il nostro vilain, e noi passiamo al tempo presente per creare un maggiore coinvolgimento. In questo caso si tratta di un uomo in divisa, che rappresenta l’autorità. Tale scelta è un po’ rischiosa perché molti lettori solidarizzano con l’autorità a prescindere (mentre altri l’avversano in quanto tale), quindi potrebbe essere più indicato un passeggero come gli altri. Il senso di profonda ingiustizia d’altra parte è amplificato proprio dall’abuso di autorità della brutta persona, e non sarebbe lo stesso se il sopruso fosse perpetrato da una persona qualunque.

Dopo aver cominciato a controllare i biglietti dei passeggeri in fondo alla vettura, non appena scorge la signora di colore il volto prima rilassato del controllore si contrae in una smorfia malevola.

Creiamo un po’ di attesa, di suspence.

Via via che si avvicina al sedile della signora, gli sguardi feroci verso di lei si fanno sempre più insistenti. Egli borbotta fra i denti parole incomprensibili ma che certo non suonano come apprezzamenti. Controlla svogliatamente i biglietti degli altri passeggeri in attesa di potersi avventare sulla sua preda, della quale già pregusta il sapore del sangue. Gli occhi gli si fanno di brace, il volto violaceo, la fronte calva si imperla di sudore, grandi sbuffi di aria calda escono dalle sue narici, il torace dell’uomo si alza a si abbassa a ritmi impetuosi, mentre anche il pingue ventre sembra sconquassato dalla tensione, e le sue piccole gambe eseguono un curioso balletto di avvicinamento.

La brutta persona deve suscitare un autentico senso di repulsione, più riusciamo a sottolineare questo aspetto più verrà esaltata la nostra magnificenza. Non bisogna temere di fare ricorso pure alla descrizione delle caratteristiche fisiche, anche se è preferibile non introdurle in maniera troppo diretta. Si noti come nel paragrafo precedente siamo riusciti ad accennare al fatto che il nostro vilain è pelato, grasso e basso (oltre che sudato e quindi forse maleodorante). D’altronde le sue frustrazioni dovranno avere origine da qualche parte.

Quando arriva davanti alla signora, il controllore prorompe finalmente in un tonante e trionfale quanto brutale: “ehi tu, fammi vedere il biglietto, veloce”.

L'oltraggio è avvenuto, oltraggio consistente nel tono arrogante e maleducato con cui il prepotente si rivolge alla sua vittima. Qui il rischio è quello di esagerare partendo da subito con un oltraggio gravissimo, ad esempio il controllore avrebbe potuto dire: “ehi tu, sporca ne*ra”, oppure avrebbe potuto prenderla a calci, o buttare il bimbo dal finestrino. Ma è meglio procedere per gradi, e descrivere una situazione che si fa via via sempre più esplosiva.

Nel mentre il bambino che tiene in braccio comincia a mostrare segni di agitazione, la signora benché sorpresa accenna un timido sorriso e si rivolge così al suo interlocutore, in un ottimo italiano appena venato da un accento straniero: “certo, potrebbe aspettare un secondo, per favore? come vede ho le mani occupate”.

Il contrasto fra la maleducazione del cattivo e l’atteggiamento calmo e composto della vittima deve emergere nettissimo. In ogni modo, dopo aver descritto il contesto sfavorevole alla vittima, qui abbiamo appena creato il pretesto, la miccia che farà esplodere l’odio della brutta persona.

Il controllore a questo punto si mette a urlare forsennatamente, tra i pianti disperati del povero bambino: “ecco, voi arrivate qui e credete sempre di fare come volete! ma non siamo a casa vostra! e se non siete capaci di rispettare delle semplici regole tornate indietro col gommone, la pacchia è finita, capito?”.

Fino ad adesso siamo stati testimoni passivi, ma di fronte a questa esplosione di odio razziale occorre intervenire e diventare protagonisti. La nostra entrata in scena dev’essere trionfale, occorre immaginarci a cavallo di un bianco destriero con un manto azzurro.

A questo punto non posso fare a meno di avvicinarmi ai due signori e apostrofare così il controllore: “chiedo venia, buon uomo, ma non si rende conto che le sue stentoree vocalizzazioni hanno appena provocato uno stato di agitazione in codesta piccola creatura bisognosa di cibo e calore? sono persuaso che la distinta passeggera qui presente sarà quanto prima in grado di esporre il suo titolo di viaggio regolarmente obliterato, se solo lei volesse pazientare”.

Il nostro linguaggio deve segnare al tempo stesso la distanza fra noi e la cattiva persona, che si esprimerà in modo ovviamente rozzo e sguaiato, ma anche fra noi e la vittima, che in quanto tale e bisognosa di soccorso avrà un linguaggio sì dignitoso, ma anche semplice, umile, non forbito come il nostro.

Il controllore mi risponde: “lei si facci i fatti suoi, buonista! è per colpa di voi radical chic che l’Italia si è riempita di simili parassiti delinquenti”, “mi pare che lei sia vittima di un pregiudizio razziale, cosa che non mi stupisce visto che deve aver ricevuto un’educazione che non la mette nemmeno in grado di usare i congiuntivi in maniera appropriata. Ma suggerisco di lasciare alla signora la possibilità di dimostrare la propria innocenza”, “ah, io sarebbi ignorante, è arrivato il professorone! Sa cosa le dico? Meglio ignorante che amico di questi ne*ri!  puah”, e sputa per terra.

Adesso che la brutta persona si è rivelata in tutto il suo orrore, è tempo, per la bella persona di mostrare sacrosanta indignazione. E anche di tirare fuori un paio di argomenti che fanno parte del kit essenziale degli strumenti retorici della bella persona.

Io non ci vedo più e mi rivolgo in tono pacato ma fermo al mio interlocutore: “Ma si rende conto di quello che dice? Ma non sa che le sue parole vanno contro l’articolo 3 della Costituzione? Non sa quanto i nostri antenati hanno combattuto, sulle colline, per liberare l’Italia da persone che come lei volevano discriminare altre persone in base al colore della loro pelle? Non capisce che sta riportando indietro il nostro paese a settant’anni fa?”.

Fino ad ora abbiamo raccontato una storia di ordinario razzismo sui mezzi pubblici, e la nostra normale reazione di protesta. Gli ingredienti fondamentali già ci sono, ma se vogliamo diventare virali occorre qualcosa di più, dobbiamo suscitare nel lettore vera rabbia, e per raggiungere lo scopo non dobbiamo temere di sacrificare un po’ di verosimiglianza.

Il controllore prima mi guarda furioso, ma all’improvviso scoppia in una risata satanica. “Ma… cosa le prende?”, dico io. “Ahahah, voi proprio non avete capito. Lo so benissimo che prima certe cose non si potevano dire, ma adesso è cambiato tutto! tutto! adesso c’è SALVINI! Sì, SALVINI! finalmente noi razzisti possiamo dire senza paura di essere razzisti! e anzi, sa cosa le dico? che si stava meglio quando c’era LUI, è inutile che mi guardi così, sa benissimo a chi alludo, sto parlando del DUCE, di BENITO, ahahah, che bello poterlo nominare. E per sovrapprezzo, guardi bene cosa faccio!”. E in quell’istante, con mio grandissimo sgomento, alza tutto fiero il braccio a formare un saluto romano.

Questo è il momento della nera disperazione, della solitudine, del sentimento della sconfitta.

I miei incubi peggiori si stanno realizzando proprio davanti ai miei occhi, sento il mio volto rigarsi di lacrime e il mio cuore che affonda lentamente in un mare di angoscia. Provo a guardarmi in giro sull’autobus e a mormorare, agli altri passeggeri: “e voi non gli dite niente, davvero volete permettere che accadano queste cose?” ma tutti distolgono lo sguardo o fanno finta di osservare con esclusiva attenzione lo schermo dei loro smartphone.

La solitudine non serve soltanto a comunicare la tristezza del momento, ovviamente, ma anche a far risaltare l’eccezione costituita dalla propria bella persona. Inoltre abbiamo inserito un breve accenno di critica all’alienazione della vita moderna provocata dai mezzi di comunicazione, che rendono l’uomo contemporaneo non in grado di sintonizzarsi sugli eventi reali che li circondano bla bla bla.

“Hai capito, sporca ne*ra? Io vi farei affondare a tutti col barcone, a te e pure al tuo bambino che tanto da grande diventerà uno spacciatore e un violentatore”.

L’orrore continua ma adesso siamo giunti a una situazione apparentemente senza uscita, e occorre un colpo di scena. Dobbiamo introdurre un altro personaggio.

In quel momento dal fondo dall’autobus si alza con fatica aiutandosi con un bastone una signora anzianissima, molto elegante, e urla al controllore con tono di estrema gravità: “insomma, la smetta”. Il fatto di aver trovato improvvisamente un nuovo avversario comincia a far perdere un po’ di baldanza al controllore che comunque esclama: “e adesso lei cosa vuole, vecchia megera?”.

Se abbiamo dei conigli nel cappello, tiriamoli fuori adesso.

“Giovanotto, io ho 98 anni, e sono proprio una di quelle persone che sono state ricordate poco fa, che hanno combattuto contro i fascisti. Quand’ero ancora una ragazza ho fatto la staffetta per i partigiani, ho rischiato la mia vita innumerevoli volte, una volta i fascisti mi hanno persino catturata e torturata. Dopo la guerra mi hanno riempito di medaglie, mi hanno trattato da eroina. Ciononostante, oggi, non mi sono sentita un’eroina ma una vigliacca, perché ho assistito a un atto di vile prevaricazione contro una persona debole, una cosa che va contro tutti i principi per cui da giovane ho combattuto, e non ho mosso un dito. E sarei rimasta in silenzio, se non fosse stato per quest’altro buon giovine [indica noi] che a quanto pare da solo possiede gli attributi per opporsi alla barbarie che in questo triste giorno ha avuto l’ardire di ripresentarsi. Ma adesso ho trovato anch’io il coraggio, e le dico che se davvero intende continuare a vessare questa povera signora e il suo bambino, ebbene prima dovrà passare sul mio anziano e fragile corpo!”.

È un momento molto delicato, perché nel momento stesso in cui celebriamo la nostra bella persona, dobbiamo passare dall’azione individuale a quella collettiva. Non siamo più soli contro il nemico, anche se siamo quelli che hanno dato il via alla ribellione.

Una ragazzina con lo zaino in spalla, che sta evidentemente recandosi a scuola, si fa avanti e dice: “è vero, io sono giovane e non ho vissuto certe cose, ma la maestra mi ha spiegato che durante il fascismo gli ebrei non potevano andare a scuola e venivano deportati e io non voglio che qualcuno faccia del male alla mia compagna di banco”. Anche un punk a bestia pieno di piercing si mette a urlare: “ehi, zio, non vogliamo il fascismo e il razzismo, cioè che storia, raga!”. È poi la volta di un signore in giacca e cravatta: “giusto, nemmeno io voglio il razzismo!”.

Si tratta del momento “attimo fuggente” (dal finale del film quando tutti i ragazzi si alzano e urlano: “capitano, mio capitano”), sempre molto efficace nel creare un certo pathos.

In una sorta di crescendo meraviglioso, tutti i passeggeri dell’autobus, a turno, si fanno avanti e dicono in faccia al controllore: “non vogliamo il razzismo”. Il controllore si fa sempre più piccino e sembra voglia sparire, rivelando così la tipica vigliaccheria dei fascistelli, e poi quando l’autista apre le porte esce fuori senza più dire una parola.

Abbiamo vinto, ma non è sufficiente. Dobbiamo assaporare il trionfo.

La signora africana si inginocchia con grande dignità e compostezza e si mette a baciarmi i piedi mentre io mi schernisco, poi mi porge una statuina di plastica rappresentante una Venere paleolitica, dicendo: “questa apparteneva a mia madre, e prima a mia nonna, e prima ancora alla mia bisnonna. È un oggetto sacro di grandissima importanza per la mia famiglia, ma io te lo vendo per soli 10 euro, e visto che sta per piovere aggiungo questo ombrellino”, mentre tutto l’autobus prorompe in un applauso fragoroso al nostro indirizzo.

E, infine, la morale edificante.

Così, per almeno qualche minuto, mi sono sentito estremamente fiero, e ho sentito che c’è ancora una speranza per il nostro paese. I nemici dell’accoglienza e dell’integrazione possono sembrare invincibili, ma a volte basta un piccolo gesto per sconfiggere l’ignoranza e far trionfare il bene. Basterebbe che ognuno di noi si sforzasse di non restare indifferente, non occorrono grandi gesti di eroismo ma a volte è sufficiente reagire all’ignoranza e alla prepotenza dei nuovi barbari per vederli scappare. Ho voluto raccontare questo episodio non per vantarmi

certo

ma solo per dare un barlume di ottimismo ai tanti che intravedono un futuro molto buio per l’Italia e per i valori sui quali è stata costruita.

Questo è lo scheletro di un tipico post virale di una bella persona su Facebook, ma naturalmente ci possono essere molti altri tipi e variazioni sul tema. Per esempio, se qui lo schema, molto classico, è “eroe solitario che affronta il drago e salva la principessa”, un modo molto più sottile per dipingersi come bella persona potrebbe essere, per paradosso, proprio il denunciarsi come pieni dei pregiudizi tipici delle brutte persone (ma per poi ravvedersi). Il racconto cioè consiste nel trionfo della bella persona sulla brutta persona interiorizzata. Vediamo.

Ieri notte mi è capitata una singolare avventura. Mi trovavo da sola, tornando a casa dopo una festa in maschera organizzata per autofinanziare il circolo vegano al quale sono iscritta, dentro un vagone della metropolitana. Ero un po’ brilla e vestita col costumino sexy della principessa Leia Organa prigioniera di Jabba the Hutt, ciononostante mi sentivo tranquilla.

Questo finché nel vagone non è entrata un’altra persona. Si trattava di un ragazzo di origine africana con una tuta da ginnastica, un cappellino con la visiera portato alla rovescia, i pantaloni col cavallo basso che gli conferivano un’andatura strana, e con i capelli rasta, che si è messo a sedere di fronte a me a gambe un po’ divaricate e ascoltando della musica da un cellulare, muovendo ritmicamente la testa e ogni tanto sollevando lo sguardo verso di me. Ho cominciato a sentirmi un po’ a disagio, e a non vedere l’ora che la metropolitana arrivasse alla stazione dove ero diretta.

Il fatto di essere sola in compagnia di un perfetto sconosciuto mi turbava, e inoltre, lo ammetto, trovavo il suo abbigliamento non troppo rassicurante. “Sarà uno spacciatore?” mi sono chiesta, “o magari un magnaccia… o chissà, potrebbe proprio essere uno stupratore seriale in cerca di vittime, ecco perché mi guarda in modo lascivo. E se tutte quelle cose che si dicono sugli stranieri fossero vere? E se domani finissi sui giornali come ennesimo caso di donna barbaramente stuprata e uccisa da un nero?”.

Ero sempre più nervosa e a un certo punto ho cominciato proprio ad avvertire un certo panico. Ho preso quindi la risoluzione di uscire dal vagone non appena si fossero aperte le porte. E infatti quando la metro ha cominciato a rallentare io mi sono alzata e avvicinata alle porte. Intanto tenevo sotto controllo il ragazzo che alzando un attimo lo sguardo mi ha fatto un cenno di saluto, però è rimasto seduto, cosa che mi ha un po’ rassicurato. Quando le porte si sono aperte sono uscita tutta contenta e ho fatto due passi fuori dal vagone, cominciando a rilassarmi. Fatti pochi metri, però, e sentendo le porte chiudersi, mi sono girata, e lì mi accorgo con orrore che il ragazzo è uscito anche lui e sta correndo verso di me!

Mi sono sentita il cuore in gola e con una fortissima scarica di adrenalina mi sono messa a correre anch’io per la stazione. “Sei una cretina” mi dicevo intanto “aveva ragione la zia Concetta, questi stranieri sono tutti uguali, non hanno rispetto per le donne, e ora io pagherò con la vita, o peggio, il prezzo della mia ingenuità”. Intanto il ragazzo urlava: “aspetta, fermati!” mentre io mormoravo fra me “col cavolo, bastardo, se proprio vuoi stuprarmi devi prima prendermi”. Solo che purtroppo non appena ho raggiunto le scale mobili sono inciampata sul primo gradino rovinando a terra.

“Ecco, è finita” ho pensato, mentre ho visto che il ragazzo mi raggiungeva, per poi mettermi a urlare: “non farmi del male ti prego, fai pure quello che vuoi ma almeno non picchiarmi!”. “Principessa Leia, hai dimenticato questo sul sedile”, mi ha detto lui gentilmente, porgendomi un portafogli che doveva essere scivolato dalla borsetta.

Improvvisamente mi sono sentita una merda. E ho capito come persino io, che mi credevo tanto illuminata e di sinistra, sia piena di brutti pregiudizi razzisti. Ringraziando il ragazzo, commossa, ho aperto il portafogli e ho detto “lascia che ti ricompensi per la tua gentilezza”, ma lui mi ha risposto, con molta dignità: “non voglio niente, ho semplicemente fatto il mio dovere; vedi, sono convinto che le persone debbano aiutarsi fra di loro, altrimenti questa città diventerebbe una giungla”. “Ma ti prego”, ho insistito “dimmi una maniera in cui io possa mostrare la mia gratitudine”. “Lascia perdere, non avrei più rispetto della mia persona se accettassi una ricompensa solo per essermi comportato da essere umano e non potrei più guardarmi allo specchio” e ha cominciato ad allontanarsi. “Dimmi almeno come ti chiami” ho urlato, al che lui si è girato sventolando i suoi rasta, e in quel momento mi sono accorta che era un bellissimo ragazzo, mi ha sorriso con i suoi splendenti denti bianchi, e mi ha detto il suo nome seguito da “che la forza sia con te, principessa”. Poi i suoi denti sono gradualmente svaniti nel buio della stazione.

Il racconto non può finire così, perché nonostante l’episodio di ravvedimento non abbiamo fatto abbastanza per apparire come bella persona, e anzi la bella figura l’abbiamo lasciata fare solo a quella che dovrebbe essere la vittima. Ma c’è una seconda parte.

Questa mattina ho fatto delle indagini sul conto del ragazzo a partire dal suo nome. Ho scoperto che è arrivato due anni fa in Italia dall’Eritrea, dove prima di fuggire perché perseguitato dalla dittatura per motivi politici aveva preso una laurea in ingegneria automobilistica. È venuto con un barcone insieme alla sua famiglia, ovvero una madre paralizzata, un padre cieco, e una sorellina di quattro anni malata che dovrebbe subire una delicatissima e costosa operazione al cuore. Lui è l’unico sostentamento per tutti costoro e per sopravvivere fa ben tre lavori: il manovale, il cameriere, e il buttafuori in discoteca.

Allora ho deciso di fare una cosa che mi ha fatto sentire un po’ in colpa: ho disobbedito al ragazzo. Ho messo un assegno da centomila euro in una busta e l’ho spedito per assicurata all’indirizzo del mio eroe, con una breve nota dove ho scritto: “Spero che bastino per curare la tua sorellina e per dare alla tua famiglia un po’ di sollievo. Non preoccuparti, posso permettermelo, siamo qui per aiutarci l’uno con l’altro altrimenti questo paese diventerebbe una giungla. Non avrei rispetto per me stessa se non facessi quello che considero il mio dovere, si tratta di un modo per continuare a guardarmi allo specchio. Firmato: Principessa Leia. P.S. Nei prossimi giorni dovrebbe arrivarti anche un’offerta di lavoro da un’importante ditta di automobili di lusso, e chissà, forse anche un invito a cena dalla figlia dell’amministratore delegato”.

Morale:

Da soli non possiamo cambiare la società, è difficile riuscire a fare la differenza, per noi piccole formiche schiacciate da un ingranaggio più potente, per tutti quanti. Possiamo però impedire che la società ci cambi, e che ci inietti i suoi pregiudizi, le sue paure, che ci renda simili a tutte le altre persone “perbene” là fuori. E spero di aver fatto una piccola differenza almeno per la famiglia del ragazzo che ha voluto essere gentile con me. Non perché voglia farmi applaudire e ricevere molti like

certo

ma solo perché quel ragazzo gentile si merita una vita migliore di quella che avuto fino ad adesso.

Naturalmente occorre anche un po’ di fantasia, non esiste un generatore automatico di post di belle persone, ma altre situazioni potrebbero riassumersi in, per esempio:

a) esco di casa con un’amica ma per il modo in cui siamo vestite riceviamo apprezzamenti molesti da un gruppo di maschi, con grande imbarazzo dell’amica che è molto timida, ma io li stendo tutti con qualche mossa di karatè e lo spray al peperoncino, e di seguito gli rifilo una lezione sul patriarcato dopo la quale due di loro si accorgono che il loro atteggiamento macho serviva solo a mascherare un’omosessualità repressa e si baciano tra loro, mentre gli altri corrono a iscriversi a un corso di uncinetto.

b) offro il pranzo a un mendicante straniero e vengo insultato per questo dal barista che cerca di dirmi: “prima gli italiani, con tutti i problemi che abbiamo ad arrivare a fine mese”, solo che io gli faccio notare che non fa mai lo scontrino ai clienti, che i suoi dipendenti lavorano tutti a nero e inoltre siccome lavoro per i NAS e trovo un sacco di cose non a norma gli faccio chiudere il locale e lo spedisco pure in galera (questo farà impazzire di gioia molti contatti).

c) trovo un gruppo di persone in piazza che manifestano contro l’ideologia gender, e non potendo tollerare questo affronto alla libertà sessuale decido di mettermi a urlare il più forte possibile delle frasi estratte dai libri di Judith Butler, quindi dopo venti minuti di questa tortura cercano di allontanarmi, dandomi l’opportunità di postare una foto dal pronto soccorso dove si vede il livido che mi hanno lasciato sul braccio quando mi hanno spintonato e di denunciare la vile aggressione di gruppo contro una donna indifesa e solitaria (nel mentre la polizia assisteva alla violenza senza fare niente).

e via dicendo.

Se seguite queste istruzioni, naturalmente mettendoci il vostro tocco personale e unico, vi garantisco che i vostri post su Facebook otterranno un successo strepitoso, centinaia di condivisioni, decine di nuove amicizie e soprattutto tantissimi complimenti, migliaia di commenti che riporteranno le seguenti deliziose frasi: “che bella persona che sei”, “meno male che al mondo ci sono anche quelli come te”, “che creatura meravigliosa ho la fortuna di avere fra gli amici di Facebook”, “tu rendi il pianeta un posto migliore”. Quanto al trasformare questo capitale di “che bella persona” in qualcosa di più utile, come soldi o opportunità di lavoro, ci sto ancora lavorando ma non appena avrò trovato una strategia ideale sarà mia premura comunicarvela.

mercoledì 28 giugno 2017

macellerie messicane (una storia di violenza)


Nella sera del 21 luglio del 2001 i reparti della polizia mobile, col supporto dei carabinieri, fecero irruzione nella scuola Diaz di Genova, dove erano accampati gli attivisti del Genova Social Forum che protestavano contro il G8 che si teneva in quei giorni in città. In un’atmosfera già surriscaldata dagli scontri di piazza e dalla morte – il giorno precedente – del manifestante Carlo Giuliani, l’irruzione si risolse in un pestaggio violentissimo e indiscriminato che fece in seguito parlare il vicequestore Michelangelo Fournier, presente agli avvenimenti, di una scena da “macelleria messicana”.

Sebbene l’espressione venne già usata nel corso di un interrogatorio a ridosso degli avvenimenti, nel 2001, acquistò popolarità nei media soltanto qualche anno più tardi. Il curioso modo di dire con tutta probabilità evocava, nell’immaginario dei lettori, una situazione di disordine e scarsa igiene, come può essere quella di un luogo addetto alla macellazione di animali in un paese percepito come “terzo mondo” (anche sotto l’influenza del cinema americano) e quindi carente quanto a normative sanitarie. Oppure il fatto che il Messico è effettivamente considerato come uno dei luoghi più pericolosi dove vivere, a causa della violenza dei narcotrafficanti.

Qualcuno però si ricordò che Fournier non era stato il primo a usarla, e che quindi si trattava in realtà di una dotta citazione (come confermato dalla frase, successivamente pronunciata in un’intervista: “mannaggia a me e la mia fissa per la storia del Novecento”). A evocare la “macelleria messicana” era stato uno dei capi della resistenza partigiana – che dì a poco sarebbe divenuto Presidente del Consiglio italiano – e cioè Ferruccio Parri, per esprimere lo sdegno per lo scempio che era stato fatto il 29 aprile del 1945, a Piazzale Loreto, dei cadaveri di Benito Mussolini, di Claretta Petacci, e di altri gerarchi fascisti, appesi a testa in giù al traliccio di un benzinaio, esposti alla rabbia e al vilipendio della folla. La questione quindi diventa: perché a Ferruccio Parri venne in mente il Messico?

L’ipotesi più frequente, avanzata per esempio da Pino Cacucci, grande conoscitore del paese, è che c’entra la rivoluzione messicana avvenuta fra gli anni ’10 e gli anni ’20 del Novecento; Cacucci attribuisce cioè al “sensazionalismo pressapochista e superficiale dei giornalisti italiani” che raccontavano gli eccessi della rivoluzione la nomea che il Messico aveva come luogo deputato alle violenze. Per il direttore di Internazionale Giovanni De Mauro invece il riferimento sarebbe addirittura alla battaglia di Alamo del 1836, dove persero la vita Davy Crockett e qualche altro centinaio di persone. Quest’ultima ipotesi mi sembra del tutto campata per aria, probabilmente ispirata al fatto che inserendo “mexican butchery” su Google Books si trovano giusto un paio di occorrenze legate all’episodio di Fort Alamo. Peccato che “butchery” in inglese sia sovente usato nel senso di “massacro” (“the savage killing of large numbers of people”) e che vi si possa appiccicare qualsiasi altro aggettivo legato a una nazionalità o un’etnia, dove l’aggettivo indica sempre il responsabile della strage. Per esempio “italian butchery” riferito ai massacri in Etiopia e così via (molto frequenti le occorrenze di “indian butchery”).

Per quanto riguarda la teoria di Pino Cacucci, invece, è interessante come lui stesso fornisca gli argomenti per respingerla, nel parlarne come di “un’uscita infelice e fuori luogo”: perché un comandante partigiano avrebbe dovuto mancare di rispetto nei confronti della prima rivoluzione del secolo? Parri non aveva esempi ben più idonei e più vicini di “bassa macelleria”, come quelli offerti dalla Grande Guerra, o appunto gli stermini commessi in Africa anche da parte delle truppe italiane? In realtà la teoria mi pare strampalata soprattutto perché l’episodio al quale Parri si riferisce non è affatto qualificabile come un “massacro”: Mussolini e gli altri erano già stati uccisi, e non era certo la loro esecuzione che Parri condannava (con la possibile eccezione della Petacci), ma l’esposizione dei corpi. La macelleria è qui intesa proprio come luogo fisico, come il posto dove i cadaveri delle bestie vengono fatti a pezzi e appesi ai ganci. Di nuovo, allora, perché “messicana”?

Su Wikipedia è scritto che alcuni attribuiscono la frase, invece che a Parri, a un altro capo della resistenza, e cioè a Leo Valiani. Purtroppo anche questa notizia è priva di fonti e pure cercando altrove non si riesce a capire chi siano questi “alcuni” [aggiornamento: si tratta probabilmente di una semplice svista di Sergio Romano, in questo articolo]; salta subito all’occhio però che la frase, pronunciata da lui, avrebbe molto più senso, dato che Valiani era da poco tornato dal Messico. C’era stato, esule, dal 1940 al 1943. Quanto al giudizio negativo poteva provenirgli dalla sua diretta esperienza personale, visto che lui stesso era sfuggito a un tentativo di linciaggio da parte di una folla.

Valiani in quell’occasione stava partecipando, insieme allo scrittore e rivoluzionario russo Victor Serge, a un comizio pubblico di protesta per l’esecuzione di due comunisti polacchi in Unione Sovietica (Ehrlich e Alter) uccisi per ordine di Stalin, quando vennero attaccati da un folto gruppo di stalinisti ortodossi che probabilmente avevano l’intenzione di uccidere Serge: furono salvati appena in tempo dall’arrivo della polizia (cfr. Leo Valiani, Sessant’anni di avventure e battaglie, 1983). Il Messico non doveva essere un posto facilissimo per i dissidenti dalla politica di Stalin, come dimostra anche la tragica fine di Trotsky, ucciso a picconate alla nuca e a tradimento dallo zio di Christian De Sica. Può darsi quindi che Valiani parlando di “macelleria messicana” stesse esprimendo un duro giudizio non tanto sul Messico e sulla sua rivoluzione quanto sugli eccessi del comunismo, dal quale si era ormai distanziato anche dal punto di vista ideologico.
                                              
Anche se questa interpretazione risulta appena più plausibile, rimane il fatto che la frase viene principalmente attribuita a Parri e non a Valiani, e non si potrebbe nemmeno escludere che l’attribuzione a Valiani nasca, a posteriori, proprio in virtù della sua esperienza messicana. Se vogliamo dirla tutta, non si può nemmeno essere sicuri che quella frase, così come viene tramandata, sia mai stata pronunciata da qualcuno. Se la fonte di Fournier è quasi certamente la famosa Storia d’Italia di Montanelli e Cervi – dove nel volume dedicato alla liberazione (uscito nel 1983) un intero capitolo è intitolato “Macelleria messicana” –  troviamo una precedente occorrenza della frase in un numero del periodico Epoca del 28 gennaio 1973 (da me consultato): “Quando dissero al comandante Maurizio (Ferruccio Parri) che avevano appeso Claretta Petacci a un gancio, ruggì: ‘È una macelleria messicana!’”.

Si tratta di un articolo firmato da Guido Gerosa – che segue un altro articolo di Franco Bandini sui misteri sulla morte del Duce – dal titolo “Hitler lo ha saputo?” e col sottotitolo “Come appresero la notizia i protagonisti del conflitto mondiale e gli uomini politici italiani”. Se qualcuno fosse a conoscenza di occorrenze ancora precedenti e me le segnalasse ovviamente mi farebbe un favore, ma può essere un indizio sulle fonti utilizzate da Gerosa il fatto che in quella parte dell’articolo gli avvenimenti sembrano narrati dal punto di vista di Charles Poletti, che era il governatore americano della Lombardia (noto anche per i suoi rapporti ambigui con la mafia siciliana). Poletti sembra cioè ritagliarsi un ruolo da efficiente e pragmatico deus ex machina: trovati i vertici del Comitato di Liberazione in preda all’angoscia per quello che stava succedendo in Piazzale Loreto consigliò di prendere la cosa con filosofia (“È fatta ormai”), ma suggerì anche di porre fine allo strazio portando i cadaveri in un obitorio.

In successive interviste Poletti rievoca gli avvenimenti in termini molto simili, arrivando addirittura a giustificare di fronte a uno sconfortato Parri la reazione della folla (“penso che dovremmo comprendere questo tipo di comportamento dopo tutte queste emozioni represse e le sofferenze della gente sotto il fascismo e il nazismo”) ma anche con una divertente variazione: “In ogni modo, per evitare che continuasse la gazzarra intorno agli impiccati, domandai di vedere Parri […]. Lo trovai sconvolto e preoccupato. ‘Quei cadaveri – gli dissi – bisogna farli sparire al più presto. Non posso tollerare che il furore del popolo vada al di là di certi limiti e sconfini in una sarabanda africana’”, dove troviamo quindi che la “macelleria messicana” si è trasformata in una sincretistica “sarabanda africana” e soprattutto dove a pronunciare la frase è adesso Poletti e non più Parri (cfr. Charles Poletti, Charles Poletti. “Governatore d’Italia”, a cura di Lamberto Mercuri).

Se proviamo a decifrare il sottotesto ideologico (cosa del resto non difficile) è evidente la volontà da parte di Poletti di presentare il governo italiano come disorganizzato, incapace di affrontare la situazione e di gestirla persino da un punto di vista emotivo, nel mentre gli alleati americani si dimostrano in grado di comprendere i moventi della folla ma anche di porvi rimedio. Non sarebbe quindi sconvolgente se scoprissimo che la sconnessa espressione attribuita a Parri fosse una deliberata invenzione di Poletti. Frasi diverse ma somiglianti si trovano comunque formulate anche altrove: per esempio nel 1949 sul periodico La Settimana Incom l’episodio di Piazzale Loreto venne definito dal giornalista Gaetano Baldacci un “macello da Termidoro” (cfr. il bel volume di Sergio Luzzatto Il corpo del Duce), espressione decisamente meno ambigua e più comprensibile che allude agli eccessi e alle ghigliottine della Rivoluzione Francese (anche se il Termidoro fu, per la precisione, il colpo di stato che mise fine al periodo del Terrore di Robespierre).

Ma assumendo invece che la frase sia stata davvero pronunciata, e pronunciata da Parri, vorrei proporre la mia personale teoria, consapevole che si tratta di una labilissima ipotesi praticamente priva di fonti e supporto empirico, ma che mi sembra almeno godere del vantaggio di avere un senso. Per illustrarla al meglio, credo che occorra fare ancora qualche passo indietro, e parlare degli episodi che precedettero i fatti di Piazzale Loreto nel ’45. Quel posto infatti aveva una certa tradizione in fatto di macelleria.

Come noto il luogo in cui scaricare e abbandonare il cadavere di Mussolini, che era stato fucilato il giorno prima, non venne scelto a caso ma aveva un valore simbolico. L’anno prima, il 10 agosto del 1944, e proprio nello stesso angolo della piazza, erano stati fucilati 15 partigiani i cui corpi scomposti vennero poi lasciati esposti all’aperto per l’intera giornata e sotto la calura estiva, ricoperti di mosche, sorvegliati da un plotone di militi fascisti. L’atto voleva essere a sua volta una rappresaglia per un attentato (mai rivendicato da nessuno) che era avvenuto un paio di giorni prima contro un camion tedesco nelle vicinanze, attentato che aveva ferito solo un soldato tedesco e ucciso sei cittadini milanesi. Siamo cioè di fronte a una sorta di rituale consolidato le cui origini si perdono nella notte dei tempi: l’esposizione dei cadaveri (o parti di essi) a scopo intimidatorio e come gesto simbolico di supremo disprezzo nei confronti del nemico, trattato letteralmente come un animale da macello. Nel periodo che precedette la liberazione italiana episodi simili, perpetrati come rappresaglia dalle truppe nazifasciste, furono purtroppo abbastanza frequenti.

Prima ancora della Seconda Guerra Mondiale, nel 1920, Piazzale Loreto era stato il teatro di un altro episodio cruento: in quell’occasione una folla di manifestanti anarchici aggredì il brigadiere dei carabinieri Giuseppe Ugolini, che tentò di reagire sparando ma venne linciato. L’autopsia stabilì che nel corso dell’aggressione gli erano state amputate quattro dita. Per una straordinaria coincidenza a commentare l’episodio fu proprio Benito Mussolini dalle pagine del Popolo d’Italia, con parole che avrebbero potuto benissimo riferirsi al suo destino 25 anni più tardi: “La storia italiana non ha episodi cosi atroci come quello di piazzale Loreto. Nemmeno le tribù antropofaghe infieriscono sui morti. Bisogna dire che quei linciatori non rappresentavano l’avvenire, ma un ritorno all'uomo ancestrale (che forse, era moralmente più sano dell’uomo civilizzato)”.

Al di là della coincidenza, è interessante (ed è un indizio) come il primo paragone che viene in mente a Mussolini, sia pure per respingerlo, è quello con le “tribù antropofaghe”. Se nemmeno esse, comunque, arrivano a tali livelli di ferocia, è certo che tali comportamenti rappresentano “un ritorno all’uomo ancestrale” in opposizione all’uomo civilizzato. È interessante anche perché Mussolini ha ovviamente torto, al confine con la malafede, quando afferma che la storia italiana non conosce episodi così atroci (per fare un solo esempio, si potrebbe citare la morte di Jacopo de’ Pazzi dopo la congiura dei Pazzi e il suo trattamento post-mortem). A quanto pare quando si ha a che fare con una realtà sgradevole, e prossima, si preferisce evocare come termini di paragone popoli lontani nel tempo e nello spazio, piuttosto che esempi più vicini e immediati.

Riassumendo, abbiamo a che fare con un comportamento rituale, potremmo anche dire di tipo sacrificale, codificato forse anche a livello inconscio nella cultura popolare che – in particolari occasioni e con il giusto stimolo – è in grado di rispolverare tradizioni che sembrano dimenticate, ma che al tempo stesso evoca la barbarie assoluta, ciò che è più distante da noi e dalla nostra cultura. Si potrebbe obiettare come l’esposizione del cadavere di Mussolini fu in realtà una sorta di necessità logistica, per tenere sotto controllo una folla che si accalcava sempre di più per vederne il corpo steso e rischiava di schiacciarlo, ma simili considerazioni di razionalità potrebbero valere per molti rituali apparentemente selvaggi.

Per tornare a Parri, e per concludere, prima della guerra era stato un insegnante di storia e geografia al liceo. Ci potremmo chiedere quale Messico gli era più familiare, se quello temporalmente vicino di Pancho Villa ed Emiliano Zapata o quello, ben più anteriore, di Cortés e Montezuma. Gli Aztechi identificavano loro stessi col nome di “Mexica”, mentre il termine col quale li conosciamo oggi è stato coniato, allo scopo di distinguerli dai moderni messicani, da Alexander von Humboldt all’inizio dell’Ottocento. In ogni caso le narrazioni che parlano della conquista dell’impero azteco da parte degli spagnoli portano spesso, nel titolo, la parola “Messico”, come nel caso del monumentale La conquista del Messico di William Prescott scritto nel 1843, uno dei libri più popolari sull’impresa di Cortés e degli spagnoli.

Ci sono poi i libri scritti dei conquistadores stessi, come Cortés e Bernal Díaz del Castillo. In questi resoconti Parri avrebbe potuto benissimo trovare descrizioni di “macellerie messicane” che ben si adattavano a quel che intendeva esprimere. Una delle caratteristiche del popolo azteco che meglio si è impressa nella cultura popolare infatti è proprio il sacrificio umano su grande scala, probabilmente anche esagerato, nella sua estensione, dai primi cronisti. Ne La conquista del Messico di Bernal Díaz del Castillo si possono leggere brani come: “ogni giorno sacrificavano davanti a noi tre, quattro, o anche cinque indiani, e ne offrivano i cuori ai loro idoli, e lordavano di sangue le pareti degli oratori, e gli tagliavano le gambe, le braccia, e le cosce, e se le mangiavano come da noi si mangia la carne nelle macellerie”.



Né mancano gli scritti in italiano, come Gli Antichi Messicani di Carlo Cattaneo che abbonda di particolari splatter: “un prigioniero veniva afferrato e prosteso supino sulla pietra del sacrificio e tenuto fermo da quattro sacerdoti per le braccia e le piante, mentre un quinto gli premeva la gola con un giogo di legno in forma di serpente. Allora il sommo sacerdote, con un coltello di pietra ossidiana, specie di vetro vulcanico assai tagliente, gli fendeva a traverso il petto […]. Poi gettavano il cadavere, giù per le scale grondanti di sangue, ai devoti che seduti l'aspettavano e se lo recavano sulle spalle alle orride cene […] Le carni umane, consacrate dall'orribile sacrificio, venivano divise a tutte le famiglie, sicché tutti i credenti in quella tremenda fede vi partecipassero; e abbrustolate, venivano poste sopra polente di mais, e senza miscela di profani intingoli, ingoiate”. A proposito dei cadaveri dei gerarchi fascisti, riporta ancora Luzzatto che fra i commenti della folla ve n’erano anche riguardanti la floridezza delle carni delle vittime (“sono belli grassi”): si tratta solo di una critica sociale (loro ingrassano mentre il popolo deperisce) o c’è anche una connotazione cannibalistica?

Per quanto riguarda l’esibizione dei resti, possiamo ricordare gli tzompantli, che erano intelaiature di legno, nei quali i teschi dei nemici e delle vittime sacrificali venivano allineati per essere esposti pubblicamente. Nella rastrelliera presente nella piazza principale di Tenochtitlàn vi erano migliaia di teschi, forse 60.000, anche se tali numeri vanno sempre accolti con diffidenza. Ancora oggi comunque un certo ricordo dei macabri sacrifici permane, in Messico, attraverso l’uso di fabbricare i calaveras, teschi di zucchero che vengono regalati in occasione del giorno dei morti. Anche lo scempio di Piazzale Loreto trova un seguito simbolico fino ai nostri giorni, tramite la memificazione del corpo appeso di Benito Mussolini.



Ferruccio Parri, parlando di macellerie messicane, alludeva ai sacrifici umani praticati dagli aztechi? Probabilmente non lo sapremo mai. Inoltre mi rendo conto che si potrebbe anche reagire, ad una simile ipotesi, con un sonoro “chi se ne frega” ma concepisco questo mio post come un minuscolo contributo alla storia del “selvaggismo” (savagism), ovvero la costruzione dell’identità dell’altro, in particolare delle popolazioni considerate più lontane ed esotiche, proiettandovi le caratteristiche più odiate della nostra stessa cultura (è un tema di cui mi sono occupato recentemente, e un po' più seriamente, in questo articolo). Come riferimento o precedente bibliografico, potrei citare un capitolo di Cannibal Talk dove l’antropologo Gananath Obeyesekere analizza un episodio di linciaggio avvenuto nella Francia del 1870 (al centro di un libro di Alain Corbin, Le village des cannibales) per mostrare come nella Francia moderna continuino a viaggiare, in maniera sotterranea ma per emergere talvolta in maniera improvvisa, pensieri e ansie associati allo smembramento corporale e al cannibalismo tipico dei “selvaggi”.

Cacucci non ha tutti i torti: le parole di Parri (ammesso che le abbia dette davvero) sarebbero davvero e in ogni caso fuori luogo, nello stigmatizzare un popolo e attribuirgli una violenza che appartiene tutta a noi (anche considerando che la vera macelleria, in America, è semmai stata quella degli europei contro gli indigeni). In questo senso dobbiamo concordare con la definizione che Giorgio Bocca diede di Piazzale Loreto (o almeno con la seconda parte della definizione): “un atto rivoluzionario su cui si farà dell’inutile moralismo”.


Aggiornamento: dalla discussione su Facebook sono emerse altre due ipotesi che mi pare giusto menzionare.
1) le “macellerie messicane”, nel senso di slaughterhouse, avrebbero avuto una brutta nomea negli Stati Uniti a causa dell’abitudine dei messicani di mangiare carne di cavallo, alimento tabù per gli statunitensi; questo potrebbe essere un indizio a favore dell’ipotesi per cui l’espressione è stata inventata da Charles Poletti.
2) facendo una ricerca sull’espressione francese “boucherie mexicaine” è emersa una citazione di Léon Degrelle (altra particolarissima figura, che potrebbe aver ispirato il personaggio di Tintin) dove si parla delle persecuzioni antireligiose in Messico; ne prendo atto ma la considero allo stesso livello di probabilità, come possibile ispirazione di Parri, dell’ipotesi Fort Alamo.

Aggiornamento del 7 gennaio 2018: un’occorrenza precedente a quella di Guido Gerosa su Epoca del 1973 è stata infine scoperta, in una discussione su twitter del collettivo Wu Ming. Si tratta di un libro dello storico inglese Richard Collier dal titolo Duce! Duce! Ascesa e caduta di Benito Mussolini, pubblicato in italiano nel 1971, probabile fonte di Gerosa. Anche qui l’episodio sembrerebbe narrato dal punto di vista di Charles Poletti.

(grazie alla nonna di peter per la consulenza)